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SCRITTI POLITICI
DI
TERENZIO MAMIANI.


SCRITTI POLITICI

DI

TERENZIO MAMIANI.


EDIZIONE ORDINATA DALL'AUTORE.

FIRENZE.
FELICE LE MONNIER.

1853.


INDICE


[v]

AVVERTIMENTO DELL'EDITORE.

Un obbligo mi corre di delicata onestà nel dar fuori questo primo Volume delle Opere dell'egregio Terenzio Mamiani: ed è, che questo aver dato principio alla collezione di esse dagli Scritti politici, è avvenuto contro il primo concetto formatosi e contro la prima intenzione a me dichiarata dal medesimo Autore. Non già ch'egli provasse pentimento nè alcuna vergogna delle opinioni che, secondo coscienza, aveva in quelli espresse o propugnate: ma pareva a lui, che quegli articoli ed opuscoli, la maggior parte improvvisati nei tumultuosi tempi che corsero in ispecie dal 1847 al 49, non fossero per la lor forma tali, di che la comune patria potesse in qualche modo onorarsi, nè procederne verace incremento alla fama che il dettatore di essi erasi con le altre sue produzioni meritata. Ed a me, d'altra parte, era avviso che quelle scritture già sparse dovessero e insieme raccogliersi e riprodursi prima che maggiormente invecchiassero (per così parlare) le questioni che in quelle si agitano; ed anche perchè dal loro avvicinamento venisse più compiuta e la generale idea di esse, e più sicuro il giudizio che il pubblico avrebbe dovuto pronunziarne. Sicchè, quando mi vidi al fine compiaciuto del grazioso assentimento di lui a questo mio desiderio, mi sentii pure compreso da un doppio affetto di gratitudine, parendomi che alla già usata cortesia di permettermi la ristampa delle sue Opere, egli avesse come posto [vi] il colmo col farmi sagrifizio di quella sua particolare opinione.

Comechessia, essendomi venuto a notizia che il signor Mamiani non ha interamente deposto gli scrupoli a cui qui dianzi accennavasi; nè potendosi ormai soprattenere il divulgamento di questo Volume, ch'è già in procinto di spedizione e da assaissimi richiesto; ho stimato dicevol consiglio, a far piena fede dell'animo di lui, il produrre alcuni brani di una lettera ch'egli scrive intorno a ciò ad un suo quasi conterraneo ed amico. «Temo e dubito forte di avere errato a cedere alle iterate e cortesissime istanze del signor Felice Le Monnier. Sónomi avveduto, rileggendo quelle mie povere filastrocche sbalzate fuori dall'occasione e dalla necessità, che io m'illudeva a sperare ch'elle facessero cenno a quella forma speciale di perfezione che l'Italia domanda oggi a' suoi scrittori politici.» — «I tempi non concedevano (ad Ugo Foscolo) di usare uno stile corretto e purgato; ma il vigore, l'affetto e la veemenza non possono venir superati. Io, invece, avevo dai tempi facoltà e modo di scrivere con rigor di grammatica e proprietà esatta di voci e di frasi..... Ma nemmeno questo pregio ò saputo ben conseguire, e m'accorgo di avere inciampato troppo spesso in neologismi, e adoperato una lingua nè schietta nè evidente nè sicura nè viva.» — «Neppure son tanto acerbo con me medesimo, che io non conosca le molte e buone scuse che io ò della mia foggia di scrivere. Tra l'altre, la novità della materia, l'aver dovuto spesso parlare al popolo, l'esser vissuto in Francia, tornato assai tardi agli studj della lingua; pressochè ogni cosa scritta come gittava la penna ec.» — «Ma sopprimere l'edizione non si potrebbe, e conviene mandarla al palio.»

[vii]

In queste parole se molti ammireranno, com'è ben certo, la modestia rarissima di chi ponevale in carte non coll'intento che fossero depositate nel seno dell'amicizia, ma con quello assai manifesto che servissero di avvertenza alla presente pubblicazione; io spero altresì che altri vorranno leggervi e l'acquiescenza di lui al mio proprio divisamento, e la mia brama di adempiere ad ogni più squisita maniera di riguardi verso la persona dell'onorevole Autore. Per ciò poi che concerne alle materie, delle quali in questo come in ogni altro caso mai non m'ebbi arrogato il sapere nè il voler giudicare, mi gode l'animo di poter rimettere i leggitori a quello che ne è ragionato da un valoroso giovane Piemontese nella qui seguente Prefazione.

F. Le Monnier.

[ix]

PREFAZIONE

Discorrere a parte a parte le opere filosofiche e letterarie in cui si esercitò l'ingegno di Terenzio Mamiani; seguirne il discorso speculativo, incominciando col Rinnovamento della Filosofia Italiana e dimorando ai Dialoghi di Scienza Prima; e dire della perpetua eleganza con cui la classica forma e la pellegrinità dei concetti si maritano negli Inni, negli Idilii, e nelle altre minori composizioni di lui, sarebbe impresa la quale ricercherebbe non pure comodità di tempo e ampiezza di spazio che non abbiamo, ma, e più ancora, quella copia di dottrina e vigoria di mente a pochi soltanto concedute; sulle quali se chi scrive qui credesse di far capitale, meriterebbe nota più che di presuntuoso, di stolto.

Men largo e più facile intento hanno le brevi parole onde, a modo di Prefazione, accompagniamo le Prose politiche del Mamiani; poichè le nostre avvertenze, pretermesse le altre considerazioni che ragguardano l'illustre Autore, toccheranno solamente della natura delle dottrine civili da lui costantemente professate, e di cui il presente volume è insigne documento.

Terenzio Mamiani si connumera fra i più valorosi continuatori della antica scuola politica italiana. La quale fiorita, prima in Europa dopo il rinascimento, mercè sovrattutto dei Fiorentini e dei Veneti ingegni, non pure è splendido monumento del passato, ma, siccome quella che poggiò sui veri ed [x] inconcussi principii, sarà per essere buona guida sola essa nei progredimenti avvenire. La tradizione sua sembrò chiudersi con Paolo Sarpi e colla libertà delle Repubbliche, a malgrado della copiosa bibliografia del seicento, e non ostante le onorate prove che, pur ormeggiando i Francesi, fecero nello scorso secolo i Napoletani massimamente; e non venne ripigliata con originalità di vena e sincerità di nazionale impronta, fuorchè nei tempi a noi più vicini, dapprima, grazie agli scritti di Gian-Domenico Romagnosi e di Ugo Foscolo, poscia per opera di quegli illustri coetanei che ognuno nomina a dito.

L'antica scuola italiana pose a fondamento suo l'osservazione diligente dei fatti; e lo studio dell'esperienza ne è il carattere particolare. Questa dote le fu principalmente conferita dalla qualità degli scrittori, uomini tutti che si erano mescolati nel vivo delle faccende, ed erano stati attori pria che disputatori di politica. Mal cercheresti quindi, a modo di esempio, nel Machiavello o in Donato Giannotti o in Paolo Paruta quelle nebbiose visioni dei missionarii d'oggidì, per cui pare dettata la sentenza di Tacito: omne ignotum pro magnifico est; nei padri nostri era notizia profonda delle necessità della natura umana invincibili e degli insuperabili ostacoli che spesso al volere frappone la dura legge del fatto. Partecipi dei sommi magistrati nelle loro città, rammentavano, scrivendo, quante sono le difficoltà del reggimento, e quante dell'innovare e del mutare le malagevolezze instanti e le conseguenti; troppo erano rigidi calcolatori di ciò che è, per lasciarsi adescare dai vapori e dalle noje della fantasia.

Cotesto ritegno salutare induceva forse in essi una eccessiva timidità di speculazione, per cui il loro pensiero si raggirava di soverchio nei nudi fenomeni, e rado assorgeva alle origini e alle supreme ragioni del diritto, fuor delle quali s'immiserisce la discussione dei problemi sociali, e l'arte stessa [xi] del governare manca di base certa. Per lo che il progresso naturale della scuola italiana rinnovata dovea consistere appunto nell'accoppiamento del severo metodo sperimentale del Machiavello colla generosa e libera signoria dei veri ideali, nella cui contemplazione il genio di Giambattista Vico si era levato solitario e gigante.

Il Vico avea detto che «questo mondo civile egli è certamente stato fatto dagli uomini: onde se ne possono, perchè se ne debbono, ritrovare i principii dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana.» Ugo Foscolo costituì il suo discorso sulla detta massima, tentando l'alleanza dell'osservazione e della filosofia. E noi facciamo speciale ricordo di lui, così per debito di giustizia, essendo finora rimasti pressochè ignoti all'Italia gli scritti politici suoi, come perchè ne parve scorgere nel fiero cantor dei Sepolcri una notabile parentela d'idee col Mamiani. Fu il Foscolo, infatti, che descrivendo la servitù della patria, pronunziò che nell'educazione dell'individuo stava la somma di ogni radicale miglioramento politico, ed ebbe il coraggio di snudare la piaga velenosa delle fazioni e delle sètte che dilaniano le viscere d'Italia, e la fecero e fanno impotente; verberò quindi a sangue con quell'unica sua veemenza di stile le ipocrisie e le corruttele d'ogni maniera che avea sott'occhio; e ripudiando una infiammativa teorica che potea sorridergli nell'immaginazione ardente, si appartò da chi si faceva banditore di stato popolare in questa contrada martoriata e avvilita da tre secoli di tirannide, e oppressa da tanta mole di ignoranza e di superstizione. S'industriava egli pertanto colle parole e cogli atti ad ottenere «il solo governo comportabile dai nostri costumi; ed è, un monarca potente per sola autorità di leggi, per sola forza di armi italiane.» E discorrendo collo sguardo la serie delle italiane sventure, e scrutando perchè così spesso cotanto buoni cominciamenti ebbero pessimo fine, dalle rupi elvetiche dove andava ramingando e piangendo [xii] lo sterminio dell'ultima speranza italiana, compiuto collo sperperamento dell'esercito del Regno d'Italia, tuonava con voce di solenne e profetal rampogna, che prima e sopra di ogni questione di libertà, prima e sopra di ogni contesa di maggiori o minori larghezze di statuti e di leggi, vi è e vi sarà la impresa della Indipendenza della Patria; e che questa si tenterà indarno finchè le resíe scandalose delle fazioni apriranno al ferro nemico la breccia nelle nostre file, le quali, divise e le une dalle altre divulse, saranno prima sgominate che combattute.

Chi raccolga questi sensi che informano gli scritti del Foscolo e gli riscontri con quelli che signoreggiano le prose di Terenzio Mamiani, vedrà quanta amicizia di pensieri e comunanza di affetti corra fra i due Italiani, e come si accordino a capello nelle pratiche conclusioni e negli intendimenti finali. Del che mal si renderebbe ragione ove si avesse l'occhio solamente alle diversità che passano fra le qualità dell'ingegno dei due scrittori, l'uno dei quali precipita il corso coll'impeto della bufera, e l'altro il prosegue colla tranquilla maestà di un fiume arginato; ma di leggieri se ne avrà la spiegazione quando si consideri che ambidue, tenerissimi essendo della italianità, educarono la mente sui patrii esemplari, e da questi ritrassero l'abito di sperare le cose alla luce del vero obbiettivo, e non già colla lente variopinta del desiderio e del sentimento proprio. Vero è che il Foscolo cresciuto fra il sensismo dello scorso secolo e la scuola dell'Enciclopedia, e, per natura, incline ad una irosa melanconia, accolse ne' suoi libri principii al tutto contrarii a quelli che invalgono oggidì intorno ai dogmi della vita universa, e che sulle origini e su' fini sociali ragiona per lo più colle funeste teorie del tetro filosofo di Malmesbury; le quali ove si menasser buone da senno, sarebbe follia il travagliarsi a felicitare la razza umana ed a riformare il governo dei popoli. Il Mamiani invece, alunno e campione della spiritualità che [xiii] regna la filosofia presente, e fedele alle umane ispirazioni del Cristianesimo, il quale abbraccia l'intiera famiglia dei viventi come fratelli ed apre ai caduti la via della redenzione anche quaggiù, si aggira e spazia in più serena regione di pensamenti, e studia i quesiti del viver socievole colla fede e coll'amore che ingagliardano l'ingegno e lo allenano allo scoprimento della verità riposta.

Ma se questa preminenza filosofica del Mamiani dee in alcuna guisa attribuirsi a maggior felicità di tempi, è tutta sua loda la copia larghissima di sapere che ne rincalza le scritture, e la invidiata castigatezza dello stile e della lingua onde sono da lui tratteggiate le quistioni di Stato, di economia e di giure pubblico, disusati argomenti alla prosa italiana. Chi si faccia a considerare la condizione della letteratura di questi ultimi anni, dovrà pur troppo lamentar la grande sterilità di opere fortemente pensate e con amore condotte; e troverà per contro una ridondanza infinita di opuscoletti e di scrittarelli in cui la gioventù studiosa snerva l'ingegno impaziente. Addestrata così nella facile palestra dell'improvviso dettare, si persuade che il magistero dello scrivere, la scienza del pensare, e, per giunta, l'arte stessa dell'amministrare gli Stati, s'impara mercè di una specie d'intuito misterioso, o si possiede per beneficio di natura. Intanto il popolo dei lettori si avvezza a tenersi erudito in politica, perchè vede manifestamente di saperne quanto lo scrittore che gli ammannisce il giornale o il libercolo: e si viene di tal fatta educando, prima, una generazione leggicchiante, il cui stomaco debilitato ricuserà a corto andare ogni sostanziale e nutritivo alimento; poi un'altra generazione sfringuellante, che cucendo e ricucendo a strazio della grammatica qualche decina di frasi, costiperà il sapere nazionale nelle dosi infinitesimali degli omiopatici. Ma questo non è buono apparecchio per chi vuol sedere un giorno nei consigli della Nazione, e i reggimenti liberi male si puntellano colle sonore iperboli e colle vacue astrattezze, che [xiv] sono tutto il costoro bagaglio. Nè strapazzando la lingua, e dando irrecusabil saggio di non aver avuta dimestichezza di sorta coi Classici nostri, si acquista vanto di prodi Italiani.

Gli scritti del Mamiani eserciteranno a questo fine un salutevole influsso sugli studi dei giovani, e proveranno ad un tempo che il culto delle ottime lettere, non torna a scapito del profondo pensare, e non reca nocumento alla costanza delle politiche opinioni. Vedendo infatti in un sol corpo raccolte le cose da lui dettate in mezzo a quel vertiginoso incalzarsi di avvenimenti straordinarii di cui fummo spettatori nell'ultimo quinquennio, nessuno potrà non ammirare la perduranza insigne del Pubblicista nostro, che per mutar di venti non piegò costa nè mutò ciglio, e serbò invitta fede ai convincimenti suoi. Ossequente al senno pratico, che fu già prerogativa degli Italiani, e che in quegli ultimi casi sembrò smarrito e disperso, ebbe sempre fisso nell'animo, che in politica il meglio è gran nemico del bene, e non credette bene vero ciò che non era possibile ed asseguibile; parlò un linguaggio solo e nell'esiglio quando incerte erano le speranze, e quando spuntarono i lieti albori del sospirato tempo; poscia, allorchè colla Repubblica Francese del 1848 crebbero contro i riformati governi d'Italia i pericoli delle sètte rigermoglianti, con penna fatidica prenunziò i mali che si apparecchiavano alla patria vezzeggiando inconsultamente le novità d'oltremonte e discostandosi dalla nativa spontaneità del nostro rivolgimento; e nel giorno nefasto in cui le colpe dei regnatori, la levità del popolo e le nequizie delle fazioni distrussero il Principato, e sfrenando la civile discordia aprirono le porte all'invasione, alla conquista e al servaggio, secolari fati d'Italia, protestò dal Campidoglio colla eloquenza dell'uomo di Stato e col coraggio del cittadino, facendo indarno, cogli scarsi compagni, ultimo riparo al gonfiato torrente delle passioni.

[xv]

Assegnatezza di desiderii o liberalità di tolleranza conciliativa tanto più rare e commendabili, in quanto che s'incontrano in uomo percosso dalla domestica tirannia, e che nell'esiglio avea logorata molta porzione della vita. Sono acerbe le punture dell'esiglio, quando vivo è l'amore della patria, e lo sbandeggiamento è premio dell'averla amata con degne opere. Agevolmente si ricevono allora nell'animo preoccupazioni esiziali, per cui la stessa generosa religione della libertà riesce a pernicie della nobil causa. L'errore più comune dei fuorusciti è quello di credersi i veri e soli interpreti della Nazione, non pure in ciò che concerne l'universale desiderio di più umani istituti, ma eziandio riguardo alle forme che debbono questi assumere e alle vie da eleggere per ottenerli. Portano fiducia che un medesimo calore d'affetto riscaldi tutta quanta la cittadinanza loro, e che la faccia lieta a qualsivoglia sacrifizio; costretti a vivere in mezzo ad altri popoli, si avvezzano a loro insaputa a giudicare del popolo loro colle idee di fuori e con quelle che essi vanno idoleggiando. Il desiderio della patria perduta e la bramosia di racquistarla generano in loro una credulità senza pari: credulità negli eventi che reputano prossimi, immanchevoli ed accomodati ai loro divisamenti: credulità nelle promesse degli estranei, che, nei paesi liberi, quando stanno dal lato della opposizione, non si fanno coscienza di largheggiare in parole per accattare benivoglienza e popolar clientela; ma ove salgano in palazzo, badano agli interessi dello Stato, e si reggono secondo la bilancia di questi, non colle voglie altrui: credulità, per ultimo, nelle forze di lor parte e nei riscontri che ne hanno dai consenzienti o dai pietosi, i quali leniscono agli assenti il dolore colle lusinghe del meglio vicino.

Tra gli esuli poi, molti o per condizione di fortuna o affinità di pensieri stanno in commercio colle parti più vive delle ospitali terre; si aggirano così in una temperie artifiziata [xvi] e ristretta, e si straniano ovvero abborrono da ciò che nei più numerosi e forti ordini sociali si pensa e si opera. Quindi è che le giuste ire proprie sono del continuo rinfocolate dalle ire degli stranieri conventicoli, che trattano le ombre di lor possanza come cosa salda, e fomentano nei rifuggiti l'inclinazione alle dottrine estreme ed alle teoriche più arrisicate di governo.

Chi mediti le dottrine del Mamiani, apprenderà come abbia egli saputo tenersi immune da questi erramenti, per così dire, fatali, e come in ciò niuna lode di moderanza e di senno gli basti. Ed oggidì che la migliore Italia è proscritta, e confessa la bontà dei propositi col sigillo della sventura degnamente sopportata, necessario è ricordare più spesso cotali pericoli dell'esilio. Che se in noi fosse alcuna autorità di nome, o qualche efficacia di eloquenza, le quali non abbiamo, qui conchiuderemmo il dire insistendo su quest'ultima virtù dell'esule Pesarese, e rivolgeremmo la parola alla gioventù della emigrazione, dicendole con gran cuore: — Durissime sorti vi premono, e la grandezza delle miserie vostre null'altro agguaglia fuorchè la immacolata costanza onde la sostenete. Con voi si aduna il fiore delle provincie e l'onore delle città vostre; e se è vero il detto di Niccolò Machiavelli, essere più glorioso il titolo di orrevole ribello, che il vivere schiavo cittadino, voi avete diritto non al rispetto soltanto, ma all'amore e alla riverenza di ogni buon Italiano, e di chiunque ama la libertà e la patria. Infelicissime sono le condizioni d'Italia, e le enormità dei ristorati governi che la disertano, lascian dietro per ferocia le nefandezze che la storia dei tempi andati abbia meglio infamate, consacrandone gli autori al vindice abominio dei secoli. Ogni giorno che spunta illumina scelleranze novelle; ogni notizia che giunga da quei vietati confini, narra i casi di alcuna impresa che supera le precedenti in barbarie. E a noi pure, nati nel Regno Subalpino, felicitati da proteggevoli e bene amate istituzioni, [xvii] ai quali perciò costa meno il consigliar prudenza e longanimità, a noi pure viene spesso sulle labbra la voce della collera indarno soffocata. Alle ire vostre noi facciam quindi ragione, essendochè soffrite tanto più di noi, e provate vive e nel petto stridenti le punte dell'angoscia e dell'insulto. Ma deh! lo sdegno non vincavi, come sarete vincitori per fermo delle corruttele e dello sconforto increscioso, corruttela pari alle altre. Appunto perchè non scernete coll'occhio fiso e bramoso nè lume di stella che splenda, nè vento che spiri propizio, deh! non aumentate le difficoltà della comune intrapresa che richiederà unanimità di sforzi eroici, coll'aggiungere nuovo pondo e nuovo carico alla nave. Respingete i consigli troppo assoluti, e le idee scombujate e piene d'incertezza; non preoccupate le contingenze dell'avvenire con sistemi nati nell'ora dello sdegno e condannati già dall'esperienza, maestra suprema dell'arte politica. È utopista chiunque mura in aria senza il sussidio dei fatti: se alla mente umana è dato di antivedere l'ordine generale del movimento civile, e discoprire anticipatamente i sommi capi di un rinnovamento politico, le è contesa nondimanco la divinazione degli accidenti e il conoscimento preventivo degli atti particolari che debbono comporre il disegno provvidenziale. Ripudiate per conseguente le improntitudini delle sètte, che compilano e promulgano da qualche affumicata taverna i capitoli del futuro statuto italiano, e lo inaffiano non col sangue proprio, ma con quello di ignari ed ingannati seguaci; non vi allettino le superficiali e fallaci dottrine della così detta sovranità popolare, che a' suoi patroni procaccia il breve favore del volgo, e al despoto astuto il lungo impero della spada; disegnando e colorendo l'Italia futura, non dimentichiamo l'Italia presente, e non iscambiamo le realtà coi fantasimi vani. Di tre membri consta la proposizione intorno a cui la generazione presente, erede delle aspirazioni più o men distinte delle età trascorse, [xviii] si affatica e si affaticherà senza posa insino all'integrale suo componimento: l'uno ragguarda l'Indipendenza, base di ogni Italia e di ogni civil signoria; l'altro versa intorno all'acquisto di un liberale governo; l'indipendenza poi, quando fosse acquistata, rimarrebbe pericolante e mal difesa se non la tutelassero le armi confederate dell'intiera Penisola, e le forme liberali scapestrerebbero nell'anarchia dei voleri, ove non le moderasse un supremo centro di azione sovrana. Sappiamo anche noi che non si ritesse la tela del passato, e che chi si sequestra nelle angustie di una formola, smarrisce la vena operativa che si apre feconda al cospetto degli avvenimenti che sorgono e si svolgono improvvisi ed inaspettati; ma queste dottrine che furono verità, or volgono cinque anni, questi principii che sono appunto propugnati dal Mamiani insieme coll'altra onorata schiera, sono verità d'oggi tuttavia, e forse lo saranno sempre. Lasciamo all'avvenire di risecare ciò che vi sarà di mobile e di accessorio nella loro attuazione; lasciamo all'avvenire la cura di gettar la luce fra le tenebre; prepariamo di quest'avvenire l'evento. Ed a voi, esulanti per amore d'Italia, non cada dall'animo che nella universale dejezione della Penisola, la libertà e la nazionale dignità ebbero un rifugio inespugnato nel Piemonte, dove, non ostante le gelosie e gli odii che lo bersagliano, la concordia degli animi e gli influssi della libertà ordinata medicano a poco a poco le ferite amplissime che lo solcarono. E ciò chiarisca alla patria italiana, che meglio profittano agli Stati i lenti e sicuri progressi, che non i repentini sconvolgimenti disformi dalle abitudini dei popoli e dalla tradizione anticata. A voi, reduci un giorno nelle ville natie, daranno autorità e suffragio di popolo i ben sopportati patimenti, e il pregio di senno pratico che si suppone in chi dimorò nei paesi retti a vivere libero: or bene, di questa forza morale valetevi a temperare le baldanze che trescano nei momenti felici; e al pari di Terenzio Mamiani, recate con voi quella modestia di giudizio che tanto [xix] rimane offesa dalle astiose rimembranze del passato, quanto è impossibile allorchè si culla l'intelletto con insulse generalità di politiche logomachíe: a voi allora si apparterrà il vanto più altero che possa toccare ad uomo quaggiù, il vanto di autori e conservatori della libertà nella patria. —

Torino, 18 marzo 1853.

Domenico Carutti.

[1]

PARTE PRIMA. TEMPI DI RIFORME.

[3]

Venne in luce questo Parere nel 1839 in Parigi. Ma, come ne avvisa lo stesso Autore, i Documenti Pratici contenuti nella seconda parte uscivano l'anno avanti, ed erano, a quanto sappiamo, la prima scrittura italiana che significasse il concetto di porre in disuso le temerarie cospirazioni, e volgere tutto l'animo all'educazione delle moltitudini, ed a persuadere ai governi riforme e miglioramenti. Dell'altra parte dell'opuscolo la principale intenzione si fu d'indurre a calcare la nuova via non pure gl'ingegni molto assegnati, ma i fervidi ed impazienti, e che pigliavano ancora speranza in certa setta famosa e ne' suoi disegni fantastici. Ma pochi de' moderati conobber lo scritto; i cospiratori lo dispregiarono, e nessuna menzione ne venne fatta in istampa, salvo che in un Articolo della Revue des deux Mondes, ove fu censurato con brevi e sentenziose parole.

Dopo quattordici anni e tanti casi sopravvenuti, riesce ancora acconcissimo il pensamento più generale del libricciuolo, che è di educare noi stessi e il popol minuto, e tutta la gran famiglia italiana infiammare nel sentimento di nazione. Scorgeva sin d'allora l'Autore, che le moltitudini non educate, e con civile e bene ordinata carità non soccorse e non provvedute, o rimarrebbono fredde e incuranti dell'opera dei liberali, o gitterebbonsi in braccio degli utopisti fanatici. Su molte cose peraltro che in questo scritterello sono annunciate come operabili, l'Autore à corretto alquanto il giudicio suo, e riconosciuto maggiori e più numerose le difficoltà che l'attuazione di quelle impediscono. E d'altra parte, egli ragionava di speranze remote e d'ultimi perfezionamenti sociali.

[5]

NOSTRO PARERE INTORNO ALLE COSE ITALIANE.

I.

Qualora con occhio diligente si osservino le condizioni dello Stato lombardo, del toscano, del pontificio e del piemontese, vedesi aperto che in ciascuno di essi malamente si potrebbe tentare con mano armata l'acquisto della libertà. Il regno lombardo à i forestieri poderosi sul collo, e la Toscana è picciola e inerme; alle provincie romane mancheria il tempo per gli apparecchi delle difese; e il simile convien pensare altresì del Piemonte, alla cui città capitale possono venir sopra i Tedeschi con due marciate. Genova e la Liguria sono, è vero, muniti dai monti e dal mare, e nudrono popolazioni assai vigorose e pugnaci: ma i castelli che à sopra capo quella città, e possono in poche ore guastarla, debbonla suo malgrado far paurosa a tentare un'aperta sollevazione.

Invece, se da queste provincie italiane si volta lo sguardo alle Due Sicilie e si pon mente alle peculiari lor condizioni, sembra di doverne dedurre conclusione assai differente.

Quivi le lunghe distanze e la gagliardia che subito acquista il commovimento d'un vasto reame porgono agio e modo per ordinarsi a respingere lo straniero: quivi poco meno che otto milioni di cittadini abbondanti d'arme, di danaro e di vettovaglie: quivi, sopratutto, un suolo che pare da natura appostatamente configurato alle guerresche difese; il perchè un nostro buon cittadino lo assomigliò, con gran convenienza, ad una fortezza esposta all'assalto degl'inimici nella sola sua fronte, e questa, bene fortificata e non larga, e avente dietro di sè muraglie, fosse e bastioni a più ordini, e [6] da ultimo una vasta e inespugnabile cittadella, che è l'isola di Sicilia.

Per queste cose, allorchè i forestieri ci chiedono quale cagione prepotente e continua interdice all'Italia meridionale d'insorgere, noi non sappiamo trovare le scuse nè molto spedite nè molto legittime.

II.

La Santa Alleanza è disciolta: le massime e le pratiche di libertà vannosi radicando in Francia, in Belgio, nella Svizzera e nella Spagna. In Inghilterra, l'autorità e la forza sono passate pressochè interamente nella Camera dei comuni. La stessa Germania alle forme costituzionali si lega e si stringe più saldamente ogni giorno. In tale disposizione d'Europa, non è dubbio nessuno che il generale e compiuto insorgere delle provincie napolitane, e supposto ch'elle si mostrassero ferme ed abili a sostenere i primi urti delle schiere tedesche, raccoglierebbe meglio che i voti e le propensioni della Francia; imperocchè i medesimi affezionati a Luigi-Filippo ed al reggimento de' suoi ministri sentono, quasi per atto d'istinto, che alla monarchia nuova degli Orléans, per vivere riposata e sicura, fa bisogno di avere amicizia e conformità di principj e di ordini con le nazioni circonvicine. Lasciando stare che il progresso delle opinioni verso un andamento più liberale della politica esterna sembra in Francia divenire tanto più certo, quanto la fiacchezza dei governi assoluti rendesi più manifesta. Degl'Inglesi poi si può dire che mai sotto il governo dei Wighs non sopporterebbono di vedere le truppe austriache sbarcare in copia e padroneggiare nella Sicilia.

Ma l'Austria medesima, quanto à meno di potenza e di predominio che nel 1821!

Fuori, le manca la lega dei re, i congressi di Lubiana e di Verona, la facile prevalenza dei principj del reggimento assoluto: dentro, à la paura d'ogni mutazione e d'ogni riforma, à l'Ungheria e la Transilvania in bollore, la Galizia conspirante, la Boemia scontenta, e le popolazioni scismatiche [7] secretamente devote alla Russia. Aggiungi il tesoro esausto, le rendite insufficienti, un imperatore idiota, un ministro vicino a decrepitezza. Aggiungi le gravi apprensioni sugli affari d'Oriente, e i progressi del moscovita lungo il mar Nero e intorno al Danubio. Da ultimo, aggiungi il desiderio di libertà e d'indipendenza, molto più propagato e vivo in tutte le parti della nostra penisola. Quindi intervenire pericolo grave che a un primo scontro d'armi per gl'imperiali non fortunato, veggasi tutta l'Italia avvampare di tanto più sdegno e furore, quanto le umiliazioni sue ed i patimenti e le sofferenze sono state lunghe e crudeli.[1]

III.

Ora, se tutte insieme queste prospere congiunture non bastano a persuadere agl'Italiani del mezzogiorno una generale sollevazione per redimersi in libertà, forza è concludere, o che quivi le opinioni liberali procedano ancora assai lente, e dimorino in soli quegli ordini del consorzio civile che quanto abbondano di agi e di buona istruzione, altrettanto si peritano di affrontare pericoli estremi; ovvero che la memoria delle passate sventure tenga tutti gli animi impauriti ed incerti. Nell'un caso e nell'altro noi affermiamo che il sano partito a cui debbonsi oggi appigliare ostinatamente e con fede i generosi e i dabbene, si è di darsi ciascuno a rialzare intorno di sè gli spiriti soverchiamente abbattuti, e a stenebrare le menti del popolo con lunga e paziente opera. Questo, diciamo, è da farsi con gran pertinacia, con gran solerzia, con grandissima alacrità; e non commettere la scempiezza e la codardia insieme o di aspettare oziando e bamboleggiando che i Francesi scendano giù dalle Alpi per rompere le nostre catene, o che la fortuna intessa con le sue mani e componga noi non sappiamo bene che sorta di avvenimenti [8] straordinarj, onde un bel giorno ci ritroviamo, quasi per atto di negromanzia, divenuti liberi ed indipendenti.

Noi sentiamo rispondere da parecchi, che per verità ei non aspettano nè l'uno nè l'altro di tali prodigi, ma sì spiano quel momento desiderato in cui le forze tedesche occupate e distratte fuori d'Italia non potranno resistere se non debolmente assai alla rivoluzione italiana.

Contro a siffatto ragionamento noi obbiettiamo, che visti e considerati per bene i casi politici odierni, e raffrontate insieme le condizioni diverse degli Stati d'Europa, niun avvenimento sappiam noi prevedere di quella natura e di quella efficacia che si spera e attende da cotestoro. A simile giudicio noi siamo indotti malgrado nostro dalla virtù prepotente della verità, e non badando ch'ei possa riuscire amaro a moltissimi: imperocchè la salute d'Italia non pensiamo che sia per sorgere mai dalle lusinghe e dai sogni del corrivo desiderio e della troppo accesa immaginazione.

IV.

Le cagioni più gagliarde che ci ànno mossi a formare cotal giudicio sono le infrascritte:

Tre avvenimenti crediamo noi che sia lecito di prevedere come capaci di distrarre e occupare fuori d'Italia le forze tedesche: una guerra fra i potentati d'Europa; una rivoluzione nuova in Francia; una sedizione grave e durevole in alcune parti dell'impero austriaco. Noi del primo affermiamo potersi ben dare alcune guerre parziali fra i potentati inferiori e alcune dimostrazioni ostili fra i superiori represse tostochè cominciate; ma una guerra generale europea non mai; principalmente, perchè tutte le corone ne tremano come di certa ruina loro: e se lo Czar non ci vede pericolo molto vicino per la propria dominazione, ei non possiede la metà dell'ardire che gli bisogna per rompere la prima lancia e strascinar seco a forza i paurosi alleati. Oltrechè, la rabbia rintuzzata ma inestinguibile della Polonia, la piaga inciprignita della schiavitù in casa, il tesoro insufficiente e mal custodito, le triste prove fatte, or son pochi anni, a Varna, a [9] Silistria, a Ostrolenga; e più, la certezza di perdere le nuove sue flotte e veder disertate dall'Inghilterra le sue marine, terranlo indubitatamente a segno. E si osservi quante occasioni prossime e vive di guerra sono sopravvenute in questi ultimi anni, che poi si conducevano al niente. Noti ciascuno eziandio come nei casi dell'Oriente, gravissimi, precipitosi e di suprema importanza, gli sdegni, le minacce e le offese si risolvono d'ambo i lati in vane mostre e parole. Debbesi egli tenere per vicina e probabile una guerra europea, quando si pensa che l'Inghilterra è tuttavia travagliata nelle proprie sue viscere da un conflitto incessante tra le nuove franchigie e i vecchi privilegi, dall'esorbitanza del suo debito pubblico, dai repentini turbamenti e sbilanci delle sue industrie; e più d'ogni cosa, dallo stato inquieto e miserevole dell'Irlanda, inverso la quale non giova ormai nè la liberalità nè la forza; la prima insufficiente a placare, e la seconda a reprimere? Che diremo poi dell'Austria e della Prussia? Nessuno ignora che gli accorgimenti e le arti famose di Metternich consistono tutte nel rimuovere a suo potere le cagioni e le occasioni d'ogni qualunque novità, e segnatamente della guerra; conoscendo egli assai bene, che al primo cozzo gagliardo fra i re d'Europa, l'impero austriaco n'anderebbe in pezzi. Quanto è alla Prussia, basti il considerare le sue inquietezze sempre crescenti per le provincie renane vogliose di libertà, e pel ducato di Posen; e la povertà delle sue finanze, che durano a mala pena a mantenere l'esercito, quantunque trasformato tutto in Landver; istituzione, che se risparmia moneta, nuoce al nerbo ed alla perizia militare.

In fine, si voglia por mente che le guerre (massime una così generale e rischiosa) neppur ne' paesi retti a governo assoluto si risolvono e s'imprendono oggi contra il volere dei popoli: e questi, rivolti come sono al presente alle prosperità materiali e a moltiplicare le officine e i commerci, non si curano punto di guerre intraprese in nome di alcuni principj speculativi o d'interessi poco visibili agli occhi loro, siccome sarebbe quello della bilancia politica fra i potentati, o l'altro di raffermare il diritto delle monarchie assolute, alle [10] quali suolsi prestare ancora obbedienza, ma non amore nè devozione.

Non taceremo che alcuni argomentano che appunto per questo scemare di forza e di autorità delle monarchie assolute, e per questo prevedere che fanno i principi la caduta poco lontana di lor dittatura, ei debbono consentire animosamente a scendere in campo, e riguadagnare ad un tratto colla vittoria quello che perdono a grado a grado in seno della pace.

Tal ragionamento (a nostro giudizio) non prova più che una cosa, cioè a dire che ai principi non rimane oggimai partito buono e sicuro da scegliere. Da una parte, con la guerra, il rischio estremo d'una ruina immediata e compiuta; dall'altra, con la pace, un perire assai lento ma certo e finale. Ora, non vi è dubbio nessuno che la tempra umana ordinaria com'è pusillanime e fiacca, così appigliasi sempre al partito che lascia tempo e lusinghe in mezzo, dà luogo ai maneggi, alle transazioni, agli accomodamenti, e non esige lo sforzo e il coraggio d'azioni impetuose e piene d'audacia.

V.

Del secondo supposto, cioè che una rivoluzione nuova succeda in Francia, noi affermiamo similmente che niuna buona ragione la dimostra vicina e probabile; intendendo, come si dee, sotto nome di rivoluzione non già un moto popolare in fra pochi dì represso e infrenato assai facilmente, e qual può dirsi con poca alterazione del vero essere stato quello del 1830; ma una scossa profonda e durevole che si propaghi all'Europa tutta, rechi molte e sostanziali novità nell'ordine delle cose, e ponga la Francia alle prese coi suoi nemici.

E per fermo, le vere rivoluzioni sono provocate ogni sempre da gravi e pressanti necessità: ma di queste noi non sappiamo scorgerne alcuna in Francia a' giorni che corrono. Il desiderio di forma migliore politica non basta a un sì grande effetto; imperocchè nè un tal desiderio riesce molto efficace e vivo presso d'un popolo converso tutto ai piaceri e ai guadagni, nè dopo assai delusioni e le tante prove ed innovazioni [11] che à praticate, ei conserva grande e robusta fede alle promesse e alle speranze del meglio. Oltreciò, sentendosi egli pieno di forza e arbitro effettivamente della propria fortuna, non estima dover entrare in incerte rivoluzioni per conseguire riforme e perfezionamenti, ai quali pensa che giungerà senza fallo, e in modo piano e spedito, il giorno ch'ei sieno desiderati e voluti con fermezza e vigore dalla generalità. Da ultimo, ei non sa persuadersi che una o più sollevazioni sanguinose e violente varrebbero a disgroppare il nodo di que' nuovi problemi sociali, la cui risoluzione appar tenebrosa e lontana così ai filosofi come al volgo.

Ben è vero che i proletarj e soffrono e si dolgono tuttavia della scarsa provvidenza delle leggi in verso di loro. Verissimo ch'ei sono numerosi e maneschi, e quei di Parigi e di Lione arditi sopra ogni credere e sprezzatori della morte: ma con tutto ciò, qual potere effettivo risiede in loro e quale capacità di operare con unione e perseveranza, bisognevoli come sono del lavoro quotidiano, sprovveduti di capi e di ordinamento, senza disciplina e governo, senza disegno e fine determinato? Gran porzione poi d'essi pressente quasi per istintivo giudicio, e in parte eziandio per le cose vedute e sofferte, che una rivolta operata dalle sole lor braccia o non reggerebbe contro le forze unite e ordinate delle classi più ricche e civili, o verrebbe senza profitto loro maneggiata e usurpata dai demagoghi, o infine non recherebbe rimedio a quei mali di cui si querelano, e le cui triste radici pajono penetrare e occultarsi nell'ultimo fondo dell'umana natura e nelle condizioni essenziali del viver sociale. Il fatto è poi, che la storia delle nazioni non ci porge esempio notabile alcuno d'una sollevazione di plebe che senza l'ajuto efficace e spontaneo delle classi civili abbia proseguito prosperamente e riuscito al fine proposto. Potrà, pertanto, la porzione men sofferente e più baldanzosa de' proletarj francesi consumare rivolte gravi e piene di sangue, ma non mai una rivoluzione profonda e durevole.

[12]

VI.

Rimane che si supponga qualche gran rivoltura in alcuno degli Stati imperiali, come la Boemia, la Galizia, l'Ungheria e la Transilvania. Ora, noi diciamo che tali provincie ajutano di già non mediocremente l'Italia con la inquietezza e l'acuta esacerbazione che le tormenta; perchè costringono l'Austria a mantenere per tutto considerevoli corpi d'esercito, e scemano ciascun giorno il profitto ch'indi potrebbe ritrarsi pel comun bene dell'impero. Ma credere che pur durante la pace europea, esse abbiano forza e audacia d'insorgere e di sostenere guerra aperta contro esso impero, è giudicio precipitato e vano. Il malumore de' Boemi non à peranche nè intensione bastevole, nè omogeneità di opinioni e di sentimenti. La Galizia non può in disparte dall'altre provincie polacche osare di sollevarsi; e l'Ungheria è frenata dalla disunione, che in lei perpetuano le differenze di razze e di lingue, le gare fra i due ordini di nobiltà, e il giogo, difficilissimo a scuotere in Austria, della militare disciplina.

Ci vien notizia che molti fra gli Italiani attendono con certezza d'animo mutazioni e sconvolgimenti tragrandi alla morte di Luigi-Filippo. Però, se le cose qui innanzi discorse si appongono al vero, ognuno s'avvede quanto una simile aspettazione dia nell'errore: imperocchè elle dimostrano molto chiaro lo stato presente d'Europa non tanto dipendere dalla abilità e scaltrezza di Luigi-Filippo, quanto dalla necessità dei fatti per parte dei potentati, e dalla natura delle opinioni e degli interessi per parte della Francia.

In ultimo luogo, non taceremo neppur di taluni i quali, nonostante le infelici prove della spedizione di Savoja, ripongono ancora molta speranza nei tentamenti dei rifuggiti, e aspettano l'adempimento di non sappiam bene quale sbarco armato sulle coste d'Italia. Ora, a chi ben considera la sostanza delle cose e la pratica dei negozj, dee parer manifesto che poche novelle e romanzi tornerebbono così difficili ad attuarsi, come è difficile di avverare questo bel sogno dello [13] sbarco dei rifuggiti armati; e l'averci fede e aspettarlo come principio desiderato e solenne della libertà italica, è, al creder nostro, soverchia semplicità: la quale poi non sarebbe in alcuno se la storia antica italiana venisse meglio studiata dai nostri giovani; imperocchè ei vi leggerebbero quante volte ne' secoli addietro le vane speranze e i vani disegni degli sbanditi ànno nociuto a quelli di dentro, e come lo stato del loro animo radamente li rendeva capaci di riconoscere e confessare la verità che lor dispiaceva sopra misura.

VII.

Debbono adunque gli Italiani, per tutto il fin qui ragionato, rimanere persuasi e risoluti compiutamente di questo; cioè che lor bisogna o reputare incerto e remoto assai il giorno dell'affrancamento della patria comune, o non attendere congiunture molto migliori delle presenti per dar mano all'opera. Della quale necessità non solamente noi non ci sgomentiamo, ma invece ringraziamone Dio; imperocchè siamo in questa ferma credenza, l'Italia non poter risorgere mai daddovvero, se non fidando nel proprio valore e cimentandosi animosamente con lo straniero. Le macchie antiche e recenti che oscurano l'onor nostro, non potranno cancellarsi altramente mai, che tra le armi e col sangue: tra le armi e col sangue avrem battesimo di nazione: tra le armi ritempreremo l'animo, alzeremo l'ingegno, purgheremo gli affetti e i costumi. Il genio di Dante e l'ardire di Masaniello, i prodigj della lega lombarda e il disperato resistere delle Calabrie, lo splendore di Roma, la libertà di Firenze, le armate Veneziane, i tesori Genovesi, ogni gloria passata, ogni grandezza caduta lascerà trovare di sè fra le armi e le battaglie alcuna semenza vivace e feconda, e tutte largamente inaffiate dal nostro sangue rifioriranno.

Base d'ogni prosperità civile è il sentimento del proprio valore e della propria dignità: vita delle nazioni è la gloria, e salda difesa loro è la potenza che spiegano e la suggezione che incutono. Se lo scoramento e la diffidenza stanno oggidì fra le ragioni precipue del nostro servire, giammai non ne [14] usciremo che per effetto de' lor contrarj. Che sarebbe la libertà regalataci dallo straniero, salvo che apparenze, vacillamento ed umiliazione? e i doni e gli ajuti della fortuna che diverrebbono, se noi non siamo per ajutare noi stessi gagliardamente? E ben ci sovvenga che più d'una volta in questa prima parte di secolo la fortuna ci arrise e porse alle nostre mani tutta quanta la chioma, e noi non sapemmo afferrarla.

VIII.

Io proseguirò pertanto a discorrere alcune cose intorno all'Italia, ponendo a capo di tutte questo vero importante e solenne, ch'ella non possa e non debba fidare eccetto che nelle forze proprie e nella propria energia. E facendomi dal supposto che si voglia dar mano all'opera dell'affrancamento senza aspettare congiunture molto migliori, come quelle che non sono per accadere, dico che se il moto della libertà dee procedere tutto da noi e con proposito fermo di affrontare lo straniero il quale intenda reprimerlo, non pertanto noi dobbiam concordarlo e in certa guisa proporzionarlo con lo stato generale d'Europa. Però coloro i quali consigliano d'incominciare la rivoluzione italiana proclamando altamente la repubblica una ed indivisibile, domandano agli Italiani servi, divisi ed infemminiti da tre secoli d'ozio e scoraggiati da tante sventure, ciò che l'Inghilterra e la Francia non osano anche di porre in fatto. E si pensi che contro la Francia, forse i re perderebbono ardire in quel mentre stesso che i popoli l'ajuterebbono tentando sollevazioni. Contro l'Italia, il più timido dei monarchi prenderà cuore, e i popoli non confidenti guarderanno da lungi, aspettando l'esito. Noi avremo in sulle braccia tutte mai le armi e lo sforzo delle corone d'Europa, le quali temperate o dispotiche verranno in subito accordo e amicizia per estinguere il primo incendio repubblicano. Dietro gli eserciti poi staranno i macchinamenti, l'oro, le seduzioni, i terrori, tutto ciò che la paura e la collera dei monarchi saprà inventare di più efficace e di più pernicioso.

Ma instanno i tribuni nostri, dicendo che il proclamare [15] la repubblica trascina inverso di noi le plebi, le quali d'ogni consorzio civile sono la parte più numerosa, più gagliarda e più generosamente devota al bene. Gridando la repubblica, ogni mezzana via è chiusa: la rivoluzione procede di necessità con modi energici ed assoluti: non può retrocedere, non può transigere. Propagasi a tutti gli animi una scossa viva e profonda, e attevole a suscitare in essi ogni facoltà, e produrvi quella esuberante pienezza di coraggio, di attività e di ardimento, che all'Italia abbisogna per cacciare d'ogni provincia sua e per sempre il Tedesco. Atterra la bandiera repubblicana, e tu cadi issofatto nelle antiche fallacie, nelle tradigioni de' principi, nelle trame dei cortigiani, in quelle concessioni dissimulate e in quelle mostre di libertà che addormentano gl'intelletti e il progresso vero ritardano. — Cotesti, a ridurli alla loro sostanza, sono i ragionamenti che si ripetono ciascuno dì da parecchi Italiani, in cui quanto abbonda l'ingegno e lo zelo, altrettanto fallisce il giudicio ed il senso pratico. Nè si vuol negare da noi, che alcuni aspetti chiari e vantaggiosi appariscono nel partito che essi propongono, come alcuni svantaggiosi ed oscuri in quello che propongono gli amici nostri. Ma nelle faccende politiche niente è netto e assoluto, e sempre si à per miglior consiglio quello che dà luogo a sconvenienze minori ed è più praticabile. Molti svantaggi, poi, che sembrano andar di conserva col tenore dei fatti e il metodo di operare che noi commendiamo, possono venire scansati assai di leggieri, come si prova qui appresso.

IX.

Tre cose si ricercano per accertare l'esito buono della rivoluzione italiana. 1º Ministri che mallevino con la vita propria della fedeltà loro inverso la causa comune. 2º Lo stato-maggiore dell'esercito rimaneggiato e rifatto compiutamente. 3º Il popolo tutto quanto infiammato a salvare la libertà, sì per nobile affetto e sì per computo d'interesse.

Perchè si ottenga il primo, vuolsi domandare e pretendere dai nuovi capi dimostrazioni ed opere tali che, vinta la rivoluzione, serrino loro ogni via di scampo e di perdonanza. [16] Di più, bisogna che essi capi così cimentati, pigliando la volta loro, inducano i parlamenti e i capitani dell'esercito a fare opere e dimostrazioni altrettali; sicchè nessuno di loro possa retrocedere d'una spanna.

Il rifacimento dello stato-maggiore dell'esercito richiede negli ufficiali a ciò deputati viva e straordinaria energia e risoluzione. E intorno a questa materia (come importantissima in supremo grado) verrà in luce fra breve uno scritto assai meditato e molto savio e proficuo, dettato da un egregio Napoletano conoscentissimo di tali cose.

Per infiammare e interessare l'animo dei popolani inverso la racquistata libertà, sono molte le vie; tra le quali preferiamo di accennar queste. Sminuire quanto è possibile il più le imposte e i dazj che gravano sulle infime classi: riconoscere e guarentire ogni franchigia municipale, con intervento e suffragio del popolo intero nella scelta dei magistrati, e con rendiconto al popolo stesso di tutti i ministeri ed uffici loro. Manifestare in parole ed in opere, che la prima e maggiore sollecitudine del reggimento nuovo sia inverso le genti minute, le quali riescono da pertutto numerosissime e povere: accrescere ed ajutare con instancabile zelo gl'istituti caritativi: decretare scuole, ricoveri ed officine, ove i braccianti e gli operai di qualunque ragione trovino per continuo istruzione e lavoro. De' pubblici uffici e delle dignità investire persone specchiate e giuste, ossequiose della religione e affettuose inverso la plebe. Adoperare ogni diligenza per amicarsi la parte meno ambiziosa e più frequente del clero, quella per appunto ch'esce dal popolo minuto e con esso popolo vive; il che domanda dal lato nostro integrità di costumi, religiosità di sentimenti, osservanza del culto. Ecco maniere, al nostro giudicio, migliori e più certe di quelle proposte dai nostri passionati affine di scuotere validamente le moltitudini, sventare gli intrighi dei cortigiani e i tradimenti dei re. Del resto, noi dichiariamo di non parteggiare in alcuna maniera per le opinioni repulsive e troppo assolute, e di credere che le questioni di repubblica e di monarchia, di unità e di confederazione, sieno, per rispetto all'Italia, sommesse più assai che altrove a mille varie congiunture di tempi e di circostanze. [17] Sopra ogni cosa desideriamo la indipendenza, come il fondamento primo e saldo della riedificazione italiana; noi domandiamo eziandio l'unione morale, come il mezzo primo efficiente che all'acquisto dell'indipendenza ne può condurre.

Tutte le forme, pertanto, di governo politico che a tali due fini sembreranno menar l'Italia con maggiore sicurezza e facilità, verranno da noi e acclamate e obbedite, fossero pure il dispotismo di un re, la prepotenza di un capitano, la teocrazia di un pontefice.

X.

Ma se il numero degli Italiani ardenti e risoluti a menar le mani è scarso tuttavia, e sperperato di modo da fare impossibile un degno e ragionevole tentamento d'aperta sollevazione, rimane, come dicemmo più sopra, a tutti i buoni e generosi il debito di rinfrancare a poco a poco gli spiriti fiacchi e allibbiti, e di portar luce e calore in mezzo alle moltitudini fredde ed intenebrate; impresa lunga e paziente, piena di fatiche, d'industrie, d'accorgimenti e d'annegazione; ma certa e maravigliosa altresì negli effetti suoi, qualora si voglia e sappia condurre tale azione incivilitrice su quella parte principalmente dell'umana comunanza in cui risiedono la vera forza e il vero coraggio, e in cui ciascun radicato e nobile convincimento è semenza di fatti strepitosi ed eroici; noi vogliam dire il popolo. E così non si fossero scialacquati e dispersi già molti anni in sole cospirazioni e congiure, senza attendere a coltivare con assidua fatica la mente e l'animo delle classi inferiori, chè forse il risorgimento morale e politico della nostra patria infelice sarebbe ora assai bene apparecchiato, e porgerebbe buona caparra di riuscita.

Per norma, dunque, di cotesta lenta e difficile preparazione degli animi alla indipendenza e alla libertà, egli ci par bene di ristampare qui presso alcuni pratici Documenti, scritti e pubblicati non lungo tempo addietro, ed ora ampliati notabilmente e corretti dall'autor loro: con tali indicazioni e consigli, appropriati in ispecial modo all'educazione del popol minuto, noi compiamo la esposizione del nostro parere intorno alle condizioni presenti d'Italia.

[18]

DOCUMENTI PRATICI INTORNO LA RIGENERAZIONE MORALE E INTELLETTUALE DEGLI ITALIANI.

CAPITOLO I. Preliminari.

Per gran ventura d'Italia, ciascuno si va ora persuadendo di questa capitalissima verità, che il risorgimento italiano non possa aver luogo senza il concorso efficace ed universale delle moltitudini, e però lo sforzo di tutti i buoni doversi rivolgere all'educazione progressiva del popolo. Un'altra persuasione sembra eziandio entrare e radicarsi forte negli animi; e questa è, che per trascinar seco il popolo a fatti animosi e ritemperarlo al bene, occorre participare ai sentimenti, agli affetti e alle credenze di lui: nella qual cosa non pericola punto la verità; ché quegli affetti e quelle credenze, guardate nel loro midollo, costituiscono la natura instintiva dell'uomo, e sono fonte delle passioni più generose, de' concepimenti e delle ispirazioni più alte e magnanime che ricorda e ammira la storia. Non si dee pertanto nè dispregiarle nè combatterle, ma sì purgarle di molti errori e di molte misere superstizioni, e scioglierle dalle abbiette consuetudini indotte per entro il cuore dalla servitù, dall'ignavia e dall'indigenza.

Si opina poi dai più assennati, che per giugnere a questo massimo effetto della rigenerazione italiana, quattro cose sieno da praticare da ogni buon cittadino. 1º La emendazione di sè stesso. 2º La carità operosa nella parte minuta del popolo. 3º L'istruzione intellettuale e morale di essa. 4º La cura e l'arte di convertire il clero alle nostre opinioni.

[19]

1. — Della emendazione di sè stesso.

Il buon Italiano a' dì nostri debb'essere un animo forte e incorrotto, apparecchiato alla sventura, ugualmente sdegnoso della servitù, che afflitto ed avverso ai vizj e alle colpe de' servi. In mezzo a genti fiacche, oziose, lascive e non curanti del viver comune, ci dee serbare austerità e purità di costumi, volontà infiammata e sempre operosa, prudenza con dignità, coraggio con fede. A lui dee star sempre nel cuore la dolce patria, e volerne il bene in tutti i modi, per tutte le vie, con incessante sudore, con ferma perseveranza. Facil cosa è cospirare; facile aspettare oziando e gozzovigliando il segnale della rivolta; non troppo difficile e laborioso maneggiarsi nelle sètte e rischiare la vita in una congiura: ma duro e difficilissimo travagliarsi quotidianamente e in silenzio per cogliere senza fama un frutto scarso e tardivo di bene, e per fecondare, con lunga e tediosa sollecitudine, un suolo smagrato da tre secoli d'infortunj, di vergogne e di tirannie.

2. — Della carità operosa nel popolo.

O per qual buona ragione il minuto popolo à da tener dietro alle mosse de' liberali? che opere fanno questi in suo pro? che esempj d'alte virtù gli offeriscono per guadagnarsene la stima e la riverenza? che dottrine professano intelligibili a lui e confacenti co' suoi pensieri e co' bisogni suoi quotidiani?

Vuoi tu, o buon cittadino, tirarti dietro le moltitudini? vuoi tu il sudore, il sangue, la vita loro per te e per la causa che tu caldeggi e difendi? Comincia ad amarle di grande affetto: entra continuo a parte dei lor patimenti: consiglia la loro ignoranza, conversa con esse domesticamente, amorosamente. L'uno cade infermo; va tu accosto al suo letto e soccorrilo: un altro à difetto di lavoro; fa di procurarglielo: ài tu poderi? sii padre de' tuoi contadini, sovvienli nelle carestie, largheggia ne' patti, instruiscili con pazienza nelle [20] rustiche lor faccende. Non fuggire la frequenza della gente minuta; e s'ella entra in chiesa a pregare, e tu prega con lei; se accorre a qualche onesto sollazzo, vi accorri tu pure e mostra di compiacertene. Per tali atti e maniere, quando spunteranno giorni di grandi prove, e tu disceso nelle piazze griderai: — Popolo, a me! — questo, non mai ingrato al beneficio nè tiepido e pigro al bene che crede, risponderà tostamente: — Siam teco; menaci dove vuoi; tu se' il nostro amico, sii il nostro salvatore.

3. — Dell'istruzione intellettuale e morale del popolo.

I buoni prendono giusta allegrezza a vedere che in Toscana, in Lombardia e in altre provincie d'Italia si pensa e suda all'istituzione delle casse dei risparmj, a quella delle scuole infantili e delle scuole lancastriane, alla compilazione di più giornali popolareschi, e ad altri mezzi efficaci ad educare e rigenerare la povera plebe. Se dovunque il popolo è autore di grandi fatti, in Italia è stato di sommi e miracolosi: e chi fa stima conveniente della vecchia stirpe latina, ed à ragionevol fede nelle prodigiose facoltà inserite in lei da natura, debbe ansiosamente aspettar di vedere quello che produrranno le intelligenze popolane, riscosse dal torpore profondo di quasi tre secoli; e quello che potrà in loro la coscienza restituita del proprio ingegno e della dignità propria, la curiosità ridestata e vogliosa di apprendere alcuna porzione del vero, la notizia sopravvenuta d'altri paesi, d'altre leggi, d'altri istituti, di tanta maggior ricchezza, potenza, gloria ed attività.

Abbiamo fede nelle plebi italiane.

Ma la nuda, nuda istruzione è strumento così del bene come del male, e più rado forse del primo che del secondo. Però intendasi con fatica incessante all'educazione dell'animo: e poichè il buon senso del popol minuto sempre vuole unificata la moralità con la religione, sforziamoci, quanto si può meglio, di purgare la pietà religiosa della scura feccia che la corrompe: sopratutto si volga l'animo a insegnare e persuadere la religione civile, quella cioè che insieme con le virtù private insegna ed inculca le pubbliche, [21] santifica tutte l'opere volte ad ajutare il progredimento sociale, e chiama il Vangelo codice eterno e divino di libertà e di fratellanza. Avventuratissimi gli Italiani, se riusciranno a instillare nell'animo dei più la religione civile: ma l'impresa è dura e diuturna e piena di cure e travagli; perchè quella forma di religione non pure è nuova nel popol minuto, ma si è nuova in gran parte nella cristianità, la quale à più spesso udito insegnare l'obbedienza passiva, la perfezione dei solitarj e una muta e indolente rassegnazione: però il vero non istà chiuso, e già comincia a splendere di gran luce per molti libri. Il mondo impigliato ne' traffichi e nelle lascivie, infiacchisce di più in più e prende a schifo i nobili pensamenti, e poco o nulla risponde a quei desiderj e a quelle speranze che tutto il cuore gli ardevano, or sono appena cinquant'anni. Un sentimento nuovo bisogna, forte, immaginoso, infinito: e questo dove lo rinverremo noi, salvo che nella religione civile, in cui la libertà è santa cosa, la fratellanza e la carità nella plebe sono un supremo dovere, il progredimento indefinito dell'umanità nel vero e nel bene è il consiglio perpetuo della Provvidenza?

4. — Della conversione del clero.

Il giovine Vito B..... possedeva un poderetto nelle montagne di Barolo, e spesso andava colà per ricrearsi della caccia e dell'aria buona. Il curato di quel luogo lo visitava, ed egli lui. Parlavano di coltivazione, di pastorizia, d'uccellagione, e il curato trovando il giovane non poco istruito e propenso alla religione, l'avea caro oltremodo. Vito ne profittava per diradare le male apprensioni del prete e farlo persuaso di utili verità. Gli accennava abilmente gli ostacoli numerosi opposti dai reggimenti avari e oppressivi alla pubblica prosperità: saliva bel bello dagli ultimi effetti alle somme cagioni, e dai rimedj parziali ed incerti ai certi ed universali. Le domeniche dopo i divini uffizj, cadendo il discorso più volentieri sovra materie di chiesa, Vito esponeva prudentemente i principj, le massime e la bellezza della religione civile. Alle sue parole davano autorità li suoi specchiati [22] costumi, l'animo caritatevole e l'amor grande che portavagli la gente minuta di quel contado. Così non gli fu gran fatica condurre a poco a poco il buon parroco a partecipare alle sue opinioni, e fu immenso guadagno. Deh! che non potrebbe sperare l'Italia se alcune centinaja di giovani possedesse simili a questo Vito?

CAPITOLO II. Di alcuni Precetti particolari.

Ora andremo discorrendo partitamente di alquante pratiche relative ad alcuna delle quattro categorie registrate in principio. E per seguitare l'ordine loro, noi ci faremo dalle cose che ànno riferimento alla emendazione di sè medesimo.

1. — Dell'Attività e dell'Energia.

1º Piaghe vecchie e incancrenite d'Italia sono la mollezza e l'accidia: a queste dunque rechiamo gagliardi rimedj. Se tu sei solo a sentirti vigore d'animo e ad abborrire dall'ozio, fa di riscuotere intorno a te que' pochi che ànno natura meno dissomiglievole dalla tua. Se non sei solo, collégati con li tuoi pari, e sveglia in altrui la fermezza e l'intensione del buon volere.

2º A questo troverai materia più idonea nelle persone che ànno corsa la vita fra varj accidenti e pericoli, ovvero sostennero con moderanza gravi infortunj, o tentarono alcuna cosa onorata e difficile.

3º Pungi con frizzi acerbi e deplora con isdegno il dolce non far niente degli Italiani, divenuto tristamente famoso fra gli stranieri. Di questo scrivi e stampa e predica mille volte, in mille maniere. È detto comune degli Italiani moderni che non si può far nulla di bene: il tuo cotidiano operato li colga in menzogna. Se declamano sulla tristizia dei tempi, e che i pericoli sono troppo grandi e frequenti, mostra loro che non correvano migliori per Dio i tempi in cui Galileo cadeva ginocchioni dinanzi all'inquisitore, in cui [23] Vannini, Ruggeri e Giordano Bruno salivano il rogo, Campanella era sette volte messo al martoro, e il Sarpi mortalmente percosso di stile. Ma costoro, albergando in petto prodigiosa forza di volontà, renderono sè stessi gloriosi, onorata l'Italia e sapiente il mondo.

4º Sarebbe un gran bene a trovare il modo che perfino le donne avessero a schifo i giovinastri scioperati e dappoco.

5º Un gran bene procederebbe eziandio dalla frequenza dei viaggi; chè la vista della tanta operosità e vigoria degli altri popoli ci farà all'ultimo vergognare della nostra ignavia.

6º Dal vigore del corpo sorge più pronta e più facile la valentía dell'animo, e con essa la voglia del fare. Gioverà pertanto assai l'instituire per tutto scuole di ginnastica, divenute fuor d'Italia non meno copiose che profittevoli.

7º S'instilli ne' giovani desiderio della caccia, nuoto, scherma, cavallerizza, pallone e altri robusti esercizj.

8º Molti ozieggiano per non trovar che fare: suggeriamo loro di onorate ed utili occupazioni. I tempi ne offrono in più quantità e varietà che per l'addietro. Per tutto crescono le faccende degli ingegneri: s'aprono vie nuove di lucro ai meccanici, agli esperti di miniere, ai chimici, agli enologi, ec.

9º Marciscono altri sconoscendo la propria natura: e forse non si dà un solo ingegno al mondo senza alcuna speciale dote e attitudine. Studiamo pertanto in ciascuno ciò che v'à di peculiare, e a quello indirizziamo le facoltà sue. Il sentirsi valente in alcuna cosa e la speranza di buon successo renderanlo attivo e volonteroso.

10º L'educazione de' fanciulli procacciamo che sia nè paurosa nè molle, e ch'ei s'avvezzino alle fatiche e al dolore, nè si spaventino dei rischj, delle infermità e degli infortunj.

11º Travagliamoci molto a impedire che la poca energia ed attività de' giovani non si sperda (come oggi accade) in frivole gare e puntigli, in basse invidie, in polemiche infruttuose e villane, o in cercare la gloriuzza della provincia nativa in iscambio del suffragio e lode della nazione intera.

12º Gli studj che mirano a poco alto fine e versano sopra materie futili nè curano di nudrirsi di scienza profonda, snervano l'intelletto e l'animo.

[24]

Perciò le vecchie accademie o si spengano o si trasformino: sia messa in deriso la smania tanto comune del poetare e gli sciocchi tèmi prescelti. Accusinsi d'inettezza i filologi e gli eruditi che non contemprano le discipline loro con la filosofia e con le scienze. Si biasimi forte quella turba di letterati egoisti e infingardi che vassi baloccando coi libri senza voler nulla produrre.

13º Facciasi contro a tutto ciò che fomenta la vagazione e la leggerezza degli animi, ajutando e promovendo in quel cambio tutto ciò che v'induce gravità e meditazione: imperocchè da ambedue queste nasce il forte sentire, e più tardi il forte volere.

14º Taluni si scolpano del loro scioperamento dicendosi natifatti pel travaglio delle guerre, o per altri assai faticosi ed operativi esercizj. Togliamo di mezzo la scusa, mostrando loro non essere tuttavia interdette molte specie d'occupazioni travagliose ed ardite; come viaggiare alla scoperta di luoghi nuovi o mal noti, salire montagne altissime non ancora perlustrate, visitare e descrivere vulcani, e simiglianti fatiche. Numero grande di viaggiatori francesi, inglesi e tedeschi, esplora il mondo per ogni parte; e i discendenti di Marco Polo, del Colombo, di Amerigo e del Cabotto, poltriscono sonnacchiosi nelle sdimenticate loro case.

15º Predichiamo il coraggio civile, e noi per primi porgiamone esempio frequente. Lodiamo a cielo qualunque dimostrazione se ne vegga o grande o mediocre; ma il fondamento del coraggio civile sta nel nobil sentire, nella fede profonda al bene e nell'abito delle virtù. Corretti i costumi, rinvigorite le coscienze, ristaurati i principj, il coraggio civile rampollerà d'ogni parte.

16º Svegliamo l'attività eziandio per mezzo di questa voglia smaniosa d'oggidì delle industrie e del commercio.

17º Perchè la fiducia in sè medesimo e la speranza del buon successo cagioni sono validissime a scuotere la volontà, così fa mestieri di aumentare al possibile negli Italiani la fiducia in sè stessi, e l'aspettazione certa della rigenerazione del Bel Paese.

18º All'opposto, occorre di combattere virilmente quelle [25] dottrine false e dannose che screditano lo sforzo dei buoni come sempre insufficienti, e giudicano mere illusioni le sublimi speranze del genere umano, la fede nel progresso civile, i premj immancabili della virtù.

19º Il popolo solo infonde fiducia vera, perchè in lui è la vera forza. Con quella proporzione adunque che il popolo diverrà nostro amico, crescerà la comune confidenza e il coraggio.

20º Condurrà pure a ciò una bene impressa notizia di quello che valga la natura italiana per testimonio della sua storia, che fra le umane è tuttora la più maravigliosa e grande. Adopriamoci pertanto a illustrare la Storia patria e a propagarne la cognizione.

CAPITOLO III. Dell'Educazione del Popolo.

Ora, seguitando, registreremo alcuni precetti intorno alla educazione, si voglia morale e si voglia intellettuale, del popol minuto, incominciando dall'ultima nominata.

1º Curiamo noi per primi d'istruire il minuto popolo conversando con lui di frequente, e adattando l'insegnamento alla capacità e gusti suoi.

2º Facciamo ogni sforzo perchè s'aprano e si moltiplichino le scuole primarie, e dove sussistono si migliorino;

3º Perchè cresca il numero de' giornali popolari, procacciando che la compilazione loro venga a mano di gente savia e dabbene.

4º Pubblichiamo trattatelli di geografia, di viaggi, d'agricoltura e d'altre utili discipline, accomodati alla gente minuta, piegando l'ingegno a tal sorta di modeste scritture, come Franklin non ischifò di piegare il suo.

5º Sopra tutto, scriviamo ristretti di Storia patria, chiari, ordinati, succosi. A ciascuno poi di cotesti dettati dee presiedere molta prudenza, e spesso staremo contenti alla esposizione nuda dei fatti, i quali riescon di per sè stessi istruttivi ed eloquenti.

[26]

6º Procacciamo che sorgano cattedre popolari di fisica, chimica, geometria e altre scienze affini, con avvedimento applicate alle arti e ai mestieri.

7º Si vogliono animare i più industriosi artigiani ad assottigliare l'ingegno in qualche trovato, a prender notizia di quelli che compariscono di mano in mano, a imitarli e perfezionarli: nelle quali cose chi può esser loro di ajuto o col sapere o col denaro o con altro, sì lo faccia liberalmente.

8º Sarà proficuo, pertanto, il promovere quelle istituzioni che svegliano ed incoraggiano l'ingegno inventivo del popolo, come le pubbliche mostre, i pubblici premj, i comizj agrarj e simiglianti.

9º Nell'ammaestrare il popolo, non solo si dee metter cura in fornire la sua mente di utili cognizioni, ma puranche in addestrarlo a saper pensare da sè ed esercitare abilmente le naturali facoltà sue.

10º Le statistiche ben compilate sono un mezzo molto acconcio d'illuminare e persuadere le moltitudini. Utilissimo poi è il far loro sapere quel che si pratica fuori d'Italia, e per alcuni fatti evidenti e notorj indurle a paragonare lo stato proprio con quello d'altre nazioni civili.

11º Si dica il medesimo per rispetto alle provincie italiane fra loro paragonate, di modo che se in alcuna sorge qualche utile innovazione e perfezionamento, il si faccia sapere alle altre, e segnatamente al popolo; chè l'esempio vicino è stimolo assai più gagliardo. E pure perciò le gazzette sono proficue, e più saranno col tempo, se quante cose possono recare a notizia comune, tante registreranno, singolarmente di governo, di finanze, di tribunali, di municipj ec.; chè a poco a poco verrà desiderio e bisogno di sapere la cosa pubblica, e il giudicio comune avrà molto peso nelle deliberazioni di chi regge lo Stato.

1. — Dell'Istruzione morale.

1º Porgendo noi quotidiano esempio di virtù private e civili alla plebe, avanzeremo non poco la educazione morale di lei; e più, se ci daremo a conoscere per suoi veri amici e zelatori del bene suo.

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2º Provochiamo e rinvigoriamo per continuo gli istinti generosi, i quali nel popolo, come meno discosto dalla natura, ànno germe assai vivace e fecondo.

3º Si studino l'arti e i secreti dell'eloquenza popolare e quelle forme di stile che più aggradano alle moltitudini, come gli apologhi, le novelle, i motti sugosi, i proverbj ec.

4º Curiamo che le virtù insegnate e gli esempj addotti non si scostino troppo dalle condizioni odierne del popolo, affine ch'egli riconosca di avere alle mani materia idonea per praticare le verità che à lette o ascoltate.

5º Gli esempj tratti dal popolo stesso riusciranno i migliori; e quante volte verrà a taglio di raccontare le belle azioni di lui ne' vecchi tempi e ne' nuovi, tante si faccia con efficace semplicità.

6º Fondamento dell'educazione civile del popolo è il farlo persuaso di questo, che i doveri dell'uom dabbene non ànno rispetto alle sole virtù private e domestiche, ma eziandio alle pubbliche, e maggiormente a queste che a quelle pel maggiore effetto che n'esce.

7º Si renda piana tale dottrina applicandola spesso agli interessi comuni che il popolo sente e conosce, e sono principalmente quelli del municipio.

8º Si faccia il medesimo allorchè si passa a ragionare dei diritti.

9º Diasi forza a cotesti precetti lodando a cielo e onorando con pubbliche dimostrazioni quei valentuomini, le cui buone opere, ancora che ristrette al borgo o alla città o alla provincia natia, sono affettuosamente ricordate e appregiate dal popolo.

Il trapasso dai negozj municipali ai generali dello Stato e d'Italia sarà poi naturale ed agevole.

10º Si abbia cura di mostrar le ragioni poco degne e legittime, perchè i nostri preti non inculcano mai su dal pergamo nè l'amor della patria nè le virtù cittadine; e si spieghi come, nientedimeno, quelle virtù sono comprese nel gran precetto dell'universale carità; e come l'Esodo, il libro dei Giudici e segnatamente i due libri de' Maccabei producono esempj mirabili per la pratica e santificazione di tutte esse.

[28]

11º In tal guisa conviene purificare la religione, che le moltitudini ànno sempre in costume d'unificare colla legge morale.

12º Ma perchè i preti ànno autorità maggiore sul popolo, e intervengono in ciascun atto solenne della sua vita, e si spacciano per suoi consiglieri, maestri e consolatori, occorre di fare due cose: la prima, partecipare a questi ufficj di consigliero, maestro e consolatore; la seconda, convertire alle nostre opinioni i preti di cuor retto e di mente svegliata.

13º Sopra tutto, adoperiamoci molto per la fondazione e il miglioramento de' luoghi pii e di qualunque istituto di carità; imperocchè nessuna cosa è più santa, e nessuna ci dà maggior credito appresso le moltitudini.

14º La Storia patria è pure una larga fonte di virtù cittadine.

15º Scriviamo piccoli Manuali di educazione, acconci all'intelligenza e alle condizioni del popolo, affine che non gli manchi una scorta nell'allevare i figliuoli, e a quelli insegnando educhi parimenti sè stesso.

16º Le poesie popolari forniscono un altro mezzo efficace di educazione.

17º Qualora taluno del popolo s'ingegni di raffinare tale industria o tale altra, invitiamolo a far ciò eziandio per guadagnare bella fama a sè stesso e utile alla sua patria: nè a cotesti sensi generosi il popolo è sordo.

18º Induciamo la plebe a partecipare a quello spirito che si domanda di associazione, convincendola in molti casi della utilità delle spese fatte e sostenute in comune. Così da una parte sentirà il profitto dell'unione e della fratellanza; dall'altra conseguirà l'uso e l'abito della disciplina, dovendo osservare quegli ordini e quelle regole cui volontariamente si assoggettò.

2. — Sentimento della propria dignità restituito.

1º Che da noi cominci l'esempio di trattare la plebe con dolcezza fraterna senza ombra d'alterigia, e schivando quei [29] modi che fanno sentire più o meno al vivo la nostra maggioranza.

2º Se ci meschieremo o intratterremo a lungo col popolo, ei succederà che la porzione di lui meno guasta e meno prostrata verrà imitando i nostri costumi, e prenderà buon concetto di sè medesima.

3º Ritiriamo, quanto si può, la minuta plebe dall'estrema indigenza, la quale invilendo l'animo spegne ogni senso di dignità.

4º Mettiamo il popolo sulla via dell'industria e delle fatiche onorate, rimovendolo da que' mestieri che servono la persona e i capricci dell'uomo; e vogliamo ricordare che l'ultimo de' campagnoli à spesso maggior nobiltà di affetti e di pensamenti che il primo valletto di corte.

5º Il vivere pitoccando, l'aspettare in sugli usci le minestre de' frati, lo strisciare per le case de' ricchi servendo i servi e li sguatteri, e simili altri mestieri vili, dobbiamo sforzarci di fare odiosi alla plebe.

6º Ne' colloquj nostri col popolo, gli si faccia intendere che la bontà delle opere è ciò solo che debbe innalzare l'uomo sopra i suoi simili: che uguali sono i doveri, uguali i diritti: e che serbare intatta la dignità d'uomo e di buon Italiano, è obbligo comune de' ricchi e de' poveri, dei patrizj e del volgo.

7º Procacciamo di sopprimere tutti quegli usi e sollazzi che ingaglioffano il popolo, e gli instillano gusti bassi e indecenti; come la caccia del bue (molto diversa dalla giostra spagnuola che sa del feroce, ma dove il coraggio e la destrezza fanno ogni cosa), le cuccagne, il beffarsi degli idioti e dei pazzarelli, il buffoneggiare per le bettole, il vituperarsi a parole, ec.

8º Perfino la nettezza del vestire e dell'alloggiare trae seco un maggior sentimento di dignità.

9º A mano a mano che l'infimo popolo prenderà uso e piacere alla lettura e spoglierà la grossa ignoranza antica, crescerà in istima di sè medesimo.

10º Se c'imbattiamo a veder maltrattare alcun popolano o con parole o con atti, pigliamo gagliardamente le sue difese.

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11º Coloro fra il popolo che usano inverso noi stessi maniere troppo servili o manifestano pensamenti troppo rimessi e paurosi, sieno da noi ammoniti di non prostrarsi a guisa di rettili, e di sapere e sentire che ànno un'anima d'uomo.

12º Sono più inclinati a pregiare e difendere la dignità propria coloro fra il popolo che ànno praticato il mestiere dell'armi. Da questi dunque si faccia capo.

3. — Dell'Energia popolare.

I Calabresi e alcune altre popolazioni italiane aveano fino ai dì nostri conservata o ricuperata molta fierezza e gagliardia. Spesso, gli è vero, prorompevano in brutta ferocia, in vendette e in ammazzamenti; ma era forza e non fiacchezza, ardore e non gelo.

Il dispotismo eclerado, come in Ispagna ebbe nome, seppe coi gendarmi, le forche ed i codici prima spaventare poi addormire quelle moltitudini, la cui mezza civiltà consiste oggi a non più sentire nè triste passioni nè buone. Ritemprare quegli animi all'antica asprezza non è possibile; perchè in parte ella procedeva dall'eccesso medesimo dell'ignoranza e della selvatichezza, in parte dagli scomposti ordini dello Stato: le quali cagioni sono rimosse e sminuite ogni giorno più dalla civiltà crescente e comune d'Europa.

Ripariamo dunque, per quanto è da noi, alla presente fiacchezza:

1º Col dar noi al popolo esempj frequenti di vigore, sprezzando i pericoli, sostenendo gli infortunj, praticando il coraggio civile, di cui sopra ogni cosa abbisogna l'Italia.

2º Con allontanare (per quello che sta in noi) dal popolo qualunque cosa possa ammollirlo e snervarlo di più: ritraendolo dalle costumanze e dagli abiti effemminati, ai severi e forti allettandolo.

3º Più facilmente giungeremo a cotesti effetti, operando sulla parte del popolo che a ciò è meglio disposta; come i tornati a casa dalla milizia, i marinari lottanti con le tempeste, gli armaruoli e le guide e altri tali artigiani avvezzi ad opere dure e rischiose.

[31]

4º Ai contadini si ponga in animo la comodità e la sicurezza dello starsene armati, il piacere della caccia e del tirare al bersaglio.

5º Nelle sale d'asilo, nelle scuole primarie, negli orfanotrofi e in simili altri istituti di educazione popolana, travagliamoci assai per introdurre discipline ed insegnamenti che inducano forza, bravura e propositi fermi e assai malagevoli.

6º Le paure e le vigliaccherie si deridano e vilipendano in quante maniere si può: per contrario, si alzino a cielo gli atti animosi ed intrepidi. Non che le storie e le poesie, ma le novelle, i proverbj, gli apologhi, le farse ed ogni altra forma domestica e popolana di scrivere dee venire a soccorso dell'opera.

7º Antico dettato è che l'unione dà forza; aggiungiamo, che dall'unione, perchè forte, procede e abbonda il coraggio: adunque procacciamo concordia ed unione massima fra tutti gli ordini del popolo. Più cose che notammo qui sopra intorno all'attività e all'energia delle classi colte ed agiate, tornano acconce ugualmente per le rozze e inferiori.

CAPITOLO TERZO. Delle Speranze del Popolo.

Nè solo dobbiam noi soccorrere il popolo di questi beneficj ed ajuti, quali la condizione nostra presente concede di fare; ma dobbiamo istruirlo altresì di quelli molto maggiori che gli promettiamo, appena le sorti ci daranno facoltà e comodità di attuarli.

In altre contrade, la plebe meglio informata de' suoi diritti che dei doveri, e meglio educata della mente che del cuore; accesa oltre a questo dai demagoghi in affetti violenti d'odio, d'invidia e di cupidigia; e infine, inasprita dal patente egoismo degli ottimati e dei facoltosi, i quali ogni cosa tirano al lor profitto e si mostrano la più gran parte indifferenti per li suoi mali, o tepidi e lenti a procurarne i rimedj; [32] la plebe, dico, in quelle contrade sembra divenire subbietto di gravi paure, e minacciare la ruina degli ordinamenti sociali.

Ma gl'Italiani, se intenderanno bene la lor generosa indole, e studieranno assai nelle storie della comune patria, piene tuttequante di fatti e di glorie popolaresche, nessuna paura prenderanno delle povere plebi; e questo alto esempio porgeranno all'Europa di averle sapute educare e ajutare tanto efficacemente, da sciogliere inverso di loro il debito antico della civiltà, e farle capaci e degne di assumere molti diritti e saviamente esercitarli.

Noi, mettendo da lato le innumerabili e strambe utopie de' socialisti moderni, e scegliendo quelle riforme e quelle miglioranze che fin da ora sono possibili e praticabili, segneremo qui qualche linea del vasto disegno con che il secolo intende a rigenerare le classi inferiori, e il quale tutti i buoni Italiani debbono meditare e correggere con lunga e paterna sollecitudine.

1. — Dei Principj direttori.

1º Quella comunanza di uomini che non sa trovar modo, o non vuole, di schermire dalle necessità estreme della vita gl'indigenti onesti e d'ogni fatica volonterosi, non può dirsi con proprietà sapiente e civile, ma sotto apparenze molto contrarie è barbara e insipiente tuttavia.

2º Le genti educate ed agiate sono dalla natura e da Dio costituite madri e tutrici delle infime plebi, e di queste ànno a rendere conto molto severo sì innanzi alle società umane e sì innanzi a Dio padre dei poveri.

3º Quanto più le classi inferiori dispiacciono per la ignoranza, i vizj e la ignavia della lor vita, e la viltà dell'animo loro, più le classi educate perdono diritto di querelarsene; potendosi in generale affermare, che delle colpe e delle brutture gravi e frequenti dei figliuoli e dei pupilli sono da accagionarsi i padri e i tutori.

4º La tutela de' governi inverso la plebe non può consistere unicamente, rispetto alle cose economiche, in toglier [33] di mezzo ogni maniera di ostacoli al libero cambio e alla libera concorrenza, siccome ànno pensato parecchi moderni. Imperocchè la libertà del cambio e della concorrenza giova a coloro soltanto che portano seco qualche facoltà e qualche sostanza da competere e da ricambiare; ma la plebe oppressa dall'ignoranza e dalla miseria, necessitosa del pane e non potendosi valere nè avvantaggiare di alcuna cosa, rimarrà esclusa sempre da ogni concorso, e vivrà in tutto all'arbitrio e alla mercede de' ricchi.

5º Ad ogni educazione morale del popolo mancherà sostegno e progredimento, qualora non venga ogni giorno fortificata e scaldata dalla virtù dell'esempio. Parimenti, alle pubbliche beneficenze e a tutti i provvedimenti nuovi, pensati e trovati per sovvenire ai bisogni delle plebi indigenti, mancherà gran parte dell'effetto desiderato, se lo spirito vivo di carità non informi l'animo di coloro che gl'intraprendono e li mantengono, e se la pietà privata non ripari continuamente ai difetti della pubblica.

2. — Doveri e Diritti del popolo.

1º Dovere del popolo è faticar nel lavoro con assiduità, con diligenza e con zelo: suo diritto è che glie ne venga procurato almen tanto da guadagnare ogni giorno il proprio sostentamento con sicurtà, e senza strazio delle membra e dell'animo. Suo diritto è pure, cadendo infermo, di essere medicato; e invalidandosi per vecchiezza o per altro, essere dal Comune nudrito e ricoverato. A cotali diritti una restrizione sola vien posta; e la segna e determina l'assoluta impossibilità nel Comune medesimo di supplire all'uopo con sufficienza ed in ogni caso, dovendo sempre rimanere intangibili la famiglia e la proprietà.

2º Dovere del popolo è farsi docile alle istruzioni ed ammonizioni di coloro che lo sopravanzano assai di educazione e di scienza: suo diritto è che gli si porga continuo il pane dell'intelletto e dell'animo, e che passi su questa terra ben sapendo di nascere uomo, e con qualche facoltà di perfezionare sè stesso ogni giorno più in ciascuna nobile parte dell'essere suo.

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3º Dovere del popolo è di serbarsi modesto nei desiderj, non isdegnare la sua condizione, non invidiare ai ricchi, riuscire massajo e sobrio, obbediente e disciplinato. Diritto del popolo è che i bisogni incessanti ed insopportabili della vita non lo spronino ad ogni momento al male, nol gettino e nol mantengano nelle bestiali abitudini dell'intemperanza e della improvvedenza, e nol disperino d'ogni cosa. Suo diritto è venir rispettato e pregiato nell'umile sua condizione, e che l'esercizio delle proprie civili prerogative non incontri mai altro limite e impedimento, salvo che la insufficienza effettiva di alcune facoltà richieste al buono e sano esercizio di quelle. Suo dritto è il trovar sempre le leggi ed i magistrati così giusti, benigni e solleciti inverso di lui, come inverso de' ricchi e potenti. In fine, è suo diritto (poichè de' beni di fortuna non gode, e vuolsi che non se ne dolga troppo) essere educato per modo da saper gustare più che mediocremente le felicità immateriali, come le buone letture, la bellezza dei monumenti, la prosperità e gloria della patria ed altre sì fatte.

3. — D'alcuni mezzi per soddisfare ai diritti che risguardano la sussistenza.

1º Abolire i dazj e le imposte d'ogni natura che gravano più propriamente sull'infimo popolo.

2º Francarlo eziandio dalle tasse parocchiali assegnate all'adempimento di certi atti solenni, religiosi e civili.

3º Moltiplicare e perfezionare gli ospedali, i ricoveri, i monti di pietà e simili altri istituti di pubblica beneficenza, nell'invenzione de' quali primeggia nelle storie la pietà italiana.

4º Propagare tali istituti il più che si può eziandio per le ville, e imitare da pertutto l'esempio d'alcuni Comuni rurali italiani, che a loro spese provvedono i contadini di medico e di medicine.

5º Riformare ed ampliare le leggi e i regolamenti circa ai patti e alle mutue relazioni tra i fabbricanti, capomastri e bottegai da un lato, e gli operai, giornalieri, manuali e apprendisti dall'altro, porgendo a tutti i secondi guarentigia [35] e soccorso nei termini dell'equità, e contro l'egoismo e la durezza de' primi.

6º Istituire in ogni città, dove gli operai sovrabbondino, due sorte di lavoreríe pubbliche permanenti; l'una pei rozzi braccianti, l'altra per gli operai delle arti più comuni.

7º Tali istituti verranno ordinando per guisa i regolamenti e le discipline proprie, e con sì fatta misura verranno proporzionando le lor mercedi, da non sopraffare in nulla le industrie de' privati; e d'altra parte, toglieranno a queste l'arbitrio di soverchiare gli operai in nessuna cosa, e uscire dell'equità e della mansuetudine.

8º In tali lavorerie e officine pubbliche non debbono gli operai nè venire costretti a viver rinchiusi, nè perdere alcuna porzione di quella indipendenza di atti e di pensamenti che la civile libertà concede ad ogni uomo onesto.

I lavori, poi, scelti e ordinati in quelle saranno volti con provvidenza ed accorgimento alla pubblica utilità, e segnatamente a quella del popolo minuto.

9º L'intromissione a tali opificj sarà conceduta ad ogni individuo il quale darà prova di aver senza frutto offerto l'opera sua nelle officine private; e questo farà esibendo certificati de' capomaestri, ovvero altrimenti, secondo che la pratica verrà insegnando. Può eziandio cansarsi in quelle lavoreríe il pericolo della frequenza degli operai soverchia e non cagionata da mera necessità, con fare strette più dell'uso ordinario le discipline; le quali poi debbono esser pensate e trovate con ingegno sì fatto da convertirle in buoni e cotidiani metodi educativi.

10º Tutto ciò ricerca che il tesoro arricchisca abbondevolmente per altre vie. Nuova fonte di ricchezza pubblica può divenire la tassa che domandano progressiva, ed una sulle eredità trasversali proporzionata alla più o meno strettezza di parentela, e il far mobili e circolanti (a parlare alla moderna) i beni immobili camerali, ed infine il fare sparmio di tutta l'immensa moneta che inghiottono oggidì e scialacquano i grossi eserciti stanziali, i gran favoriti di corte, i doganieri, li spioni e mille altre specie di ufficiali e di salariati o perniciosi o superflui.

[36]

11º Con molto valsente tenuto in riserbo, ovvierassi a quegli accidenti imprevisti (e ai dì nostri non radi) che turbano a un tratto l'economia delle industrie e del cotidiano lavoro: come le invenzioni rumorose de' fisici che fanno inutili issofatto certe specie di manifatture, o le macchine nuove di subito surrogate alla forza di migliaja di braccia, o quegli sbilanci improvvisi di commercio e di traffico che mettono in repentaglio la prosperità de' ricchi e la sussistenza de' poveri. Così gli Italiani fondatori antichi delle Case di lavoro, e pur lungo tempo innanzi che le altre nazioni ne avessero sentito il pregio, perfezioneranno secondo conviene alla nostra età il pietoso trovato degli avi loro.

12º In risguardo delle campagne, fa mestieri per prima cosa di riformare e ampliare il codice agrario o forese, onde si tutelino con più efficacia i patti e le relazioni giornaliere fra i possidenti e i coloni, migliorando le condizioni di questi ultimi, e mallevandole contra ogni ingiustizia e sopruso.

13º Secondamente, è bisogno che in ogni provincia s'instituiscano compagnie d'assicurazione (sovvenute dal denaro del Comune) contro i danni delle gragnuole, delle carestie, delle epizoozie e delle inondazioni; a tale che i contadini si veggano accertato ogni sempre il frutto del loro sudore. Il giudicio delle spartizioni si eserciti da periti appostatamente eletti dal popolo. Ma negli anni in cui il raccolto avrà oltrepassato un termine più che mezzano determinato dalla legge, pure i contadini concorreranno per la lor quota al pagamento della tassa di assicurazione.

14º Che un Consiglio superiore, ajutato dai succorsali delle provincie, prenda in cura speciale lo studio e la vigilanza degli interessi dell'infimo popolo. A questo consiglio verranno ascritti molti uomini pratici e molti versati in dottrine particolari e correlative ai fini proposti, e tutti poi splenderanno di specchiata probità e di zelo grande nei poveri.

15º Una parte del Consiglio provvederà specialmente alla vita sana del popolo, promovendo nel seno di questo le società di temperanza felicemente iniziate in America, ed esaminando l'interno delle officine, la materia e qualità dei lavori, [37] i cibi quotidiani, gli alloggiamenti, le vesti e simili obbietti. E buono sarà imitare l'esempio di Leopoldo primo di Toscana, il quale a spese dell'erario fece murare in buon luogo arioso gran numero di casette decenti ed acconce pel popol minuto; e compiremo in tutto l'ufficio con l'aggiungervi la modicità estrema delle pigioni.

16º Ad una seconda parte del Consiglio si darà incumbenza di vegliare gli andamenti del popolo, e la qualità delle sue industrie e de' suoi negozj. Illustrato il Consiglio sì dal lume delle statistiche e sì dagl'indubbj principj delle scienze economiche, avrà cura d'informare la gente minuta di quei fatti giornalieri e di quelle regole sperimentali che possono farla prudente nella scelta e nell'avviamento de' suoi lavori e de' suoi traffichi, e scostarla dall'imprendere mali negozj, e dal fomentare, siccome accade, mille vane speranze che tornano in sua ruina.

Vedrà eziandio il Consiglio quel che sia da ristorare degli antichi Statuti dell'arti e quello che sia da aggiungervi; e ad ogni modo, promoverà con istanza le congregazioni e consorterie legali degli operai, de' capomaestri e d'ogni maniera artefici, con l'intento di accrescere a ciascheduno i mezzi di produzione, e (ciò che più monta) lo spirito di fratellanza e di disciplina; così ristorando e migliorando, giusta il senno moderno, quelle compagnie italiane di muratori e di fabbri ferrai che nel medio evo menavan grido per tutta Europa. Similmente, il Consiglio promoverà con zelo perseverante le unioni e consorterie dei piccoli proprietarj e dei fittajoli, compensando di tal guisa i danni e gli inconvenienti dei troppo angusti poderi.

Veglierà eziandio sulle pubbliche mostre, sui comizj agrarj, sugli incoraggiamenti e sui premj da compartire; studierà il valore dei nuovi trovati e degli ultimi perfezionamenti, ed agevolerà ai poveri artieri lo smaltimento di loro lavorazioni, contro il monopolio dei troppo ricchi, ed a freno degli incettatori e rivenditori.

17º Il Consiglio procaccerà di mettere in buono accordo fra loro gl'istituti caritativi, facendo che si accostino tutti a certa unità di massime direttrici, e che l'opera dell'uno venga [38] a soccorso ed a compimento di quella degli altri con perfetta reciprocazione e armonia. Egualmente, procaccerà un accordo grande e una corrispondenza continua tra la privata carità e la pubblica.

4. — D'alcuni mezzi per sodisfare ai diritti che risguardano l'educazione.

1º Le scuole infantili sieno costituite per ogni dove, secondo i migliori metodi e sotto il vigile occhio del preallegato Consiglio superiore.

2º Che le scuole primarie od elementari succedano alle infantili similmente per tutto, e que' Comuni che mal possono sopperire alla spesa, ricevano dal tesoro sufficiente sussidio.

3º I figli del popol minuto uscendo dalle scuole primarie e principiando ad esercitarsi nell'arti come fattorini e apprendisti, abbiano in certi dì della settimana licenza di frequentare alcune altre scuole appostatamente trovate per coltivare l'ingegno loro.

4º In tali scuole s'insegneranno con gran chiarezza e semplicità i rudimenti di quegli studj che giovano in modo peculiare e immediato al buon esercizio delle arti e delle industrie.

5º Alcune scuole speciali insegneranno gli elementi della scienza del commercio e della marineria.

6º Oltre tutto ciò, il popolo in tali scuole verrà istruito, almeno per sommi capi, nella storia d'Italia, e iniziato a pregiare e sentire tutte le glorie antiche della sua patria. Gli si mostreranno altresì i rudimenti della scienza della vita civile, cioè le buone creanze e gli ufficj da uomo a uomo, i doveri e i diritti del buon cittadino, la natura e le forme giuridiche dei negozj ordinarj, e simili ammaestramenti.

7º Se il Consiglio superiore esaminando le note e le relazioni annuali delle scuole popolane, scoprirà ingegni di valore non ordinario e tali da far presagire di loro alte cose, schiuderà in tempo idoneo a quei giovanetti le scuole degli studj migliori e provvederà al mantenimento loro.

8º Il popolo avrà altresì arbitrio di frequentare alcune [39] scuole domenicali, ove gli si farà lettura e commento (ben conformato alla sua comprensiva) d'alcuno de' nostri gran poeti e gran prosatori. Che ciò che vien fatto assai grossamente in sul molo di Napoli da un cencioso e ignorante rapsoda, molto meglio e con gran profitto si potrà porre ad effetto da un governo educatore.

9º Esso governo, per ufficio e preghiera del Consiglio superiore, farà invito ai più dotti e facondi scrittori della nazione a dettare opericciuole che ben si attaglino all'intelligenza del popolo, e sieno ricreamento dell'animo suo in qualche ora disoccupata. Voglionsi più che ordinarj i premj, e grande l'onore proveniente da siffatte lucubrazioni.

10º Similmente farà compilare e stampare qualche efemeride per uso del popolo, scegliendo scrittori di provata virtù, e ingegnosi nell'arte di render piane e semplici le dottrine.

11º Ogni insegnamento popolare verrà concepito e condotto in guisa, che l'animo se ne nudra tanto o più dell'ingegno. In ogni cosa si farà luogo con grazia ed acconciatezza ai documenti morali, scansando le troppo fine disputazioni, e cercando le vie del cuore, che nel popolo è sempre svegliato e caldo.

12º Il Consiglio superiore ordinerà in modo la disciplina delle pubbliche lavoreríe e degli altri istituti di carità, che ne risulti un ben insieme di precetti, d'esempj e di pratiche appositissime ed efficaci per riformare e comporre l'animo della plebe.

13º La somma degli insegnamenti morali, intendiamo di quelli più proprj e meglio adattati al popolo, consiste nell'insinuare entro l'animo suo una fede profonda nella giustizia eterna e riparatrice di Dio; e con questa, un coraggio assiduo contro i mali della vita, e una carità viva e operosa, segnatamente inverso i proprj consorti. Consiste quella somma nel coltivare abilmente il germe degli istinti più generosi, e movere la fantasia verso le imagini del bene; consiste nel far sentire la dignità e santità del lavoro, e pregiare per quel che sono le ricchezze e gli agi e l'apparente beatitudine dei doviziosi; infine, consiste nell'avvezzare la plebe, in difetto dei materiali conforti, a gustare con abbondanza i beni e i [40] ricreamenti dell'animo, come la pace e gli affetti della famiglia, i piaceri dell'amicizia, il dirozzamento dell'intelletto, il perfezionamento dell'arte propria, la stima dei confratelli, l'amore nella patria, le glorie di lei, gli ornamenti, la prosperità.

5.

Queste sono le speranze a cui da ogni buon Italiano debbe venire alzata la mente e il cuore delle moltitudini; queste le riforme e i perfezionamenti cui darassi mano quando che sia, perchè tutte sono operabili; questa la vera e sola e legittima Carta del popolo.[2] Conciossiachè, a volerla mettere in atto, non è mestieri (come si vede) di rovesciare e sconvolgere neppure un solo degli ordini sociali odierni, nè di fabbricare alcuna forma politica ignota o troppo discosta dagli usi nostri. Quello che vi si ricerca sostanzialmente, si è il buon volere e lo zelo delle classi superiori; e, a chiamar le cose col nome loro, si è la tarda giustizia dei facoltosi e potenti inverso i poveri ed impotenti; si è il principio attivo e sincero dell'uguaglianza e della fraternità che il Vangelo di Cristo à predicata e promessa a tutti gli uomini.

Infrattanto non debbono i buoni Italiani, aspettando giorni migliori, desistere mai dal cercare tutti i modi, tentare tutti gli espedienti, rinvenire tutti gli ingegni per condurre ad effetto alcune parti almeno di cotesto nobile disegno. E di che non viene a capo, di che non trionfa la travagliosa operosità, la perseveranza e l'unione?

Non chi comincia soltanto, ma chi persevera coraggioso entrerà nel regno dei Cieli.

CAPITOLO IV. Di altri precetti particolari.

Veduto quello che importa di più nell'educazione del popolo, procederemo a discorrere d'alcuni precetti che toccano materie di gran momento per la rigenerazione italiana.

[41]

1. — Cose conducenti all'unità morale degli Italiani.

1º Procacciamo che i parentadi si facciano i più frammisti che si può, cioè tra famiglie di città, provincie e Stati diversi d'Italia.

2º Tuttociò che rende lo straniero maggiormente odioso e abborrevole; tutto ciò che mostra più aperto i mali da lui cagionati e ne rinnova il senso profondo e lo moltiplica e lo perpetua, torna di necessità favorevole e vantaggioso alla patria; e per via di contrapposto, ajuta a far radicare ed invigorire il sentimento nazionale.

3º Questo è fomentato eziandio da tutte le opere letterarie e scientifiche il cui subbietto à riferimento speciale con l'intera Penisola: come, per via d'esempio, una enciclopedia italiana, storia d'arti italiane, gallerie d'Italia descritte, miniere d'Italia visitate, e altrettali.

4º Sforziamoci di accrescere e moltiplicare il carteggio e ogni altra sorta di relazioni e di contraccambi sì fra tutte le accademie della Penisola, e sì fra tutti i compilatori delle sue stampe periodiche.

5º Agevoliamo e moltiplichiamo fra li suoi Stati il cambio de' libri e d'altre merci attinenti alle lettere.

6º Similmente, procacciamo che i giornali d'una provincia si occupino più che non fanno dei negozj letterarj e civili delle altre; e gran pro farebbe un giornale costituito con questo intento di discorrere e paragonare insieme le cose letterarie e civili d'ogni parte d'Italia, e quelle degli altri Stati ancora più che del proprio.

7º Eccitiamo tutti, massime i giovani, a visitare città per città e borgo per borgo la nostra Penisola, contraendo e coltivando in qualunque luogo amichevoli affezioni e corrispondenze. Così fanno, rispetto alla patria loro, i Tedeschi, molti de' quali stretti da povertà sostengono di viaggiare a piedi con zaino dietro alle spalle.

8º Una grande sapienza civile ammirasi dai politici in quell'antico precetto mosaico del dovere ogni anno tutti gli Ebrei concorrere nel loco medesimo a celebrare insieme [42] la pasqua. Deh! che non faremmo noi per convertire in obbligo sacro questa peregrinazione degl'Italiani per ogni parte del Bel Paese. Ma se tanto nè da noi nè da qualunque altro si può, introducasi almeno appo i buoni la ferma opinione, che di quindi innanzi quel giovine, il quale in età di trent'anni non abbia peranche fornito il viaggio della Penisola tuttaquanta, è indegno di venir reputato buono e caldo Italiano. Simile riprovazione sia fatta cadere sopra coloro che alla medesima età ignorassero ancora l'antica storia e la moderna d'Italia.

9º Tentisi di aprire una fiera annuale di libri, imitando quella famosa di Lipsia, che è sede e capo del commercio librario di tutta l'Allemagna. Luogo a ciò accomodato sembra essere Pisa.

10º Tentisi di istituire ragunanze generali di dotti Italiani, al modo di quelle incominciate in Germania, che ogni anno mutano residenza.[3]

11º Tentisi di rimettere in fiore l'Istituto Italiano dal Lorgna fondato, e di farlo centro e capo de' nostri studj scientifici.

12º Tentisi di celebrare con pompa solenne i giorni secolari, o come altri li chiamano, i parentali de' nostri scrittori ed artisti massimi, con partecipazione di ciascuna provincia, e operando in guisa che ogni università e accademia invii deputati alla festa. La Germania à dato testè un esempio insigne e imitabile di tale usanza con la celebrazione del dì natalizio di Federico Schiller.

13º In fine, tentisi qualche accordo fra i nostri governi circa agli ordini doganali, in guisa che i commerci interiori acquistino maggiore franchigia, e tutta l'Italia sia loro comune emporio.

Nel che dobbiamo porre innanzi l'esempio del governo prussiano, il quale, per aver forma di monarchia assoluta, dee parere modello non punto rischioso a copiare: ciò si ripeta eziandio in risguardo di molte altre innovazioni e provvedimenti [43] che quel governo è per porre ad effetto; come l'unità e conformità dei pesi, delle misure e delle monete fra più Stati contigui.

14º Si offrano premj frequenti ad opere letterarie e scientifiche, facendo invito a tutti gli ingegni italiani; i têmi proposti versino sopra materie attinenti alle condizioni ed agl'interessi della Patria comune. Per gli edifizj e lavori d'arte di gran momento, conserviamo l'antica usanza italiana dei pubblici concorsi, aperti all'intera nazione.

15º Scriviamo compendj di Storia italiana in modo piano e popolare, ristringendoci, se non si può meglio, all'esposizione nuda dei fatti, e ingegnandoci di ridurli a qualche forma di unità, e di tornarli spesso in pensiero sotto diverse fogge ed aspetti, come di tavole sinottiche, di catechismi, di biografie, di racconti, ec.

Una specie di scrittura assai popolare e istruttiva è quella degli almanacchi ordinati per modo, che a ciascun giorno dell'anno cada il ricordo d'un fatto notevole cercato nelle istorie d'Italia e nelle biografie de' suoi grandi uomini.

16º Asteniamci dal parlare i dialetti, e curiamo che si faccia il simile nelle scuole primarie, nelle sale di asilo e in altrettali istituti di educazione popolare.

17º Studiamo e pregiamo assai la nostra lingua comune, purgandola dalle forme straniere; imperocchè in essa è un legame fortissimo di nazione, il solo non ancora spezzato; e in essa è pure la sola ricchezza campata al naufragio del nostro civile imperio.

18º E gran bene procurerebbe colui che tentasse di trasformare l'Accademia della Crusca in vero italiano istituto, componendolo di socj chiamati in Firenze da ogni banda d'Italia, e intesi a imprimere nella lingua l'universal carattere nazionale, e propagarne lo studio e l'uso.

19º Ravviviamo e rinvigoriamo in tutte cose il sentimento italiano, studiando l'indole e le tendenze che abbiamo sortite in proprio, e adattando a quelle i pensieri e le opere. Sudiamo a comporre una agricoltura e una industria italiana, ed abbia la letteratura altresì sembianza veramente nostrale, e non semifrancese o semitedesca qual'è la presente: [44] il simile adoperiamo per la filosofia, per la medicina, per la legislazione, per l'economia. Vorrei che fossimo Italiani perfino nelle mode e negli usi più minuti del vivere e del conversare.

20º Buono è ripetere e moltiplicare quanto si può le effigie de' nostri grand'uomini; vogliate per decoro ed intitolazione di accademie, di teatri, di biblioteche e d'altri istituti; vogliate (e ciò più spesso e più agevolmente assai) sotto forma di statuette, di medaglie e di cammei; vogliate infine per fregio di pendoli, di sigilli, di spilletti ec.

Comecchè da qualche tempo la Storia italiana porga materia frequente alle invenzioni degli artisti e alle composizioni dei drammaturghi, utile è di accrescere e propagare cotesta nobile usanza; e piacerebbemi molto vedere più spesso in iscena taluni de' nostri sommi poeti, artisti, capitani, navigatori e politici.

21º Similmente, piacerebbemi che i gran casi e le glorie de' nostri tempi migliori fossero da chi cerca qualche subbietto da tragedia anteposti e preferiti alle cupe e atroci scelleratezze delle famiglie principesche. Tuttociò, poi, che riconduce la immagine di quei tempi sotto gli occhi del popolo, sia che si faccia per via di stampe e d'intagli, ovvero in pitture, in ispettacoli e in monumenti; e, se meglio non si può, in mode, in balli, in maschere, in fogge di vestimenti e di addobbi e in qualunque altra fattibil maniera; riesce proficuo sopramodo a far radicare negli animi il sentimento nazionale. E perchè i retori italiani non cesseranno nelle scuole di proporre per têmi d'esercitazioni i soli eroi della Grecia e di Roma? perchè allato, almeno, di Epaminonda non parlare di Andrea Doria e di Francesco Ferrucci? perchè favoleggiar sempre dell'assedio di Troja, e non dir verbo di quelli sostenuti da Firenze e da Siena? perchè tanto rumore della lega Acaica, e tanto silenzio della Lombarda? La cacciata dei Tedeschi da Genova non vale forse quella di Brenno da Roma?

Perchè non ci acconciamo a scrivere un gazzettino di mode italiane con figurino italiano, traendo il bene puranche dalle umane frivolezze? Perchè non s'innovano appresso di noi quanti usi e costumi italiani antichi possono tuttora tornare graziosi e pregevoli? Perchè alle stoffe, ai panni, ai [45] fornimenti nostrali si preferiscono sempre gli oltramontani, qualora non la cedano quelli a questi se non di poco sì per la bontà e sì pel costo?

S'inviti l'Accademia dei Georgofili, od altra avuta in riputazione, ad istituire una mostra triennale d'ogni industria italiana per tutti gli Stati della Penisola, decretando medaglie e simili segni d'onore ai più meritevoli. Altrettanto si faccia a rispetto dell'arti belle; e dove nè alcun ricco privato nè alcun Governo nè alcun istituto vogliasi in ciò adoperare, rimane che si colleghino con tale proposito i migliori cittadini d'ogni parte d'Italia, seguitando l'esempio dato (poco è) dai cittadini di Colonia.

22º Avvezziamo le menti, e sopratutto le giovanili, a scorgere ed a riverire nell'eccelsa Roma la sola e legittima città capitale d'Italia. Spegneremo con ciò molte gare.

23º Cooperiamo alla moltiplicazione dei battelli a vapore, delle strade ferrate, dei canali, dei ponti e d'ogni altro mezzo efficace ad accostare gli uomini ed accorciar le distanze.

Fra le imprese industriali, promoviamo quelle singolarmente che sono di qualità da espandersi ed abbracciare l'intera Penisola o molte parti di essa; come grandi consorteríe di assicurazione, corse di battelli a vapore, strade che traversino più Stati italiani, e simiglianti.

24º Combattiamo per tutte le guise le preoccupazioni e i rancori municipali, le sciocche animosità e invidie fra Stato e Stato, fra città e città.

25º Travagliamoci segnatamente a conciliare le opinioni de' buoni, e a tollerar quelle che non combattano di fronte il fine a cui debbe tendersi unanimemente, la rigenerazione italiana.

Tra noi le opinioni riusciranno varie e diverse in qualunque tempo, perchè troppa per natura è in ciascuno la singolarità e l'indipendenza dell'ingegno. Ma se il cuor nostro verrà compreso e infiammato da magnanimi affetti, e se la devozione sincera alla causa comune italiana rattempererà l'invidia degl'inferiori e l'orgoglio e l'ambizione smodata dei capi, la discrepanza dei pareri non impedirà mai certa unità di operare nelle cose di maggior momento; perchè un [46] affetto generoso e comune e prevalente sugl'interessi privati e individuali termina sempre col rinvenire alcuno spediente onorato e alcun modo pratico di conciliazione e d'accordo. Rimedio, adunque, al conflitto acerbo delle opinioni, al soverchiare dell'orgoglio e all'insorgere abituale contro l'autorità e la disciplina, è l'amore immenso e puro nella Patria comune, e il sentimento profondo e radicatissimo del dovere.

26º Addottriniamoci delle condizioni topografiche, morali, intellettuali, economiche, ec. di ciascuna parte d'Italia, affine che cessi la vergogna perniciosissima di aver più notizia di alcuni Stati forestieri che della nostra Patria medesima; e affine si sappiano per appunto così i nostri mali, come i nostri beni, e i dati tutti richiesti alla soluzione del problema nostro sociale e politico.

27º Poichè un secondo legame di fratellanza e un avviamento all'essere di nazione sta riposto per noi Italiani eziandio nella unità delle religiose credenze, e nel dimorare in Italia il capo e moderatore augusto di quelle, curiamo d'imprimere in tale unità un carattere peculiare che ci distingua dagli altri popoli, e faccia la Chiesa italiana esemplare a tutte le altre. Spieghisi, pertanto, l'antica bandiera cattolica di Arnaldo da Brescia, di Dante, del Savonarola, del Marsilio, del Sarpi. La scritta della bandiera sia tale: — Ai dogmi e all'ortodossía rispetto e osservanza profonda: l'autorità e forza della Chiesa e l'opera de' suoi pontefici è meramente spirituale: quindi l'opinione sola e non i governi ànno ingerimento legittimo in essa: le discipline debbono essere riformate e rivocate alle origini: debbe tutto il corpo de' chierici partecipare, come in antico, alla scelta de' suoi gerarchi. — La legge morale evangelica è strettamente incorporata con la vita civile e con le virtù cittadine.

NOTA.

Tutti i precetti e suggerimenti fino qui registrati sono insufficientissimi a compire la trattazione delle materie a cui guardano. Il poco che scrivemmo vuole unicamente delineare un esempio della maniera d'investigare e proporre simile sorta di pratiche.

[47]

ALLA CONTESSA OTTAVIA MASINO DI MOMBELLO.[4]

Pregiatissima signora ed amica.

Alla sua gratissima rispondo molto più tardi del debito e del conveniente; ma io desiderava pure poterle dir cose ferme e ben risolute circa il mio tornare in Italia. E prima, io voglio renderle grazie il più caldamente che posso della memoria sempre amichevole che mi conserva e della grande amorevolezza di tutte le sue parole: anzi le dico, che fra le innumerevoli dimostrazioni ch'ella m'à dato di affetto e bontà in varj tempi e in mille maniere, questa ultima è delle più care e non riesce inferiore ad alcuna; sicchè io ne custodirò viva e perpetua nell'animo la ricordanza. Ora vengo al proposito, e primieramente io mi rallegro con lei, con me, con la nostra patria e con tutti i buoni, dell'atto d'amnistia promulgata da Sua Santità, pel quale sonosi alfine vuotate le carceri e le secrete che da lunghissimi anni mai non cessavano di riempirsi, rinnovando e martoriando gli squallidi abitatori. L'accoglienza poi benigna e graziosa che Pio IX à fatto a parecchi scarcerati, la scelta dello Gizzi a segretario di Stato, e altri segni e dimostrazioni provano chiarissimo la vera e profonda bontà del pontefice, e il suo desiderio sincero di riformare lo Stato, contentare i popoli, e così porre termine a una condizione di cose che veramente scandolezzava il mondo civile, e recava funestissimi danni alla religione.

Dubito forte che riesca al pontefice di attuare la metà [48] sola del bene che disegna di fare; ma non per questo non sarà degno personalmente di affetto e di riverenza grande; perchè in un secolo quale si è il nostro, e in mezzo ad una nazione oppressa e degenerata, chi può pretendere in cotesto sant'uomo la eroica ostinazione di Sisto V, il coraggio di Giulio II, la mente e la sapienza d'Innocenzo III e di Pio II?

Ma per ridurre il discorso alla mia persona, io le debbo far noto, che contro l'animo, io credo, del papa, la nunziatura di qui richiede due atti preliminari da ciascheduno che vuol giovarsi dell'amnistia. L'uno è di far di ciò domanda speciale e in termini di petizione in grazia, la qual domanda inviasi a Roma, e occorre di aspettare quello che ne verrà risoluto colà. Secondamente, giunta che sia la risposta e tenutala (poniam caso) per favorevole, debbesi apporre il proprio nome ad un foglio, in cui fra l'altre cose vien dichiarato dal soscrivente di voler godere della grazia del perdono generoso e spontaneo concessogli ec. Ora, io non chiedo perdono di colpe di cui non mi sento reo; e quando tale mi sentissi, non avrei, certo, aspettato l'indulto del papa, ma da buon tempo avrei confessato l'errore a Dio e agli uomini: perchè chi fa, falla; ma il galantuomo si ricrede e confessa il peccato suo. Chiedano innanzi perdono essi (e qui non c'entra il papa novello) del sangue che ànno sparso con processi e giudicj che tutti riconoscono oggi essere stati veri assassinj. Qualora il papa avesse ricerco agli amnistiati una promessa formale di vivere quieti e obbedienti alle leggi del suo governo, e di non mescolarsi in cospirazioni e in qual sia tentamento e sforzo di rovesciare e abolire l'autorità sua, io tanto più volentieri l'avrei promesso, quanto insino dal 39 (ed ella forse ne à memoria) mandava fuori un'opericciuola in cui per tutte guise raccomandava alla gioventù italiana di desistere dalle sètte e dalle macchinazioni, e di entrar nella via che ora sembra finalmente voler esser calcata e seguita con buon proposito. Io non posso adunque, purtroppo, senza fare ingiuria alla mia coscienza, approfittare dell'amnistia. Il ciel mi guardi dal censurare chi la intende altrimenti: queste cose, com'ella sa, le delibera e le risolve ciascuno nel suo proprio sè, pigliando consiglio non da altro che dall'intimo senso morale. [49] Io non tornerò in patria, salvo che per la porta dell'onore, diceva un grandissimo; ed io benchè picciolo assai ed oscuro, non posso non ripetere quel degno concetto; poichè la coscienza e l'onore ànno ugual pregio e misura uguale per tutti . . .

················

Di Parigi, li 31 di agosto del 1846.

Terenzio Mamiani.

[50]

LETTERA IN FORMA DI CIRCOLARE.

Signore.

In questo anno, come v'è noto, compiesi il centenario della cacciata degli Austriaci dalla città e riviera di Genova. E il primo atto della gloriosa sollevazione accadde il 5 del vicino dicembre. Tal gesto, il più bello forse della storia moderna italiana, e che diviene caparra e simbolo di altri non molto remoti da noi, merita di essere celebrato con ogni possibile dimostrazione.

Pare a me ed ai miei amici che uno dei segni di gioja pubblica da praticarsi in quel giorno, esser dovrebbe di ardere fuochi sulle colline più prossime a ciascuna città nelle prime ore della notte. Noi ne abbiamo scritto a parecchi in Romagna, in Liguria e in Piemonte. Se vi garba l'idea, parlatene ai vostri amici e invitateli a porla in effetto, facendo loro avvertire ch'ella è cosa la qual non incontra nè spesa nè rischio; e d'altra parte, è vistosa e significativa oltremodo. Nè altro per questa.

Di Parigi, li 20 novembre 1846.

Terenzio Mamiani.

[51]

LETTERA AL CARDINALE FERRETTI SEGRETARIO DI STATO.

(Dall'Italico, semestre II, n. 11. — Roma, 16 settembre 1847.)

Eminenza Reverendissima.

L'Eminenza Vostra, senza neppure venir pregata e sollecitata da me, ma solo per vive raccomandazioni de' miei parenti ed amici, ha voluto, per gran bontà naturale, favorirmi e beneficarmi. E non essendo riuscita nel primo atto d'intercessione presso il glorioso Pontefice, si è pur degnata di replicare le istanze; e jeri mi giunse avviso che Sua Santità condiscende, a contemplazione della domanda fattane dall'E. V., a darmi licenza di rivedere la mia provincia natale, e per lo spazio di tre mesi poter quivi riconfortarmi con la mia famiglia e con gli amici de' miei primi anni. Quanto poi alla condizione posta da Sua Santità, ch'io prometta innanzi (trascrivo le parole medesime di V. Eminenza nella lettera sua al Perfetti) di non volere in alcun modo cooperare nè direttamente nè indirettamente a turbare l'ordine delle cose politiche negli Stati Pontificj, io pensava che non le fosse nascosto avere io compiuta assai largamente quella siffatta dichiarazione, scrivendo nel marzo del corrente anno all'Eminentissimo Gizzi e chiedendogli di venir posto a parte del benefizio dell'Amnistia; «la qual promessa (aggiungeva io in quel foglio, e replico nel presente) io fo molto più volentieri, e intendo di adempiere con tanto maggiore lealtà, quanto è già lunga pezza che scrivo, e persuado i cittadini miei di calcare le vie in cui sembrano alla per fine voler entrar tutti concordemente, e le quali sole posson [52] condurre alla vera e stabile rigenerazione della Patria nostra.» Ciò io significava e scriveva or fanno parecchi mesi; ed in questo mezzo tempo il succedere delle cose è riuscito così favorevole alle speranze dei buoni, che quella promessa di rispettare le leggi quali sussistono, e fuggire ogni modo occulto e violento di mutazione, è divenuta un obbligo naturale, necessario e comune, da poi che, mediante la saggezza miracolosa di Pio IX, incomincia in cotesti nostri paesi un ordine vero legale, per addietro sconosciutissimo, e per via di cui si à facoltà di procedere pacificamente e di grado in grado all'acquisto d'ogni perfezionamento civile.[5]

Che io non possa poi ringraziarla condegnamente, e come io desidero, della bontà e parzialità singolare in me adoperata, scorgesi bene da ciò, che se il rivedere la patria ed i suoi dopo sedici anni d'esilio e dopo estinta la speranza di più abbracciarli, è da computarsi fra le maggiori consolazioni del mondo, a me dee mancare qualunque fiducia di esprimere all'Eminenza Vostra, non pur coi fatti ma con le parole, la gratitudine che me le stringe e annoda in perpetuo. Solo vorrei pregarla a considerare che questi sentimenti li dice un uomo lontanissimo da ogni maniera d'adulazione, e a cui sono ignoti affatto le corti ed i grandi, ignoto il conversare e il carteggiare con esso loro; e a cui infine reca una vera e novissima meraviglia e soddisfazione il potere e dovere far ciò la prima volta in sua vita con l'Eminenza Vostra, nella quale si avvera e l'antico adagio che la bontà soggioga ogni cosa, e l'antica massima dei giuristi filosofi, che negli ottimi è un diritto naturale e non prescrittibile di dominio e d'impero.

Di Genova, li 15 agosto 1847.

Dell'Eminenza Vostra

Devotissimo ed Obbligatissimo Servo
Terenzio Mamiani.

[53]

DISCORSO RECITATO AL BANCHETTO CHE IL CIRCOLO ROMANO OFFRIVA E DEDICAVA ALL'AUTORE
il dì 23 di settembre del 1847.

Fratelli e Compatrioti.

Il massimo de' misfatti è bagnare le mani nel sangue civile; e l'Italia (eterno suo dolore e rimordimento!) ha per secoli molti lacerato col proprio ferro le proprie membra. Però, chiunque non reputa le cose mortali essere governate dal cieco caso, dee nel contemplar le ruine e il disfacimento della patria comune, ridire a sè stesso: — Tremenda ma giusta è la tua ragione, o Signore! — Per giudizio dell'alto, il popolo stato per vigor d'armi e sapienza di leggi arbitro e reggitore di tutto il mondo agli antichi conosciuto, passò sotto il giogo di cento nazioni, le quali per insino a jeri se l'hanno diviso, mercatato e venduto, come torma di vili giumenti. Per giudizio dell'alto, la schiatta più gloriosa fra tutte le umane fu abbeverata a lentissimi sorsi di umiliazione e di scherno: e noi miseri che trascinammo per lunghi anni la vita in esilio, e vedemmo dappresso la boria dello straniero e gli occulti suoi pensamenti, noi vi testifichiamo, o fratelli, che il nome d'Italiano era sinonimo di codardo, e apponevasi a modo d'antonomasia al giullare ed al barattiere.

Ma infine, le luttuose partite della colpa e della espiazione sono pareggiate, e la pagina nuova che nel gran volume dei nostri destini sta ora aperta e spiegata, porta le solenni parole di riscatto e risurrezione. E perchè in nessun popolo viene ad effetto un profondo e durevole rinnovamento, salvo che per virtù propria e interiore, e gli Italiani scaduti e inviliti [54] affatto innanzi al proprio cospetto aveano dolorosamente smarrito ogni fede e ogni coraggio in sè stessi, Dio, con consiglio amoroso e misericordievole, mandò loro un segno ed una caparra evidente e infallibile del patto rinnovato e del perdono largito. Allora scorgemmo in vetta al Campidoglio e a vista di tutte le genti cristiane apparire un Angelo col nome di Pio, apparire un Labaro sacro e vivente, in cui dall'Alpi al Lilibeo le serve e languenti popolazioni girarono attonite il ciglio, e lesservi giubbilando In hoc signo vinces. Nè questo solo prodigio ha mostrato il Cielo ad accertare i Popoli nostri della salvezza insperata.

Di voi, o Romani (lasciatemi parlare il vero), di voi fieramente si sentenziava e diceva: — Gli altri stanno distesi ed infermi, ma questi son morti e putono di cadavere; quadriduani ei sono, perchè da ormai quattro secoli, e propriamente dallo sfortunato Porcari che esalò l'anima sul patibolo, più non dettero voce nè crollo. — Ma Pio IX che penetrava gli occulti del vostro spirito, così non parlò, ed accostatosi a voi come Cristo Signore alla figliuola della vedova, esclamò pieno di fede: Non est mortua, sed dormit. E voi vi svegliaste, e nel tratto di soli pochi mesi faceste l'Italia meravigliare delle vostre civili virtù. Nel vero, parecchie di queste, a guardarle nell'abito solo esteriore, possono sembrare altresì accomunate a gente o guasta o incivile: l'amore di libertà è naturato coll'uomo, e non rade volte s'accende tra cittadinanze rozze e feroci; l'unione dei voleri può sorgere spesso da ferrea necessità, o dalla fiamma non durevole dell'entusiasmo; sprezzar la morte e i pericoli è dote eziandio dei selvaggi; ed alcune fiate negli ultimi eccessi della barbarie ribolle negli animi umani un valor disperato. Ma ciò che rimane peculiare e qualitativo dei popoli veramente civili, e forniti di alto senno e di sentire magnanimo, si è la politica temperanza; si è il reggere, come voi fate, l'impeto stesso degli affetti più generosi, e il voler che procedano d'ugual passo la moderazione e la forza, la prudenza e lo zelo, la ragione e l'istinto: ondechè in voi, si può dire, sono principiati in un dì medesimo e il possesso di parecchi diritti, e la difficile saggezza di saperli assai convenientemente [55] usare. Ma v'è più oltre di bene. Imperocchè, o Romani, noi vi accusammo di angusti pensieri e di gretto egoismo, e che non iscorgevate nè mondo nè umanità di là da Ponte Molle e da Porta Carmentale: e voi, in quel cambio, chiamati appena a un cominciamento di vita politica, avete pensato sopra ogni cosa all'Italia, e ogni vostro atto e consiglio va sottomesso e coordinato pur sempre alla salute, al risorgimento, allo scampo di qualunque individuo della comune famiglia Italiana. Vi accusammo di basse superstizioni; e molti chiamavanvi per istrazio una congrega di pusilli e di bacchettoni: e voi, a riscontro, mostraste di avere in cima dell'intelletto e accogliere e serbare entro l'animo la essenza più pura e fruttifera del Cristianesimo; significaste coi fatti di professare la sua generosa e razionale moralità, scaldarvi degli spiriti suoi più progressivi e sociali, ed ardere al fuoco di libertà che tutto quanto lo investe e il vivifica; in somma, mostraste di aver in cuore segnata e scolpita la Religione Civile, maestra ed inculcatrice di tutte quelle virtù, quegli uffici, quelle annegazioni in che versa la carità cittadina, e le quali assommano la grandezza e la perfezione del saldo e verace Italiano. Per tante e inaspettate prove d'un sentire liberale ed altissimo, avete, o Romani, insegnato al mondo, che, contro a mille apparenze e mille sintòmi, le brutture e la corrutela rimanevansi esteriori e parziali, e, come a dire, solamente appastate all'intorno del vostro animo, e che mai la sostanza e il midollo non intaccarono e offesero: onde esso fu simile a quelle stupende sculture giacenti tra le vostre ruine o in alcun canto de' vostri trivj, calpestate dal passeggiere, coperte di lezzo e di mota; ma le quali rimesse appena in sustante, e lavate e deterse d'ogni immondizia, subito rivelano agli occhi maravigliati di ognuno la loro antica e non alterata bellezza.

A me le sorti non concederono il privilegio e l'onore di nascere dall'augusta vostra sementa, ma però scorremi dentro le vene il puro sangue latino; e voi, voi pure, o Romani, siete un latino rampollo, e di gente latina crebbe e si allargò questa Città eterna e fatale. A gloria poi ed a singolare compiacimento mi reco l'essere stato in mezzo di voi [56] e alle medesime vostre scuole allevato; e il Calandrelli, il Conti, il Gasperini, il Folchi, ed alcuni altri ingegni debitamente cari ed illustri, furono i primi balj e nutricatori della mia povera mente. Da ciò pensate se mi tornò in somma dolcezza il rivedere queste mura, lo spirar di nuovo queste aure, fissare gli occhi negli occhi vostri, e, più che tutto, con voi conversare d'Italia e di libertà. Da ciò pensate se mi s'imprime forte nell'animo una perpetua riconoscenza dei larghi favori, dell'ospitale affabilità e della fratellevole tenerezza con che vi piace di accogliermi; nè valgo a significarvi a parole, quanto l'affetto abbondi e moltiplichi nel cuor mio considerando tra me le splendide dimostrazioni e le segnalate e invidiabili testimonianze d'onore con cui volete esaltarmi quest'oggi. Il qual onore voi intendete per certo di conferire non alla mia persona oscurissima, non ai meriti di buon cittadino in me troppo scarsi, ma sì bene ai principj e alle massime generose e civili sempre e invariabilmente da me professate, e all'amore e al desiderio di questa nostra gran madre Italia, che m'hanno continuo infiammato, e da cui, in sedici anni di amarissimo bando, mai non ho divertito l'animo un sol dì e un solo istante. E ciò tutto voi fate perchè sia indizio e pegno certissimo ed universale del come intendete premiare e onorare coloro che non di sole parole e consigli (mio vano e sterile pregio), ma sì bene avranno con tutto l'animo e con tutto il sangue ajutata e affrettata la italiana rigenerazione; la quale (giova ripeterlo) voi, Popolo Romano, avete iniziata, per voi s'avanza, da voi si sostiene, e senza l'opera vostra mai non potrà riuscire nè santa, nè feconda, nè duratura.

[57]

SULLA TOSCANA.

(Dall'Italico, semestre II. — Roma 23 settembre 1847.)

Da lettere di Firenze raccogliesi, che la nuova legge colà pubblicata circa all'ordinamento della Guardia Civica, non tragge seco l'adesione e il suffragio di tutti, ed anzi qualche porzione di popolo ha fatto perciò dimostrazioni sconvenevoli e tumultuose. Noi desideriamo che quelle lettere sian cadute in amplificazioni: ad ogni modo, teniamo per fermo che qualora si apponessero in tutto al vero, la stampa periodica della Toscana, anzi dell'Italia intera, non mancherà al debito suo, e rivocherà gli avventati e gli sconsigliati dalla via funesta dei tumulti e delle sommosse.

Certo, noi non daremo per questo cominciamento di male in escandescenza e in furore, e non ingiurieremo nessuno col titolo di fazioso, di ribaldo, di demagogo. La storia e il raziocinio c'insegnan del pari quanto sia facile entrare in possesso d'alcuni diritti, e quanto difficile saperli saviamente serbare ed usare. Compatiamo in generale all'inesperienza de' giovani e all'ardore impaziente delle moltitudini, e ci sentiamo dispostissimi a ravvisare ne' lor moti disordinati più presto un eccesso di zelo, che un effetto di male intenzioni, e ne' lor capi e guidatori un subito accendimento di fantasia e una baldanzosa presunzione di sè, di quello che mire personali e ambiziose, e voglia vera e deliberata di perturbare e sconvolgere.

Con tali considerazioni, noi pigliamo speranza che la voce dei buoni e degli assennati levandosi viva e concorde per biasimare codesti eccessi, vedremo di corto i giovani ravvedersi e le moltitudini rinsavire. A gente così ingegnosa, avvisata e penetrativa come i Toscani sono, gli è impossibile che non apparisca chiarissimo il danno grande ed [58] inestimabile, che recherebbe alla causa italiana questo rompere in clamori e in violenze ad ogni atto ministrativo che non gradisca (poniamo pur con ragione) a molti ed eziandio all'universale. Per gran ventura, àvvi oggi in Toscana rimedj regolari e pacifici ai cattivi provvedimenti. Tanto manca che il buon Principe voglia o possa al presente imporre a popoli suoi triste leggi ed improvvide, che ha messo a tutela della giustizia e dei diritti, e a lume e scorta sicura e comune del progresso civile, la libera e quotidiana esaminazione e discussione della cosa pubblica. Or vuole essa la plebe, vogliono essi i giovani inconsiderati preoccupare e sforzare il giudicio della stampa periodica, rompere l'equo e difficile sindacato degli atti ministrativi, la lenta e laboriosa maturazione delle riforme e dei nuovi istituti? Per tutto dov'è conceduto il venir componendo una mente ed un senso pubblico, e dov'è lecito all'opinione migliore e più generale il manifestarsi ed il prevalere non subito nè senza fatica, ma pure in modo efficace e perfettamente legale; il ricorrere a' mezzi violenti e il far mostra d'ammutinarsi, e dirò anche il solo turbar di frequente la quiete comune con atti sconci e rumori e grida minaccevoli ed ingiurose, fa pensare al mondo che il popolo il quale opera di tal guisa, mentre offende la propria sua dignità, disconosce la forza suprema della ragione e del vero; rinnega altresì coloro che tuttogiorno nelle stampe fannosi organo delle giuste querele e dei comuni desiderj; abusa da selvaggio e da barbaro de' naturali diritti; e merita di ricadere nell'ignobile stato di servitù e di codardia ove la smoderatezza e i vizj e le colpe de' padri suoi il cacciarono. E se questo in generale è vero, torna verissimo per noi Italiani, a cui tanta maggior prudenza e moderazione abbisogna, quanto le condizioni nostre sono state le più infelici del mondo, e permangono tuttora le più pericolose e difficili. A voi Toscani è bellissima gloria l'essere entrati primi o quasichè primi nell'aringo dell'italiana rigenerazione: ma di quindi, a voi procede un obbligo vie maggiore di porgere agli altri fratelli esempio salutare d'un'ordinata, prudente e incolpabile risurrezione. Non udite voi l'Italia, la nostra madre comune, la gran Donna di provincie, [59] ancor tutta bagnata di lacrime e coi solchi delle catene nelle braccia e ne' piedi; non l'udite voi, ripeto, raccomandarvi affettuosamente la vita sua, la sua salvezza, lo scampo estremo di tutti i suoi figli? Fra questi, Ella dice, v'ha chi infinitamente più di voi tollerava e soffriva, chi ha dato prove molto maggiori e malagevoli ad imitare di carità cittadina, costanza magnanima, vigore indomabile, amore santo e animoso di libertà. Eppure, vedete ch'ei sanno temperare i lor desiderj, e tenersi stretti e quieti nelle vie della legge e dell'ordine. Perchè, dunque, sarete voi più insofferenti ed immoderati? Deh, a che riuscirebbe, o figliuoli, la vostra sconsigliatezza, salvo che a sbarbicare del tutto le riforme bene iniziate, e la speranza che acquistan del meglio i fratelli vostri subalpini, dal cui coraggio e dalla cui disciplina io aspetto, quando che sia, d'essere fatta signora di me medesima? E non son del mio sangue, e non sono viscere mie quegl'infelici, che pur mentre io parlo, cadono laggiù trafitti dal piombo e dal ferro su ciascuna riva dello Stretto? I vostri savj e ammisurati portamenti, la vostra ragionevole discrezione e longanimità, il lieto spettacolo del vostro riposato e concorde vivere civile, può far cessare quelle morti e quel sangue, chiudere quelle larghe ferite, cambiar la mente e il consiglio di chi tiene in mano le sorti della Sicilia e del Regno. Il contrario (ahi misera!) procederà del sicuro dal disordine, dai tumulti e dalle violenze. In qualunque atto, o figliuoli, e in qualunque deliberazione, pensate ai profondi sospiri, pensate alle lagrime occulte e amarissime di tanti vostri fratelli men di voi fortunati, non però meno cari e men diletti al cuor mio.

(Dal medesimo-Roma, 7 ottobre 1847.)

Ci giungono di Toscana notizie certe ed esatte, dalle quali siam confermati nella speranza che avemmo, che le molte lettere mandate di là in cui parlavasi di fatti tumultuosi avvenuti per la pubblicazione del Regolamento intorno alla Guardia Civica, eran cadute in amplificazioni, ed entrate [60] in paura non ragionevole di scompiglio e sommosse. La saviezza della plebe (ci scrivono di colà) e la discrezione e arrendevolezza de' giovani non è minore in Etruria che nello Stato Romano, e l'antichissima urbanità e la universale e pressochè ingenita educazione delle moltitudini toscane non lascian temere ch'elle trascorrano di leggieri in atti violenti, e in riprovevoli e licenziose dimostrazioni dei proprj desiderj.

A noi vengono carissime queste notizie, e con piacere ci affrettiamo di farle assapere al pubblico. L'ufficio di ammonir con modestia, e correggere con amore le moltitudini, è forse il più ingrato di quanti competono al giornalista; il qual conosce assai bene non essere quello il modo di andare a versi nè del popolo nè de' giovani, cui piace naturalmente il sentirsi sempre lodati ed accarezzati. Ma la stampa politica, a riguardarla nell'alto suo ministero, e sceverandola da ogni basso fine di lucro e di ambizione personale e smodata, tien luogo oggidì in gran parte di quella solenne censura che fu il magistrato più austero e imparziale dell'antichità, e che mai non si sgomentava di dispiacere ai sommi ed agl'infimi, ai governati ed ai governanti.

La rigenerazione nostra vive una vita ancor tenerella e infantile, e può ammalare così di languore come di febbre. Noi, secondo le nostre forze, combatteremo sempre ambedue quelle infermità, quante volte non pure discoprirannosi apertamente, ma daranno indizio e sospetto di sè. Sui fatti possiamo ingannarci; le intenzioni sentiamo di avere diritte e generose.

(Dal medesimo-Roma, 14 ottobre 1847.)

(Precede una lettera sottoscritta da molti Toscani di eletto nome, nella quale si fa alcuna rimostranza sul penultimo Articolo.)

Appena da nuove lettere di Toscana fu dissipata la grave apprensione in che molti vivevano intorno alla quiete ed all'ordine di quella provincia, io mi affrettai con vivissima compiacenza di ciò pubblicare in questo giornale medesimo. [61] con data dei 7 di ottobre. Il foglio che giungemi di Firenze e leggesi qui stampato, riconfermando la buona novella, riconferma me nella gioja e consolazione ricevutane. V'ha molti casi nei quali la parola eccitata dalle notizie correnti, perde opportunità ed efficacia qualora s'aspetti che il tempo o cancelli appieno o raddrizzi ed emendi il racconto dei fatti. In cotali casi, chi non vuol mancare al debito di scrittore e di cittadino, e d'altra parte non vuol censurare senza buon fondamento, parla e ragiona per via di supposti, dichiarando di avere ferma speranza che le cose narrate o non s'appongano al vero o di molto l'amplifichino; e ciò appunto faceva io nell'articolo del 23 di settembre: l'impeto dell'affetto e la vivezza dei tropi debbesi unicamente recare all'indole dello scrittore e all'importanza suprema della materia. Come si propalasse la voce di disordini gravi accaduti e il sospetto di cose molto peggiori, io non so; ma che ciò si scrivesse in più luoghi e da persone assennate e di credito, è certo e noto ad ognuno. Nè il raziocinio valeva a mostrare e provare quegli avvenimenti come impossibili; conciossiachè, mancando a noi Italiani da troppo gran tempo la vita politica, ci vien meno similmente il criterio e l'abilità di presumere con molta certezza quello che siamo per operare. Ed anzi, considerandosi bene la inesperienza comune, l'ardore delle fantasie, i tempi difficilissimi, è più forse da maravigliare della universale prudenza e saviezza, che del loro contrario. Ma d'altra parte, io confesserò volentieri che nessun prodigio di senno civile è insperabile dai Toscani, privilegiati fra tutti i popoli italici per altezza d'ingegno, e gentilezza d'animo e di costumi. Del che mi sembra fare testimonianza molto notabile questo foglio medesimo che tanti egregi Toscani sonosi degnati mandarmi. Perchè non poteasi con parole più mansuete e cortesi, e con più squisita urbanità dimostrarmi l'errore in cui venni indotto, e il quale son quasi tentato di amare e di carezzare, dappoichè mi ha procacciata una manifestazione di benevolenza e di stima superiore oltre modo e, a meglio dire, senza proporzione veruna coi pregi della povera mia persona. Voglia ciascuno di que' degnissimi soscriventi riconoscere in queste [62] mie parole un atto sincero di scusa, di ringraziamento e di ossequio a lui particolarmente indiretto, e il quale io adempio con la solennità che posso maggiore, per segno durevole di osservanza e di gratitudine.[6]

[63]

PAROLE DETTE IN PERUGIA
NELLE STANZE DE' FILEDONI li 18 di ottobre del 1847.

Fratelli e Compatrioti.

Quante solenni memorie, quanti affetti gagliardi, che immagini varie di grandezze e ruine, di trionfi e cadute mi si adunavano intorno al cuore, mentre io saliva (or son pochi giorni) questi famosi Apennini, e scorgeva torreggiar di lontano la città vostra, antica e quasi naturale regina dell'Umbria!

E per vero, io discerneva quivi da ciascun lato i vestigi ed i testimonj d'infinite umane generazioni, e di più forme e procedimenti di civiltà; e di quindi io raccoglieva come a dire un compendio e un ritratto della storia intera d'Italia, in quel modo appunto che ne' più profondi scoscendimenti o dell'Alpi o de' Pirenei avvisa e riconosce il geologo la storia tutta quanta del globo terraqueo e de' paurosi suoi cataclismi. Certo è che voi, Perugini, col solo indicare gli avanzi che qui tuttora grandeggiano dell'opere ciclopee, e con l'aprire que' sepolcreti non da molto scoperti e tornati alla memoria degli uomini, ove intorno alle ceneri de' Lucumoni dormono gli antichissimi vostri padri, voi potete, insieme con l'altre metropoli etrusche, darvi titolo e gloria di progenitori veri dell'occidentale incivilimento; imperocchè appo voi le arti, la religione, le leggi, le leghe, i commerci già si attuavano e si spandevano, quando la Grecia medesima rozza rimaneva e selvatica. E però, in fra le nazioni tutte moderne, a voi si compete una specie di nobiltà naturale e di legittimo [64] patriziato, conciossiachè va ormai pel terzo migliajo d'anni da che siete usciti di stato barbaro e entrati a iniziare l'umano perfezionamento.

Ma le vostre valli e colline situate come si veggono fra il Trasimeno ed il Tevere, son tutte piene altresì di romane memorie; onde gli antichi libri raccontano che fino a quando stette e durò la Repubblica, stette e durò prosperevole il vostro Comune; e il ferro e il fuoco che per le mani scelleratissime dei Triumviri l'ardeva e lo smantellava, annunziò al mondo il prossimo disfacimento del maggiore degl'imperi. Ma l'Italia è sacra e non può perire, e di voi similmente fu decretato che alle ruine etrusche ed alle romane sorvivereste; e quando per lo crescente splendore del pontificato il nome d'Italia ridivenne temuto e onorando, e i vecchi municipj latini sentirono di aver riacquistata la balía di sè stessi, la città vostra, o Perugini, fu in quella nuova e maravigliosa costellazione di repubbliche un astro sereno e cospicuo: il perchè leggesi lungamente in tutte le storie patrie quanto la bravura di Fortebraccio, le armi e le astuzie de' Baglioni, l'autorità e la prepotenza di sommi gerarchi, faticassero e travagliassero ad assoggettarvi e a sbarbare dal vostro suolo la pianta divina della libertà. Ed essendo che la generosa vostra natura dovea farvi partecipi d'ogni ragione di gloria italiana, allato al valore di Niccolò Piccinini e d'altri gagliardissimi condottieri usciti del vostro sangue, nacque per gentil contrapposto quel miracolo d'arte Pietro Vannucci, la cui fama, avvegnachè grande e perpetua, sarebbe massima e sola, dov'egli non avesse nudrito del proprio senno e allevato nelle proprie sue scuole colui al quale voleranno secondi tutti i contemplatori del bello e gl'imitatori della natura.

Nell'età più bassa, voi pure, o Perugini, con tutta insieme la nazione italiana siete caduti, e il comune peccato espiaste delle guerre fratricide. I Genovesi nel sangue pisano e veneto, i Veneziani nel genovese e lombardo, voi tingeste le infelici armi vostre nel sangue fulignate e aretino: di quindi le miserie e le umiliazioni, di quindi la cresciuta ignoranza, e le pessime leggi, e la tirannia straniera e domestica.

[65]

Ma l'Italia (giova ridirlo) è terra sacra, e dai destini privilegiata; conciossiachè si racchiudono nel grembo suo infinite semenze di civiltà sempre nuova e ripullulante; e sembra che a ciò a punto il consiglio supremo di Dio lascila di tempo in tempo incolta ed inoperosa, perchè ristorata di forze quanto bisogna e purgata delle male erbe, faccia altra volta maravigliare il mondo universo de' peregrini frutti di sociale sapienza, che in modo affatto insperato produce e matura, e de' quali nudrisce di poi molto volentieri le menti di tutti i popoli. E che noi siamo al presente in questo ricominciare il glorioso cammino, e che la benignità dei cieli conceda a nostri occhi di rimirare i primordj fortunatissimi d'una quinta epoca d'italiano incivilimento, il dicono assai manifesto la letizia de' vostri aspetti, la concordia e meschianza di tutti gli ordini di cittadini, la significazione di queste scritte e di questi emblemi, le parole calde e leali che a voi ed a me or si fa lecito di pronunziare e di udire, il vedermi io stesso in mezzo di voi e da voi festeggiato dopo la lunghezza e l'acerbità d'un esilio più che trilustre. Ma forse meglio di qualunque altro indizio, e con chiarezza ed efficacia maggiore di tutti i segni da me notati, ciò che afferma, persuade e assicura qualunque intelletto del certo nostro risorgimento, si è lo scorgere qui presenti gli stemmi e l'effigie dell'Augusto e Ottimo Pio; il quale voi, o Perugini, con sublime antonomasia e con un senso profondo di verità, chiamar solete il liberatore, e ch'io credo altresì, senza pericolo niuno d'adulazione, poter domandare il Divino ed il Taumaturgo; perciocchè la subita trasformazione ch'egli ha operata nell'essere delle cose e nel cuore degli uomini, à, più che d'altro, natura e qualità di prodigio.

Sfavilli, adunque, d'amore e di gratitudine l'anima nostra verso un tanto Pontefice, al quale ha piaciuto con l'ultimo atto di sua saggezza di sollevare questi popoli alla giusta partecipazione della politica potestà; e incominciando in tal guisa fra noi un ordine vero legale, per addietro sconosciutissimo, e ponendo a principale custodia e difesa di esso non l'armi forestiere e le mercenarie, ma le proprie e libere de' cittadini, ha restituito a noi tutti il senso dell'umana dignità, [66] l'uso dei naturali diritti, l'alterezza del nome italiano. Però, il modo più acconcio e migliore di mostrarsegli grati e nobilmente rimeritarlo, si è per lo certo di proseguire, con ispirito animoso insieme e prudente, la impresa grande e magnanima da lui cominciata, e volere e operare l'universal bene com'egli l'opera e il vuole; cioè a dire con cuor mondo e labbro verace, e con interissima annotazione e rinunciamento de' nostri privati profitti. Affratelliamoci tutti con franco e devoto animo, tollerando le differenze delle opinioni e le ombre e le nebbie de' pregiudizj, spegnendo (se fia possibile) per sino il nome di fazioni e di sètte, e accettando non che per vera ed eterna, ma per benefica e salutare altresì quella massima la quale afferma starsene effettivamente gli uomini spartiti e schierati in due vasti campi; ma che nell'uno già non sono adunati i conservatori e i retrogradi, e nell'altro i liberali ed i progressisti; nel primo i solleciti e gl'impazienti, e nel secondo i moderati e i prudenti; in questo il clero ed i nobili, in quello i laici e la plebe: ma sì veramente nell'un campo stanno attendati gli onesti, e i disonesti nell'altro; imperocchè la virtù e il vizio soltanto hanno facoltà di spartire il genere umano, e inconciliabili sono fra loro pur solamente la bontà e la tristizia, la leanza e l'ipocrisia. Ogni onesto pertanto e ogni buono, qual veste o nome o condizione o pensieri ch'egli abbia, venga lietamente da noi ricevuto, ed anzi ricerco e sollecitato. Ma chiudansi perpetuamente le nostre porte agl'ipocriti ed ai malvagi, poco badando che per avventura liberali sien detti e liberali opinioni professino. Cademmo per le discordie e la corruttela, e per li soli contrarj loro potremo risorgere. Inebriamoci, a così dire, della carità cittadina, e un qualche tempo almeno viviamo dimentichi di noi stessi e ricordevoli unicamente della patria comune: ed io vel giuro per gli spiriti sacri e immortali dei martiri della libertà, noi salveremo l'Italia, e tutta la salveremo e per sempre.

Quanto è poi alla mia persona e alle cagioni ed al fine di questa lieta vostra adunanza, io pensando alle lodi veramente superlative che di me ho ascoltate, e guardando a queste singolari dimostrazioni di osservanza e di affetto, [67] onde a voi, Perugini, gradisce di onorarmi e fregiarmi oltremodo; io debbo, siccome fo, ringraziarvene con tutto l'animo, e conoscente rimanervene fin di là dal sepolcro; e sempre dinanzi agli occhi della mia mente dimoreranno le vostre sembianze e la dolce e cara memoria di questo giorno: ma io non posso in guisa alcuna ritrarne, come vorrei, una gioja sincera e un profondo compiacimento, conciossiachè io mi riconosca di tali onori e di tali fregi immeritevole affatto, nè piglio speranza per l'avvenire di crescere tanto nella bontà e negli altri pregi, da molto scemare la sproporzione coi vostri encomj e con la vostra ospitale cortesia e larghezza. E per fermo, io m'avvedo di non aver operato a rispetto d'Italia altra cosa degna e lodevole, fuorchè l'alimentare nel chiuso petto una infruttifera intenzione e un desiderio inerte ed inefficace di sua salvezza, e l'aver sostenuto con dignità conveniente la comune sventura: nel che è piuttosto da lodare la rimozione del male che l'adoperazione del bene, la quale appresso i popoli civili e magnanimi non dee consistere mai nel nudo e semplice adempimento di ciò che è debito universale d'ogni cittadino non reo e non vile. Perlochè, giovandomi pure della calda affezione che mi portate, e del non poco di autorità che ripor volete nel mio ragionare, sostenete che io vi consigli e vi preghi ad essere di tali mostre e testimonianze d'onore più parchi dispensatori, e serbarle tutte per quei generosi che in tempi ancor più difficili, tra prove molto più ardue e laboriose, tra cimenti di grave ed anzi d'estremo pericolo, sapranno, con forti spiriti e con la spontaneità e religione del sacrificio, fermar le sorti ancor vacillanti d'Italia, e pareggiar gli avi nostri nella grandezza loro più malagevole ad imitarsi; io vo' dire, lo spregio magnanimo d'ogni rischio e d'ogni infortunio, e il far getto sì degli averi e sì della vita perchè della patria carissima sia la vita eterna e gloriosa.

[68]

DISCORSO RECITATO AL BANCHETTO CHE I PESARESI OFFERIVANO ALL'AUTORE CONCITTADINO
il dì 31 di ottobre del 1847.

Fratelli e concittadini.

Sempre è dolcissima cosa rivedere la patria; e per poco ch'ella sia stata lungi dagli occhi nostri, un attraimento soave ed irresistibile a lei ci rimena. Ma rivederla dopo compiuti sedici anni, che sono sì gran porzione di nostra vita; rivederla dopo l'esilio, e per cessazione di quel divieto crudele che il desiderio di lei raccendeva nell'animo e rinnovava senza conforto ogni giorno; rivederla, infine, e ricuperarla quando la speranza n'era affatto venuta meno, quando parea cosa certissima dovere il povero rifuggito lasciare in terra straniera le sue ossa non lacrimate da alcuno, ciò reca tale e tanta squisita dolcezza e abbondanza di gaudio, che le parole non vi arrivano, e l'arte del dire smarrisce ogni sua facoltà. Ora, questa per appunto è la condizione e la insufficienza in che trovasi di presente la mia lingua e il cuor mio. Nè con tutto ciò, io v'ho ancora ricordato e dinumerato l'altre cagioni vive e gagliarde di mia profondissima commozione, e della piena impossibilità di significarvela. Conciossiachè io pensava che a' miei sospiri e al mio dolore trilustre fosse unico testimonio Iddio, e solo qualche amico d'infanzia dentro nel chiuso animo se ne compiangesse; laddove voi mi dimostrate, o fratelli, con mille prove, che tuttaquanta la mia città e provincia natale partecipava al mio lutto e dolore. Vollero i nemici del bene, e più specialmente nemici d'ogni libertà e grandezza [69] d'Italia, non che sbandeggiarmi per sempre e togliermi ogni cosa cara e diletta quaggiù; ma eziandio alla pena aggiunger lo sfregio, darmi appellazioni piene d'ingiuria, svegliarmi contro non l'amore e la compassione de' popoli, ma bensì l'odio e lo sprezzo. E voi in quel cambio, o miei Pesaresi, voi m'accogliete con quegli onori che non alla umile mia persona, ma sì starebbero bene a un uomo illustre e magnanimo; voi vi compiacete di me come s'io fossi augumento di vostra gloria, e passar mi fate, per così dire, dall'oscurità alla fama, dall'esilio al trionfo.

Tutto questo, o concittadini, versa sulle piaghe che m'aprì la fortuna un balsamo soavissimo, ed anzi elle sono già tutte chiuse e rimarginate. Se non che, per la necessità ineluttabile in cui vivesi l'uomo di sentire nelle cose più liete e felici la fralezza di sua natura, una qualche stilla d'amaro si sparge eziandio nel pieno di tal contentezza. Imperocchè io mi partiva di questa terra carissima vigoroso e fiorente di età e di salute, ed ora mi vi riconduco assai cagionevole e prossimo alla vecchiezza. Il sedere e conversare tra voi e con voi m'è somma gioja e compiacimento; ma quando io giro lo sguardo ne' vostri aspetti, troppe sono le sembianze amatissime e nel mio cuore scolpite che io cerco ed, ahi! non ritrovo. Irreparabile caducità delle umane sorti! Nello spazio di sedici anni, oh che dolorose trasmutazioni si compiono, quante memorie soavi s'estinguono, quanti sepolcri si schiudono, quanta parte della coetanea generazione vi scende!

Non però di meno, perchè lasciomi io rapire a sì triste meditazioni in ore sì belle e sì fortunate? E che può mai importare la mia soprastante vecchiezza e le mie infermità, quando io rimiro che la patria nostra ringiovanisce, e che lo spirito di libertà cominciando a scorrere nelle sue vene, tutta maravigliosamente la risana e rintegra? Parecchi dei miei prediletti amici ànno chiuso gli occhi nel sonno mortale: ma più non riposano in terra di schiavitù, ma il piede dello straniero non potrà oggimai calpestare le tombe loro, e la viva riconoscenza del popolo inverso ciò che vollero ed operarono a bene di lui, a bene d'Italia, più non fuggirà [70] paurosa li sguardi de' vilissimi spiatori; ed anzi, mentre esso popolo verserà su quelle tombe dolce e ricordevole pianto, le mani de' sacerdoti leverannosi a benedirle, e le lor sante bocche pregheranno la pace de' giusti alle anime infiammate di carità cittadina: imperocchè il maggiore de' prodigi e il più profittevole al mondo che la sapiente bontà di PIO IX conduce in atto, si è del sicuro quel caldo e fratellevole abbracciamento che vediam farsi in modi così impensati e sublimi tra la virtù privata e la pubblica, tra la libertà e la religione, tra l'incivilimento e la Chiesa. Io vi dichiaro, o fratelli, con gran fermezza, che quando anche i miei disagi e le mie afflizioni state fossero intrise di molto maggiore assenzio, quando incontrato avessi non pure un esilio quale ho sofferto, ma dieci altrettali ed ancor più acerbi, queste nuove sorti d'Italia porgerebbermi una mercede e un compenso oltre misura superiori; e la letizia che me ne procede, esser dee riposta tra le cose veracemente ineffabili, e tra quelle divine pregustazioni delle delizie celesti, che alcuna ben rada volta sono agli uomini concedute affin di aprire il loro intelletto e crescere il lor desiderio inverso le bellezze sovramondane ed eterne.

Per rispetto poi all'intenzione amorevole che tutti manifestate di onorare in me non le opinioni solamente le quali ò sempre mai confessate, e la santissima causa a cui son devoto, ma eziandio la mia persona e quello che di lodevole a voi par di trovare nell'animo e nell'ingegno mio, sinceramente vi affermo, che delle vostre onoranze ed encomj io sento di meritare appena una minima parte, e che pur questa io debbo da voi riconoscere. Imperocchè voi, come se tutti mi foste padri e fratelli, m'avete con amorosi consigli e con blandimenti e lodi ed esortazioni continue e infinite avviato al bene, e, mediante una specie di cortesissima e affettuosa violenza, m'avete fin dalla puerizia sospinto a desiderare la celebrità delle lettere. Così da voi s'è mostrato, con bello e utile esempio, che non riesce dannoso, come pensano molti, al primo svegliamento dell'intelletto e dell'altre nobili facoltà il nascer discosto dalle grandi e rumorose città capitali; perchè pure alle aquile, innanzi di avere spiriti e gagliardezza [71] per volare in cima dell'alpi e affrontar le bufere, fa d'uopo di crescere quietamente nel piccolo nido, e con tenue cibo venir nudrite. E similmente da voi s'è mostrato, come quello che suol domandarsi oggidì spirito municipale, quando sia ben temperato e commisurato all'amore e servigio che tutti dobbiamo alla patria comune, divenga sorgente perpetua di profitto e virtù, massime in questa nostra Italia, in cui la potenza individua di ciascun uomo tiene spesso del prodigio; quando che altrove le grandi cose si operano solo per virtù collettiva, come sforzo e peso di masse, il quale in ciascun atomo componente non apparisce e non ha valore assegnabile.

Ma perchè lo spirito municipale non nuoca ed anzi giovi e fruttifichi, egli è grandemente mestieri non solo di connettere e subordinare ciascun atto della vita del proprio Comune all'universal vita della nazione, ma di stringere quanti più legami si possono di socialità e di fratellanza con le città finitime e prossime, affinchè un flusso perenne di scienza e di civiltà corra e ricorra per esse tutte, come sangue per ogni vena di corpo animato. In cotal guisa, o Signori, poco avremo ad invidiare a quelle nazioni in cui li sparsi raggi d'ogni bene comune e d'ogni specie di scibile radunansi tutti in un punto solo sfolgorantissimo: conciossiachè i lumi del viver nostro civile, non ostante la picciolezza e tenuità di ciascuno, congiungendosi spesso e rischiarandosi mutuamente e a simiglianza di specchi l'uno nell'altro riverberando, cresceranno da ultimo sì fattamente e di numero e d'intensione, da soverchiare ogni forma e grandezza di umano splendore. Dalla qual cosa procederà fra gli altri beni questo prezioso e singolarissimo, di convertire l'astio profondo e le misere nimistà antiche in emulazione ardente e operosa. Nè a voi, Pesaresi, dee fare apprensione e paura l'entrare in simile competenza con mille altre città; dappoichè la natura v'à di raro ingegno e di non comune gentilezza privilegiati, sicchè picciolo popolo siete, ma glorioso e caro alla nostra gran madre Italia. Deh vogliate, o giovani, serbare a questa città natale il titolo suo invidiato di culta e di gentile, e non vi piaccia di confondere mai l'austerità e la valentía con la salvatichezza e con la ferocia, e di scompagnare dall'uso dell'armi gli studi [72] gravi e gli ameni. Ben conoscete che l'armi indòtte sono barbare, e in guerra non durano e non prevalgono; come, per lo contrario, la scienza imbelle e indifesa appiccolisce sè stessa e muor nel servaggio. E a cui non è noto il simbolo esatto ed elegantissimo per via del quale rappresentavano i Greci l'alleanza perpetua e necessaria dell'armi e delle lettere? chi non sa che Minerva, figliuola della mente di Giove, usciva dal capo del Dio brandendo l'asta e imbracciando lo scudo? Ma perchè m'andrò io ravvolgendo tra le favole greche, mentre la storia vera d'Italia offre a noi Metaurensi, e ai popoli tutti compaesani, uno specchiatissimo esempio del sapere alle armi contemperare gli studi, e fare scorta e governatrice d'ambedue la sapienza civile? E che altro erano le città famose di Metaponto, di Crotone, di Taranto, di Locri, di Reggio, se non collegi e famiglie di filosofi e di guerrieri? Quale altra parte del mondo à saputo a un tempo medesimo e con l'ufficio degli uomini stessi trovar le scienze e fondar le repubbliche; eccellere nell'arte della poesia e della musica, come nell'arte del difendersi e del battagliare? A chi non entrerà in cuore una giusta e durevole ammirazione, considerando quell'alternare continuo delle ginnastiche e delle meditazioni, quel passare di frequente dalle accademie al campo, dalla investigazione profonda delle fisiche e delle matematiche all'apprendimento disagiato e severo della milizia, e dalla quiete e solitudine contemplativa al maneggio e all'uso delle faccende politiche? Sono d'ogni cosa i padri nostri stati trovatori e maestri, nè mai ci bisogna di trarre altronde gli esempj e gl'insegnamenti. Nè dicasi che tutto ciò è antichissimo, e troppo remoto e diverso dalle condizioni moderne. Conciossiachè, a rispetto della natura, noi siamo sempre i medesimi, e nulla à cangiato sostanzialmente in Italia, salvo che la tempra degli animi; a ricomporre la quale ci basterà oggimai il fermo e saldo volere. Nulla nell'ordine delle cose mondane è più resistente e meno mutabile che i germi primitivi e le forme ingenite delle specie; e da voi non s'ignora per che serie innumerabile d'anni, tra quali forze nemiche e pertubatrici, si serbano integre e incorrotte le minute semenze di mille gracili pianticelle: or quanto più forti riescono, [73] quanto più perdurevoli i germi primitivi ed originali delle umane famiglie! Noi siamo, ripeto, e ciò ne serva d'orgoglio insieme e di vergognoso rimprovero, noi siamo li stessi che i padri nostri; e la invasione de' barbari altro non à pur fatto, che insinuare piccioli rivi d'estrania vena nel regal fiume delle razze latine; e que' rivi o sono già dileguati, o, come insegnano i fisici, servito ànno a ravvivare la virtù e l'efficacia delle antichissime stirpi. Nè a chiunque s'ostini di ciò, negare dobbiamo rispondere altra parola, se non invitarlo a girare gli occhi verso le sacre sponde del Tevere. Là veggia, là contempli la forza e generosità indomabile delle vecchie progenie. Essendochè quella misera plebe, giaciuta in sonno, in gelo e in torpore di servitù e d'ignoranza pel voltare di qualche secolo, e dopo aver tollerato lo sprezzo oltraggioso non che degli strani ma de' medesimi compatrioti, ecco si vien riscuotendo alla voce soave del suo Pontefice, e fa l'Italia e l'Europa maravigliare de' pensamenti e delle opere sue. Ella così stramazzata nel fango e l'ultima giudicata fra le plebi italiane, già sorge e procede animosa, già entra innanzi a noi tutti, e pianta in Campidoglio un Labaro nuovo promettitore di certa vittoria e in cui, dallato al nome augustissimo dell'autore e principiatore di nostra risurrezione, potrà, senza paura di scandalo e con approvazione e contentamento del mondo intero civile, riscrivere le famose e tremende parole Senatus Populusque Romanus.

[75]

Il seguente scritto usciva dai torchi verso il finire dell'anno 47, e in quel mentre appunto che in Roma si congregavano i deputati ad una Consulta in cui ponevano le città dell'Italia media speranze più che grandi. Desiderò l'Autore che il Municipio del suo paese natale porgesse l'esempio di addirizzare al proprio deputato parole utili e pubblicamente espresse, affine che da pertutto l'opinion generale dei popoli avesse comodità di farsi sentire e valere. Al Municipio gradì molto il pensiere, e l'Autore concittadino ebbe carico di porlo in atto. Ogni cosa è qui assestata alle circostanze, e parecchi concetti nuovi si meschiano ad altri comuni ed elementari di scienza politica.

[77]

IL MUNICIPIO DI PESARO AL SUO DEPUTATO APPRESSO IL PONTEFICE.

ALLOCUZIONE.

I.

Noi crediamo debito nostro e utilità e profitto di questi popoli Metaurensi l'aprire a Voi pubblicamente, o illustre signore, i nostri pensieri circa que' negozj gravissimi, a trattare i quali siete chiamato in Roma dal glorioso Pontefice. E del manifestarvi la mente che abbiamo e i desiderj e le speranze che vi accompagnano, ci sembra tanto maggiore la opportunità e la convenienza, quanto che noi non siamo per via diretta e per suffragio proprio e immediato i committenti vostri; tuttochè a noi sia gran cagione di stimarvi altamente e di confidarci nel vostro zelo e sapere la scelta che à fatto di voi il sovrano. Questi, nell'ultimo suo Motuproprio delli 15 ottobre, col quale à recato gioja sì viva nell'animo de' suoi popoli e in cui definisce gl'incarichi e le pertinenze dei deputati, rassegna fra esse l'ufficio di determinare le regole che la Consulta di Stato debbe tenere in trattare, deliberare e sindacare gli affari. Noi, dunque, v'invitiamo per prima cosa a compiere quell'ufficio in maniera, che la manifestazione della mente dei deputati e qualunque altro esercizio di lor facoltà e prerogative sia franco e spontaneo quanto bisogna, ed abbia per testimonio e per giudice quotidiano e debitamente istruito la pubblica opinione.

E voi potete ciò facendo chiarire altresì ed estendere alcune disposizioni di esso Motuproprio, le quali noi desidereremmo e più larghe e meglio determinate, affinchè le pubbliche guarentigie che vi si attengono, riescano da nessun lato apparenti e vacillanti, ma reali, ferme ed irrevocabili in ogni parte.

[78]

II.

Il Santo Padre, nella circolare delli 19 aprile mandata dal cardinal Gizzi a tutti i governi delle provincie, raccomandava più specialmente alle cure e meditazioni dei fedeli deputati l'ordinamento nuovo de' Municipj. E di vero, con gran senno il principe nella riformazione dello Stato prende le mosse da quella che ragguarda i Comuni; imperocchè, come puossi dare assetto, figura e vita all'intero corpo, qualora non sieno per innanzi ben composte e figurate le membra? Noi vi preghiamo, pertanto, se pure di ciò è mestieri pregarvi, che vi occupiate con tutto l'animo nella costituzione nuova dei Municipj; e intendiamo che ciò si faccia da voi con mente affatto imparziale e con estesi e generali concetti, badando sempre alle condizioni ed all'esigenze comuni, e non alle minute particolarità e pretensioni di tal luogo o di tale altro: imperocchè noi non vogliamo che il bene della città e provincia nostra sia per privilegio e per eccezione, e meno vogliamo che torni a scapito di qualunque altra parte dell'intero corpo della patria; ma sì domandiamo che ogni riforma ed innovazione nostra particolare avvenga per effetto di leggi comuni, e si accordi perfettamente con l'universale prosperità. Verso tre punti principali debbe addirizzarsi la perspicacia vostra nella materia dei Municipj.

Il primo si è, che a rispetto dello Stato risiede nel Municipio una libertà naturale di azione circa il formare e usare di tutti i suoi beni, appunto come nell'individuo a rispetto della città. Di quindi procede che le franchigie non gli son date dalla legge, ma sì dalla legge sonogli assegnate le giuste limitazioni di quelle; e però, in generale, la legge non dee (come sotto i governi dispotici) venire numerando le speciali e singolari facoltà del Comune, e prescrivergli quello che può, ma quello che non può e non dee.

Da cotal massima procede il secondo punto, che la legge cioè sappia e voglia costituire il Comune con quanta maggior larghezza si può; e intendiamo dire, che la spontanea vita di esso si svolga e cresca e si eserciti sciolta dalle restrizioni [79] e pragmatiche che or sotto nome di tutela, or sotto quello di sopraveggenza e di buon governo, impacciano dannosamente e oltre ad ogni necessità il corso naturale dei pensamenti e delle azioni commutative. E qui ci piace di ricordarvi, che la prima e fondamental cagione della prosperità sociale, durevole e non artefatta, si è la spontaneità, siccome quella che s'ingenera immediatamente dalla nobile natura umana, la essenza di cui è libera e incoercibile: di tal guisa, l'avviamento dell'uomo al vero ed al bene non dee venir procurato dalle prescrizioni della legge troppo speciali e forzose, ma dall'impulso generale dei metodi educativi, dall'incremento e diffusion del sapere, e da tutte quelle cagioni che per semplice virtù ed efficienza morale persuadono e ottengono i miglioramenti e perfezionamenti civili.

Per la ragione medesima, noi non vi raccomandiamo di estendere e moltiplicare le pertinenze dei magistrati municipali; stantechè ogni cosa per natural diritto è di pertinenza loro, quante volte essi operino a nome e per facoltà del popolo committente, e non invadano alcun ufficio che le leggi decretarono dover competere allo Stato e a' suoi reggitori. Molte volte accade, per lo contrario, che al governo generale dello Stato divenga profittevole sopramodo il chiamare i Comuni a partecipare ad alcune funzioni politiche; come, per via d'esempio, al ministero della polizia, ovvero a quello della giustizia con la istituzione dei pacieri e dei giudicj conciliativi, e ad altri incarichi d'ugual peso.

La terza considerazione che accade di fare intorno ai Municipj, si è di conoscere e misurare sin dove debba la volontà di quelli piegarsi e cedere alla volontà universale legislatrice, la quale reputa di comandare a nome del maggior bene comune. Conciossiachè non àvvi bene comune sì grande (toltone fuori le estreme necessità chiare e visibili a tutti), che compensi il gran danno di violentar troppo l'arbitrio individuale, e troppo restringere l'adoperamento e l'uso spontaneo delle facoltà e dei beni proprj. Scoprire il giusto temperamento tra l'arbitrio eccessivo dei Municipj e l'eccessivo ingerimento della potenza legislatrice, imperante a nome del bene comune, non è agevole impresa, ed è impossibile, [80] noi crediamo, a determinarsi in universale. Il buon senso e la pratica ammaestrano in ciò, come in altre ardue questioni, più sicuramente e assai meglio che le ambiziose teoriche; e però ci contenteremo di ridurvi in pensiero più d'un esempio che la pratica moderna europea ne reca innanzi. Noi giudichiamo, pertanto, che l'autorità legislativa in Francia degeneri parecchie volte in violenza, a rispetto delle libertà individuali e comunitative; e per opposto, giudichiamo che in Germania ella rimanga troppo timida in faccia de' privilegi o personali o municipali. In Inghilterra scorgiamo (massime in questi ultimi anni) una giusta e quasi perfetta proporzione fra tali due estremi: e tanto più i concetti nostri in questa materia si accostano all'Inghilterra e divertono dalle consuetudini della Francia, quanto il comprimere di soverchio in Italia la individuale forza e spontaneità, si è togliere a lei la più gagliarda cagione e la più intrinseca di tutte quelle meraviglie e grandezze che la storia ricorda e l'universo tuttora ammira.

Per ciò, poi, che s'appartiene alla forma costitutiva del Municipio medesimo, desideriamo, o signore, che vi sia in mente la massima professata nel Motuproprio di Sua Santità intorno alla fondazione del Municipio Romano; e questa è che i titoli e i requisiti così di elettore come di eligibile e così di magistrato come di consigliere, scaturiscano tutti dal censo e dalla capacità; e che il censo a ciò domandato sia tenue quanto si possa il più; e sia indizio della capacità ogni professione il cui possedimento ed uso ricerca una sufficiente coltura d'ingegno. Noi non vorremmo, inoltre, che il censo venisse dalle rendite misurato, ma dalle imposte bensì e dalle patenti, e da ogni maniera di dazj, inscrizioni e registrature; imperocchè questi dati compariscono tutti ne' libri pubblici, laddove le rendite ad essere bene conosciute domandano certa indagine che à dell'inquisitorio, e però è sempre odiosa: che se il censo non bene risponde all'entrate per difetti e disproporzioni gravissime del catasto, ei bisogna emendarlo; e ad ogni modo, cotesto sconcio è assai minore dell'altro accennato. Nè qui varrebbe citar l'esempio dell'Inghilterra, fondato sopra costumi troppo diversi dai nostrali. In genere, noi [81] opiniamo che le disposizioni costitutive delle magistrature e de' Consigli municipali esser debbano liberalissime ed assai popolari; perchè, parlando secondo ragione, all'uso d'ogni qualunque diritto non istà dallato altro limite certo e non valicabile, salvo che la poca o nessuna sufficienza d'esercitarli; e perchè questa nelle faccende comunitative riesce molto men rara che nelle politiche, così molto minori e più rare debbono essere le esclusioni. Non ignoriamo quello che da parecchi pubblicisti si obbietta contro le assemblee popolari e i larghi ordinamenti elettivi: a noi non esce di mente che la saggezza e la dottrina sempre sono di pochi; essere la moltitudine passionata e tumultuosa; dimostrarsi dai matematici, con certi lor modi speciosi, che la probabilità dell'ottima deliberazione è in ragione inversa del numero dei deliberanti. Con tutto ciò, noi pensiamo che l'equità e il diritto debbon passare innanzi ad ogni altra considerazione, e che dove sta l'equità e il diritto debbe l'azione del tempo condurre altresì la maggiore utilità pubblica: oltre a ciò, noi pensiamo, le moltitudini essere più savie degli individui in quel che s'attiene immediate agl'istinti e ai placiti del senso comune; essere insofferenti e nimicissime sopra tutto dell'ingiustizia, ed estimatrici egregie sì del valor morale degli atti e sì della bontà o malvagità degli animi; lo spirito gretto e calcolatore del secolo farsi tanto meno scorgere, quanto maggiormente si sale inverso il patriziato o scendesi inverso il popol minuto; infine, nelle moltitudini scemano l'ignoranza e le fallaci preoccupazioni col crescere della civiltà, e questa colà cresce e propagasi più prestamente dov'è maggiore la vita pubblica e la partecipazione di tutti ai comuni negozj. Oltrechè, il mondo va ora per cotal via; nè si può fare il bene davvero se non per essa, posciachè il secolo si può correggere, ma non mutare. Di tali cose parliamo un po' più disteso, perchè è nostra mente, o signore, che a voi piaccia, in qualunque caso d'istituzioni elettive, attenervi sempre ai sistemi e alle pratiche meno strette e più popolari.

Vogliate del pari, che sciolto si mantenga d'ogni legame non necessario il deliberare e l'operare del Municipio; [82] e dappoichè al governo è ragionevolmente serbata la facoltà d'interporre l'autorità sua tuttavolta che il Municipio o travia dalle forme preordinate di sua istituzione, o rompe alcuna legge od alcun decreto dello Stato, in qualunque altro caso non fa mestieri e non giova l'assentimento de' superiori, siccome atto giustamente presunto e che mai non difetta. Molto meno, poi, fa d'uopo la presenza e assistenza de' supremi ufficiali alle discussioni ed alli scrutinj comunitativi; molto meno il richieder licenza per le ordinarie e straordinarie convocazioni de' Consigli: e il simigliante si dica per altre suggezioni ed impacci.

Dopo le cose fino a qui ragionate, ci occorre di aggiungere poche parole intorno ai Consigli provinciali. Imperocchè gli è manifesto che molte delle franchigie e delle costituzioni qui avanti domandate pei Municipj, convengono più che bene ai Consigli delle provincie. Del pari divien manifesto, che noi vivamente desideriamo che il modo con cui verranno chiamati i rappresentanti dei Municipj al consesso provinciale sia il più largo possibile, ed ogni Circondario almeno abbiavi il suo deputato: la qual cosa diviene oggi tanto più necessaria, quanto, a tenore dell'ultimo Motuproprio, i Consigli provinciali s'ingeriscono direttamente nella elezione dei deputati alla Consulta di Stato. E però, nel determinare l'ordinamento finale di essa Consulta (secondo l'arbitrio che ve ne lascia il sovrano), voi considererete per bene tutte le intrinseche attinenze che legar debbono i Municipj ai Consigli provinciali, e questi alla generale deputazione.

Possono ancora con vantaggio e con equità i Consigli provinciali venire investiti del diritto di esamina e di revisione per tutte quelle risoluzioni comunitative le quali inchiudessero gravi e straordinarie spese, o decretassero istituzioni nuove di gran momento o l'abolizione di antiche; il qual diritto dovrebbesi per innanzi determinare con quanta maggiore esattezza e lucentezza è desiderabile e conseguibile in tali materie. Nella vita sociale umana appajono quotidianamente due atti contrarj e insieme correlativi, nel giusto combinamento dei quali giace la precipua cagione d'ogni prosperità: il primo atto è innovare, il secondo è [83] conservare; e comechè ambedue facciano d'uopo ugualmente al bene comune, ciò nondimeno la varietà degli umori e delle condizioni produce che le tali persone sieno inclinate all'innovare e le tali altre al conservare. Similmente occorre al bene comune, che nelle faccende pubbliche gli uomini esercitino con opportunità e con giusta misura così l'ardore dell'animo, come la riflessione; e così l'impeto e l'energia del volere, come la lentezza e maturità del giudicio. Ma egli avviene del pari, che la differenza dell'indole, delle professioni e d'altri accidenti, facciano l'una specie o classe di uomini più riflessiva e fredda di quello che operosa e infiammata; ed un'altra, tutto il contrario. Ei si conviene, per conseguenza di tutto ciò, stabilire che in ogni ordinamento sociale e politico deesi far luogo agli innovatori e conservatori, agli ardenti ed ai giudiziosi, per via di speciali e separate congregazioni. Ma perchè poi l'umana repubblica è vita e operosità, e suo destino è procedere innanzi nel nuovo, però nell'autorità conservatrice non mai (per quello che noi ne sentiamo) debbe dimorare una illimitata potestà e un divieto assoluto e definitivo, ma bensì una facoltà di rivedere, sospendere e ritardare; di guisa che la riflessione spassionata e la cognizione piena e corretta possano entrare in tutte le menti, e che le ragionevoli rimostranze delle minorità (come suolsi chiamarle) non sieno dalla prepotenza del numero soffocate. In questi termini, e non altrimenti, noi vorremmo attribuire ai Consigli provinciali un diritto di tutela e di moderanza; chè di là da quei termini potrebbero essi Consigli addivenire tanto più soverchianti e oppressivi, quanto la lor condizione ed origine non li scioglie abbastanza dalle passioni, dagli errori e dagli interessi personali e locali.

III.

Ma le franchigie comunitative picciol frutto recherebbero, qualora non fosse al cittadino guarentita pienamente e durevolmente la libertà e sicurezza delle azioni private. A voi dunque apparterrà, o signore, ajutare il principe nella [84] difficile revisione dei codici, senza la quale verrebbero quasi meno tutti gli altri miglioramenti e progressi.

Ne' paesi dove à potuto aver luogo il libero svolgimento della ragion pratica del diritto, e in Francia singolarmente, sempre, nelle relazioni personali e nell'uso e trasmissione delle proprietà, si è veduto crescere e dilatare quello spirito di equità e di uguaglianza e quelle massime di gius naturale, che fin dal tempo dei Cesari penetrava e animava tutte le parti della legislazione romana, e che piegò il fiero diritto Quiritario alle esigenze ineluttabili della giustizia e ai principj assoluti del vero e del bene. In tal materia, pertanto, men paurosa ai Governi, la saggezza vostra si eserciterà innanzi tratto nello scegliere ciò che di più equo e insieme di più luminoso e semplice è stato deposto nei codici meditati dalla sapienza moderna.

Quei filosofi i quali pensano che la legislazione giuridica delle nazioni sia l'opera e il frutto lentissimo dei secoli e delle consuetudini, e vogliono però che a quell'opera ed a quel frutto s'abbia una riverenza e un rispetto molto prossimo al culto e all'adorazione, non troverebbero modo alcuno di applicare le lor dottrine all'Italia, dove le guerre, le invasioni e le rivolture ànno interrotto e disfatto più d'una volta il tacito lavoro del tempo e delle costumanze, e ànno quindi spogliata la legge del carattere sacro e solenne che suole imprimerle l'antichità, e pel quale serbasi ella più che mai veneranda e inviolabile. Noi, dunque, cadremmo in troppo grave e sciocco abbaglio, se a fine di mantenere o di ristaurare pochi avanzi sconnessi ed informi delle antiche legislazioni, rischiassimo di smarrire i veri e sostanziali vantaggi che mena seco la facoltà preziosa in che siamo di poter costruire con disegno nuovo, razionale e abilmente coordinato, la legislazione nostra universale e giuridica. Noi vi animiamo quindi a imitare anche in ciò la magnanimità del principe, il quale si fa, dove occorre, non pure riformatore, ma creatore. Oltrechè, la tradizione più antica e comune di tutti i popoli italici, quella è del diritto romano, e antica è l'arte appo noi di commentarlo e correggerlo secondo l'ordine di ragione. Così il nuovo per noi sarà forse antichissimo, se non nella lettera, nello spirito certamente.

[85]

Ma gli svolgimenti, le correzioni e le applicazioni del diritto sono infinite, e non vuolsi credere che la scienza moderna le abbia presso di qualunque culta nazione esaurite. Gran materia da meditare vedrete raccolta sotto due rubriche quasi nuove ed importantissime, e sono il diritto amministrativo e il diritto economico. Noi vi raccomandiamo in risguardo del primo, di ben discoprire e determinare tutte le relazioni che il legano con la patria legislazione, e con gli ordini nostri sociali e politici. Distinguendo ciò accuratamente, e cogliendo la ragione intrinseca di tutte le pratiche, l'amministrazione cesserà di comparire arbitraria, incoerente e volubile, e accosterassi viemeglio ai principj dell'equità, e all'esatto e continuo criterio del comune interesse.

A rispetto poi di quello che noi domandiamo diritto economico, a voi fa d'uopo indagare con diligenza e con perspicacia la varietà e implicazione tragrande recata in tutti i negozj privati e publici dallo incremento straordinario che in quest'ultimo mezzo secolo ànno acquistato le ricchezze, le industrie e i commerci delle nazioni: certo è che in verun paese, eziandio de' più dotti e operosi, sonosi ancora definite a dovere le attinenze nuove, i raddrizzamenti e le ampliazioni che lo stato presente economico vien recando di giorno in giorno alle prescrizioni dei codici e a tutta insieme la legislazione civile. Il codice commerciale avrà molta parte de' vostri pensieri; e come quello ch'è più popolare degli altri, procaccerete che vada lodato singolarmente di brevità, di semplicità e di chiarezza.

Il codice penale è fra gl'istituti umani il più necessario, perchè ripara ai difetti e alla insufficienza così delle leggi e degli ordini educativi, come di qualunque altra virtù governante e provida che impedir vuole il delitto, piuttostochè rintracciarlo e punirlo. In tal subbietto vi è noto, o signore, che a noi Italiani non fa bisogno uscire di nostra patria, affine di rinvenire gli esempj e i documenti migliori. A confessione dei dotti d'Europa, il codice penale napolitano, considerato nel suo beninsieme e nella ragion generale, risponde meno imperfettamente di tutti gli altri all'idea filosofica del diritto punitivo. Se non che, le prigioni e le discipline nuove [86] penitenziali che or si vanno statuendo, e il concetto nobilissimo e santo, professato ognor più dai legislatori moderni, d'imprimere in ogni forma di pena il carattere espiatorio insieme e rigeneratore, ricerca di necessità, che sì cotesto carattere e sì quegli ordini nuovi penitenziali vengano intimamente legati e proporzionati al sistema intero del diritto punitivo; il che in niun paese ancora d'Europa s'è proposto ed effettuato secondo che i savj desiderano.

Ma lasciando ciò stare, noi reputiamo che a voi sia manifesto per sè medesimo, che vive nel nostro animo la speranza fermissima di ottenere dalla magnanimità del principe tutte quelle discipline e quegl'istituti giuridici, intorno al pregio e dalla proficuità de' quali più non si muove dubbio dagli statisti di vaglia; come, per via d'esempio, l'aprire un tribunale di ultimo appello, o, come il domandano, di cassazione; introdurre nei giudicj di reità i pubblici dibattimenti; abolire i tribunali speciali sotto qualunque nome e colore; stringere la competenza delle corti marziali alla sola milizia, e in materia sola di militare disciplina.

Quanto poi al condurre i giudizj coll'intervento dei giurati, come che noi vi riconosciamo una delle migliori e quotidiane malleverie dell'umana giustizia e della libertà individuale e politica, ciò nondimeno sentiamo che à luogo per esso più specialmente la legge della opportunità; e l'ordine de' giurati non dice bene veramente se non laddove ogni funzione della vita sociale e politica è partecipata dal popolo, e ogni cosa s'adempie sotto il magistero della libertà e della pubblicità.

Ma poco o nessun valore avrebbero i codici, poco o nessuno tutte le leggi difenditrici della libertà personale e d'ogni uso legittimo del proprio avere, quando non si volessero tramutare e rifare affatto gli ordinamenti di polizia, il cui nome suona ormai così malgradito e così pauroso, che si penerà molto a ritornarlo in pregio e osservanza. E ciò verrà conseguito con questi principali spedienti: che, cioè, la polizia cessi da quindi innanzi di farsi istrumento violentissimo e odioso della ragion di Stato; ch'ella venga unicamente in soccorso de' magistrati per vie legali e palesi; scelga mezzi concordi al [87] tutto con la moralità e dignità umana, ed usili in modo strettamente subordinato ai ministeri che serve ed ajuta; non abbia tribunali proprj, non officio e giurisdizione per sè e da sè, e le venga determinato dai codici la specie e la guisa d'ogni portamento e d'ogni atto. Bello e vivo esempio di tutto ciò porge l'Inghilterra, e da lei in tale materia piglieremo utilissimi ammaestramenti.

IV.

Finito l'esame dei diritti individuali, a voi toccherà trattare e discutere le leggi e le istituzioni che determinano e prescrivono il debito dei cittadini inverso lo Stato, e gli uffici eminenti di questo circa la comune prosperità. L'oggetto primo che si affaccia al pensiero sono le imposte, cioè il contribuire che fa ognuno secondo sue forze ad empiere e ristorare il pubblico erario.

Intorno alle imposte e alle altre sorgenti della ricchezza del Tesoro, sono sei cose da meditare, e ciascuna di gran momento. La prima, che i dazj e le tasse d'ogni maniera non eccedano le giuste esigenze e necessità dello Stato; perché, quantunque non torni vero (come piacque a moltissimi economisti di dire) che le imposte sieno danaro infruttifero, o sottratto almeno alla più fruttifera industria e solerzia privata, pur nondimanco è da pensare che, per diritto naturale, l'uomo pretende di adoperare e fruire ad arbitrio suo la propria pecunia, e ne cede allo Stato quella sola porzione che divien necessaria alla generale comodezza e tutela. Seconda condizione d'un buon assetto d'imposte, si è ch'elle sieno equamente spartite, mantenendo la miglior proporzione possibile con l'avere dei contributori. Perciò voi escluderete, o signore, tutte le tasse personali, e parecchie di quelle denominate indirette, e che sono di qualità da gravare il povero con isproporzionata misura, e senza altronde fornirgli proporzionato compenso. Importa similmente all'equa distribuzione dei dazj il riordinamento e raddrizzamento del catasto; cosa da lunghissimo tempo desiderata. Terza condizione si è, che il Tesoro non s'impingui giammai di denari ritratti per [88] vie non buone e alla pubblica moralità perniciose; siccome avviene pel giuoco funesto del lotto, per l'enormità veramente importabile delle tasse giudiciarie, per le leggi di confiscazione, e in gran parte altresì per l'imposizione delle multe, essendo che il ricco di quelle non sente disagio e il povero rimane oppresso. Illecite sono similmente di lor natura le tasse e gabelle che rompono o scemano notabilmente lo spaccio, il trasporto e la permutazione dei libri, e di tutt'altro che giovi l'incremento dello scibile e la comunicazione del sapere; illecite le tasse che inceppano e difficultano la manifestazione e pubblicazione del pensiere. Quarta condizione si è, che le imposte non cadano mai sui primi elementi generatori della ricchezza e del commercio, e sugli strumenti primi dell'arti più necessarie e proficue: i quali sconci avvengono (a citar qualche esempio) laddove, per le tariffe smodate e per effetto di appalti esclusivi, incarar si fanno gli utensili contadineschi, e dove con imposizioni e diritti eccedenti si scema nei porti la frequenza delle navi e dei carichi. Quinta condizione si è, che le materie le quali servono in diretto modo al sostentamento del popolo, vengano tassate o nulla o pochissimo. Chè quantunque gli economisti sembrino voler provare, il prezzo dei salarj proporzionarsi altresì col buon mercato o il caro del vitto, ciò non ostante gli è da notare che non tutti vivono di salarj, nè le braccia sempre riescono più numerose della ricerca ed uso che se ne fa. Oltrechè, nel caso qui divisato, scemando i salarj, scemano le spese di lavorazione: quindi viene il miglior mercato delle manifatture, quindi l'operajo provede con poca moneta a molti bisogni. Ad ogni modo, noi dobbiamo continuamente avere in proposito di sminuire per via diretta e immediata le privazioni e gli stenti della plebe: questo ci comanda la carità e la saggezza civile: nè dobbiamo badare se altri accidenti e viluppi d'interessi e di negozj possono menomare e combattere il buon effetto da noi voluto. A voi dunque, o signore, starà in animo di considerare per bene tali specie di dazj, e quelli segnatamente sul sale e sul macinato, che molto affliggono il popolo nostro minuto. I compensi, poi, alle rendite diminuite sono da trovarsi tassando invece le robe di moda e ciò che serve al fasto [89] ed al lusso, e decretando, laddove occorra, l'imposta progressiva o scalata (come i vecchi nostri dicevano); la quale, al nostro sentire, è nelle gravi emergenze più che legittima e ragionevole, ma solo domanda opportunità e senno per essere effettuata discretamente e con buon successo. Altro compenso daranno le male spese abolite e le superflue risecate; ed altro l'aumentato consumo, che sempre tien dietro allo sbassare delle tasse. Rinfranco altresì dell'Erario saranno i molti capitali immobili ed infruttiferi che possiede lo Stato, fatti (come dicono) circolanti e fruttiferi mediante le pratiche nuove economiche, e l'arte d'ampliare e fermare il credito pubblico. Sesta ed ultima cosa da ponderare nella materia dei dazj, a noi sembra che sia la lor riscossione medesima, la quale conviene che si operi senz'ombra di vessazione, con metodi semplici e speditivi, e con ogni possibile risparmio di spese. Gravi ed inveterati abusi avrete su tal proposito da censurare e abolire; dappoichè sembra, a giudicare dalle partite di alcune statistiche, che più del quinto di ciò che si manda al Tesoro vada sperperato e perduto in ispese di riscossione. In tal subbietto entra pure la considerazione dell'appaltare i dazj e le rendite, sul che c'è assaissimo da riformare e correggere; e v'è altrettanto, e ancor più, in quelle regole e usanze ministrative che da lunghissimo tempo non sanno impedire la frode e il peculato. Noi vi raccomandiamo, da ultimo, di fare accorto il governo di quanto sia pernicioso l'abito da esso contratto di rinnovare e moltiplicare i prestiti, e quanto riesca illusorio il bene che stima di ricavare dalle casse d'estinzione.

L'altra parte più che importante delle dottrine economiche a rispetto del Tesoro, consiste ad aprir nello Stato fonti larghe e più sempre copiose di produzione e ricchezza; chè quanto maggiormente abbonderanno amendue, tanto se ne avvantaggerà il Tesoro senza giunta di aggravio per li privati. A tale oggetto, pertanto, rivolgerete le vostre cure e le forze dell'intelletto. Voi ben sapete che primo mezzo e prima efficienza per arricchire lo Stato è la rimozione d'ogni maniera d'ostacoli. E qui cade, in ordine alle proprietà, la questione del loro spedito e facile affrancamento e trapasso, [90] e in ordine alle industrie e commerci la questione delle tariffe. Per compiere lo affrancamento dei beni, a noi non pare audace nè intempestivo di dichiararvi, che è in nostro desiderio l'abolizione ed inibizione dei fedecommessi e dei maggioraschi, così temporarj come perpetui, e così universali come parziali; perchè qui non dubitiamo di offendere la individuale libertà, essendo ch'ella dee trovar sempre un limite saldo e non valicabile nella naturale giustizia, e nelle leggi eterne dell'amore e della parentevole imparzialità e uguaglianza. L'affrancamento dei beni vuol essere unito alla malleveria delle ipoteche, la quale crescendo il credito e la sicurezza, conduce eziandio la frequenza dei contratti e spegne le usure. Il sistema, adunque, delle ipoteche debbe al possibile conciliare tali due opposti della massima guarentigia, e del massimo e agevole permutamento dei beni. Ognun vede che ciò rende difficile assai la disposizione generale e le riforme parziali a introdurre in esso sistema.

In risguardo delle tariffe, a noi è avviso che l'opinione dei così detti protettoristi, considerata che sia in massima e nella università dei casi, mostrasi falsa e divien perniciosa. Ma non pertanto vogliamo escludere affatto qualche uso transitorio ed accidentale che possa farsi delle tariffe. Solo intendiamo che in ogni questione in cui si disputi e si controverta la libertà di commercio, siavi caldamente raccomandato di seguir sempre le dottrine e la pratica de' padri nostri, e perciò favorire gli slegamenti e le franchigie d'ogni ragione: dalle quali essendosi discostate nei tempi più bassi le nostre grandi città marittime, e segnatamente Venezia, il commercio e l'industria italiana n'ebbe danno gravissimo e inemendabile. La seconda scaturigine della ricchezza comune, anzi la maggiore e che tutte le altre comprende, sì è il vivo eccitamento delle facoltà umane e della umana operosità. Il governo provvidamente l'ajuta ed accresce non col solo toglier da mezzo gli ostacoli e fare scorrere in ogni cosa gli spiriti potenti di libertà, ma promovendo le associazioni e consorterie, scavando canali, moltiplicando le strade e ogni altro mezzo di accostamento e comunicazione, soccorrendo e mallevando il credito pubblico, proteggendo con l'armi e l'autorità [91] in ogni parte del mondo la propria bandiera. Noi non siamo di quelli che pensano il governo dover tutto fare e tutto provvedere, ma nemmanco siamo di quelli che il vogliono spettatore inerte dei traffichi e delle industrie private: bensì giudichiamo che l'ingerimento e l'ufficio d'un saggio governo nell'universale ricchezza debba mostrarsi ed operare assai più discosto e per indiretto che prossimamente e direttamente, e preparar debba le remote e profonde cagioni piuttosto che gli ultimi effetti; nè mai turbi quel naturale equilibrio d'interessi e di profitti che il libero moto delle faccende umane produce; ed anzi procacci e studi che gli effetti medesimi delle sue provvidenze pajano al tutto spontanei e indipendenti da lui, e perciò moltiplichino e durino. Un mezzo, però, immediato ed efficacissimo di aumentar le ricchezze è in potestà e in arbitrio d'ogni governo, e consiste nell'iniziare e diffondere la istruzion popolare, e quella segnatamente che à maggiore attinenza con le arti e il commercio; e tale istruzione entra debitamente nel novero delle cagioni efficienti e primarie che noi veniam registrando della ricchezza e industria comune. Scendendo voi col pensiero ad applicare siffatti principj alla nostra patria, scoprirete, o signore, se male o bene si apponga al vero quello che noi crediamo con gran fermezza; dovere, cioè, l'Italia moderna imitare e gareggiar con l'antica eziandio in questo di cavare e dedurre ogni sua ricchezza primamente dalle arti agrarie, e secondamente da quelle industrie che meglio all'agricoltura si legano, in ultimo luogo dalla navigazione. Egli occorre persuadersi (e vi preghiamo ad averlo molto in memoria) che ai popoli meramente coltivatori fallisce di grado in grado la facoltà di competere con le nazioni manifattrici, e sostener con esse la utilità dei baratti e dei cambj. Per fermo, nell'arti agrarie i miglioramenti e i trovati non vestono quella varietà e moltiplicità infinita e maravigliosa di che son capaci le altre industrie: oltre a ciò, l'agricoltura soddisfacendo alle primitive e comuni esigenze del vivere, le quali di lor natura sono semplici ed immutabili, cede pure da questo lato ai lavorii ed agli opificj d'ogni maniera, da cui si promovono e soddisfano mille desiderj novissimi e [92] svariatissimi, e per cui si producono all'infinito gli agi, i ricreamenti e le morbidezze. Ciò scorgendo i nostri progenitori, all'arte agronomica, in cui furono solenni maestri, congiunsero la industria dei lanificj e dei setificj, siccome quella che riceve dalla coltivazione i suoi materiali, e con lei si annoda e collega.

A noi non vien fatto di conchiudere questi cenni brevissimi intorno alle imposte ed alla ricchezza pubblica, senza mover parola speciale delle strade ferrate, caldo e antico desiderio di queste popolazioni. Insistete, o signore, per la effettuazione la più pronta ed estesa di quei veicoli meravigliosi; mostrate che se dovunque apportano utilità, in Italia l'apporterebbero centuplicata, raccostando paesi e genti che sembran disgiunte e spartite da mari e deserti. Mostrate che quelle strade non tanto sono da riguardare siccome effetto, ma eziandio, e molto di più, come cagione iniziale di prosperità pubblica e di rapido incivilimento. Mostrate, in fine, che lo spendio il qual sosterrebbe il governo per ciò, sarebbegli in grandissima parte risarcito e ricompensato dal certo e sollecito aumento d'ogni maniera di rendite, pel fatto della ricchezza generale accresciuta.

V.

Forza è confessare che la scienza e la pratica insieme conoscono molto meglio le guise di produr la ricchezza, di quello che il mezzo e l'arte di equamente distribuirla. Noi vi preghiamo, o signore, con viva istanza, di condurre spesso le vostre cogitazioni sullo stato degli indigenti; e, in generale, su tutto ciò che tiene riferimento col buono o mal essere della plebe, che è la parte maggiore e più sfortunata dell'umana famiglia. V'à paesi in cui i lavori pubblici, la polizia, la marineria, la casa del principe ànno sembrato oggetti di gran pondo e sì vasti e implicati, da domandare la istituzione di uno special ministero. Ma in niun luogo peranche (a quello che noi sappiamo) è caduto in animo di commettere ad un supremo ufficiale lo studio e il carico peculiare della tutela ed educazione del popol minuto. A noi sarebbe caro oltremodo [93] che questa gloria d'innovazione e giustizia toccasse all'immortale nostro pontefice.[7] Ma come ciò sia, noi desideriamo forte che del tutelare ed educare le classi inferiori stia in voi continuo il pensiero e la cura, imperocchè questo è domandato con pari istanza dalla civile carità e dalla salute d'Italia. Nessuna gran cosa si opera al mondo senza l'animo e le braccia del popolo, e dal popolo solo riceverà l'Italia la sua redenzione ferma e finale. Ei si conviene pertanto, rimirando tal subbietto eziandio dal lato degli interessi politici, che le moltitudini veggano apertamente e si persuadano, la nuova forma dello Stato e le nuove miglioranze tornare a certo e grande utile loro. Pur troppo, non ci è nascosto che alla povertà e indigenza delle infime classi le leggi e gl'istituti civili insino a qui praticati non valgono a recar rimedio sollecito, sostanziale e durevole; e d'altra parte, sappiamo che nelle teoriche nuove dei socialisti è poco più altro di bene dal coraggio e dal buon desiderio in fuori: ciò non ostante, debbesi avere per fermo e per dimostrato, che la beneficenza pubblica esercitata con zelo prudente e sagace arreca mille conforti ed alleviamenti alle sventure del popolo, e non v'è termine fisso ed irremovibile a questo parziale e gradual scemamento dei mali dell'infima plebe. Ciò che spetta peculiarmente alle leggi e al governo in tale materia, è il porre in concordia e il condurre a certa unità d'azione e di mezzi tutte le disparate e disgregate opere e istituzioni di carità e beneficenza; i quali istituti ed atti bene coordinati e connessi moltiplicano e variano senza fine l'efficacia loro, e disgregati invece e sconnessi perdono non rade volte quasichè per intero il frutto prezioso dello zelo eroico che gli à promossi e adempiuti.

Voi porrete altresì gran diligenza e premura a studiare il concetto generoso e caritativo del principe di voler fondare case di educazione, e pubblici lavorii e officine pel popolo inferiore; ma pigliamo arbitrio di avvertirvi, che l'alto proposito è oltre modo più malagevole ad effettuarsi, di quello che abbia paruto a taluni chiamati ad ajutarlo col loro consiglio: e ciò diciamo tenendo l'occhio sul rapporto testè pubblicato da [94] essi, e indiritto all'eminentissimo segretario di Stato cardinale Ferretti.

VI.

A tutto il fin qui discorso intorno alla comune prosperità, convien dare il primo e incrollabile fondamento, il primo mezzo e la prima efficienza; e ciò consiste nell'istruzione. Principio d'ogni cosa sono le idee, e queste non iscaturiscono belle, luminose e operabili, se non dalla scienza. La istruzione, quindi, la più sostanziosa e moltiplice debbe farsi oggetto perpetuo del vostro zelo di deputato. Nè perchè il Motuproprio di Sua Santità, col quale assegna a voi ed ai vostri colleghi le pertinenze e gli ufficj, tace al tutto su questo particolare gravissimo degli studj, voi intenderete giammai che il principe voglia sottrarli alla vostra investigazione, che sarebbe un togliervi il primo e più efficace strumento d'ogni riforma e d'ogni progresso. Ed anzi, gli è tanto più naturale e credibile che la mente savissima del Pontefice voglia udire intorno di ciò le opinioni de' suoi consultori, in quanto egli sa e conosce che i popoli pontificj sono rimasti da tempo lunghissimo esclusi dalla pratica del governare; e a rispetto della teorica, è stata loro quasi abbarrata ogni via per inoltrarsi nella cognizione non meno della filosofia civile che di ogni altra scienza. Noi vi preghiamo, adunque, d'insistere su tal proposito con animo franco e deliberato, e di condurre le vostre cure e domande a qualche effetto notabile.

V'à in parecchi l'errore di credere che, per ristorare gli studj e il sapere, possa venir sufficiente l'aprire di molte cattedre nuove, e chiamarvi buoni maestri e scrittori. Ma la impresa è in fatto assai più avviluppata e difficile, e ricerca un vasto e completivo sistema di scuole, di accademie, di discipline, in virtù del quale compongasi di mano in mano intorno alle menti de' giovani una specie (a così domandarla) d'atmosfera e d'ambiente, per entro il quale vivendo esse, l'erudizione e la scienza le penetrino da ogni lato, e a poco a poco le nudriscano e invigoriscano, come piante gentili e tenere che da tutti i pori e in tutto l'abito loro esteriore bevono l'aria e la luce. Però [95] voi curerete, o signore, così l'educazione elementarissima ed iniziale, come la più alta e peregrina; e voi farete che il commercio dei libri, le adunanze de' letterati, le biblioteche, i laboratorj, i circoli, le disputazioni, i viaggi e tutti gli altri mezzi privati e pubblici onde s'accresce e agevola il cambio delle cognizioni, sia per ogni guisa promosso e per ogni guisa ajutato. Intorno poi alle accademie, ci piace di farvi avvisato che noi non siamo di quelli che le deridono, ma sì invece riconosciamo nel numero loro tragrande in ogni parte d'Italia una prova patente della vecchia e oltremodo sparsa e diffusa civiltà nostra; onde, quanto è bene di ristorarle, e correggendole e tramutandole condurre l'opera loro ad utili fini, altrettanto ci par biasimevole il lasciarle cadere in disuso, e sorridere con compiacimento e con beffa alla loro ruina.

A voi è notissimo che le scuole iniziali o primarie fruttano assai poco di bene, ed anzi torna impossibile vederle propagarsi e fiorire, semprechè manchino le scuole magistrali, o, come le domandano oggi, normali; e similmente i robusti e virili studj delle università rimangono in gran parte infecondi, qualora gli studj mezzani e preparatori de' licei e de' collegi non sieno condotti a sufficiente perfezione, e non bene si proporzionino col più alto insegnamento.

A rispetto poi delle università, tre cose principali desideriamo, o signore, che vi dimorino innanzi agli occhi. La prima, che se pur si vogliono nel picciolo Stato nostro parecchie università, elle vengano almeno disposte e coordinate fra loro in guisa da recare ciascuna un incremento speciale al comune sapere; il che produrrà da ultimo una profittevole varietà e copia di cognizioni, e il trapassare frequente degli studianti da una città ad un'altra, con mutuo cambio di scienza e di ospitale cortesia. Le circostanze poi e le tradizioni de' luoghi occasionano e determinano la peculiar condizione di studj a quelli più confacente: e, per via di esempio, ella è naturalissima cosa che in Roma riescano più che altrove estesi e compiti gli studj teologici, e vi splendano le cattedre di archeologia e di lingue orientali. Ma in quel cambio, bene sta che in Bologna risorgano a grande lume gli studj del diritto, e ricordino con la loro bontà e perfezione [96] che ivi lessero un giorno Irnerio, Bartolo e Accursio. Il secondo punto di osservazione a noi si mostra esser questo, che la forza cioè e l'anima del pubblico insegnamento risiede sopra tutto nei metodi e nelle discipline; e i metodi desideriamo sciolti d'ogni pedanteria, e con larga e sintetica speculazione trovati; le discipline desideriamo vigorose, giuste, imparziali, immutabili, e che adusino i giovani a molta fatica, al meditare profondo, e alla ginnastica varia ed assidua di tutte le facoltà mentali.

L'ultima cosa che vogliamo vi stia presente allo spirito, si è la libertà dell'insegnamento; la quale facciam voto che si conceda ai popoli nostri così estesa ed intera, quanto può conciliarsi col debito che ànno i governi d'universale tutela, e d'invigilare per tutto e sempre la moralità pubblica e la santità della religione. L'Inghilterra trascende forse in questa materia dal lato della libertà, la Francia dal lato della soggezione; in Germania e nel Belgio si scorgono migliori temperamenti e degni d'imitazione: ma leggendo e cercando nelle antichissime istituzioni delle università italiane, forse si troverà che i moderni poche cose migliori ànno intorno a ciò pensato e messo ad effetto.

Di sì gran momento sono gli studj e sì necessarj alle condizioni attuali d'Italia, che noi non vogliamo tacervi un nostro concetto, il quale ci sembra molto capace di accalorarvi davvantaggio a favore di quelli. Egli è difficile agli Italiani, ricordevoli di loro grandezze non ancor superate da alcuno, egli è difficile, diciamo, il ricuperare tanto animo, quanto fa mestieri a rigenerar sè medesimi, tuttavolta che non istia loro in mente la speranza generosa e il pensiere magnanimo di non solo raggiungere le altre nazioni nel corso della civiltà, ma in qualche parte almeno di oltrepassarle e di primeggiare: e ciò proviene eziandio da questo, che la civiltà conseguíta in fatto dagli altri popoli si vede e si misura quanta è, e molti difetti vi si discoprono; ma la speranza del primeggiare inchiude una grandezza invisibile e immensurabile, e perciò risponde assai bene a quella eccellenza ideale e a quell'infinito di perfezione che solo riempie ed infiamma l'ambizione immensa dello spirito umano. [97] Ora, noi vediamo molto remoti quei tempi in cui l'Italia ridiverrà formidabile ai popoli con gli eserciti e con le armate, ovvero li supererà nei commerci e nelle ricchezze; ma il primato delle scienze e dell'arti nessuno può toglierci se noi fermamente il vorremo, dacchè la natura ci à nell'ingegno e nell'intuizione arcana del bello sovra ogni altra gente privilegiati: e d'altra parte, qual più invidiabile predominio e quale più glorioso e civile di quello che sorge e si cardina nella potenza dell'intelletto?

VII.

Ma un sì vasto e laborioso edificio di leggi e di studj, a costruire il quale vorrete intendere con ogni ardore, avrebbe fondamento di creta e di sabbia, quante volte non l'afforzassero da ogni banda i due sostegni più saldi del franco e sicuro vivere, che sono la libertà di stampa e l'armi cittadine. E poichè piacque all'anima generosa del nostro pontefice di voler munire a sufficienza dell'una e delle altre la incominciata rigenerazione di nostra patria, noi vi preghiamo e sollecitiamo ad usare ogni accorgimento e ogni modo a fine che il buon desiderio del principe non sia impedito e frodato, e possiate voi e i colleghi vostri compire e perfezionare tali due istituzioni; di cui la prima è la mente e la seconda è il braccio del popolo; e con l'una si cerca la piena e spontanea cognizione del vero, con l'altra si vieta a chiunque di contrastarne e turbarne la possibile effettuazione.

Voi vi adopererete, pertanto, ad ottenere che in ogni materia d'interesse civile e politico, e la qual non s'attenga nè al dogma nè a negozj di religione, sia la censura a grado a grado abolita, e solo rimanga il reprimente delle leggi come si pratica appresso i popoli più civili. Chè quando anche, in sulle prime, l'esercizio di tal preziosa facoltà e franchigia non procedesse mai sempre ammodato e prudente (riuscendo molto più arduo il bene usare d'un diritto che il possederlo), ciò non può turbare nè sgomentare salvo che i pusillanimi e gl'inesperti affatto della vita politica: poichè la stampa emancipata e sciolta da ogni censura, emenda col tempo e [98] frena necessariamente sè stessa; avverandosi ogni dì questo, ch'ella tanto scapita nel credito e nell'autorità, quanto falsa il vero e trasmoda; e, per lo contrario, tanto à maggiore e durevole imperio sugli animi e sulle intelligenze, quanto si fa temperata, circospetta e severa. Rimane che noi vi avvertiamo di cosa sopramodo importante; e ciò è ch'eziandio la stampa non censurata diviene timida e serva con l'apparenza di liberissima, ognorachè gli scrittori possano venire tradotti innanzi a giudici male preoccupati e soverchio dipendenti e suggetti al governo. A voi tocca quindi badare con gran diligenza alla specie di tribunale e alla forma di giudicio cui si vorranno sottoporre i giornalisti e gli scrittori d'ogni ragione.

Quanto è poi alle armi, voi primamente dovete levar di mezzo tutti quegli impacci e rompere quelle dimore per cui la istituzione sì bene augurata della Civica procede (sia luogo al vero) lenta, incerta, e in varia e disforme maniera. Voi mostrerete al glorioso Pio, come i municipj nostri sieno tutti apparecchiati a largheggiar nelle spese, con sacrificio ed annegazione, per l'armamento spedito e compiuto de' cittadini; come desiderino caldamente buon numero d'ufficiali istruttori, de' quali se lo Stato patisce difetto, vorrebbero pure che si chiamassero ed invitassero da alcun'altra provincia italiana, e dal Piemonte segnatamente, che n'è in copia fornito: e ciò condurrebbe eziandio questi popoli a stringere nuova colleganza e amicizia coi subalpini fratelli nostri. Voi mostrerete come da tutti i savj delle provincie pontificie s'aspetti bramosamente che gli ordini disciplinari della Guardia cittadina sieno presto compiuti, propalati e condotti all'atto, ed escludasi da essi persino l'ombra e il sospetto della parzialità e del privilegio, vegliando il governo con assiduità e rigore per la esecuzione esatta e durevole delle leggi. Imperocchè, rimossa o rallentata di un poco tal vigilazione e perseveranza, la istituzione della Civica o non gitterà affatto radici, o potrannosi sbarbare e recidere più che facilmente; essendochè in Francia stessa, dove i popoli sono per natura bellicosissimi e così adatti e proclivi alle armi e arrendevoli alla disciplina, mal si sarebbe introdotta e corroborata la [99] milizia cittadina, qualora non l'avesse il governo, con lodevolissima ostinazione e severità, conservata viva, e fatta sempre istruire ed esercitare. In fine, voi mostrerete come potendosi rinnovellare la paura e il rischio dell'invasione, sia per noi tutti bisogno grande di prepararci alle più salde difese con quiete e subordinazione, ma con prontezza altresì e con energia. Per ciò è necessario che dalla Civica stanziale, o (come in Francia la dicono) sedentaria, si cavi la Guardia mobile; la quale, sì per effetto della cerna che la compone, sì per la speciale disciplina che le si appropria, è sola capace di ajutare e spalleggiare utilmente la truppa assoldata. Ma nessuna forma di Guardia civica, nessun ordinamento di bande, nessun artificio di tattica può reggere e prevalere contro un nemico assai poderoso, quando non vi sia esercito, o vi sia troppo scarso e troppo male assettato: e chi non sente tal verità, cade in errore grave e funesto, e di cui troppo tardi dovremmo pentirci. Le cure, adunque, del governo e della Consulta sieno pur volte eziandio inverso le truppe di linea: ne crescano quanto si può il numero; le forniscano di buoni ufficiali, e di numerose e valide artiglierie; le addestrino ed esercitino ad ogni fazione, ad ogni fatica; le scaldino e confermino tuttavia ne' nobili sentimenti di nazionalità e di onore.

VIII.

Deputato delle città Metaurensi! nell'opere e ne' consigli vostri sta ora collocata gran parte di nostra salute, anzi gran parte della salute d'Italia; perchè, a similitudine de' tempi antichi, l'Italia torna maravigliata a girar lo sguardo inverso di Roma; e l'esempio che di là muove e risplende, i volenti attrae e i non volenti trascina. Per ciò, la preghiera ultima che vi addirizziamo, si è di considerare in ogni proposta e in ogni deliberazione non che il bene de' popoli pontificj, ma le relazioni e i legami altresì che aver possono quelle col bene e il risorgimento della patria comune. In questo tempo medesimo che vi parliamo, ci giunge nuova che la lega doganale proposta fra Roma, Firenze e Torino, [100] viene dai principi contraenti accettata e decretata. Noi in tal fatto riconosciamo con giubilo il cominciamento e la caparra d'una Confederazione italica, da cui tutti trarremo, ajutandoci Dio, la forza e la dignità di nazione; trarremo l'alterezza, il coraggio, gli spiriti bellicosi, il gagliardo operare, l'audace intraprendere de' popoli grandi. A voi spetta, con la bontà e opportunità de' consigli, di preparare a tale evento fortunato e desideratissimo tutte le vie e tutte le agevolezze. Con questa intenzione noi vorremmo (per pure indicarvi alcuna particolarità) che ai principi della lega fosse proposta e raccomandata la conformità perfetta della moneta e quella dei pesi e delle misure. Vorremmo che fosser pregati a sbassare di comune accordo la tassa sulle lettere, e a istituire in comune pubbliche mostre annuali di arti e manifatture, cangiando di luogo come per li congressi scientifici si costuma, e premiando i più meritevoli con medaglie e scritte a nome della lega. Vorremmo parimenti, che a nome di lei una bandiera s'inalberasse su tutte le navi pertinenti ai tre Stati e a quelli che accederanno, e la quale correndo su i mari e spiegandosi dentro i porti annunciasse al mondo questo fatto novissimo e quasi insperato: che, cioè, la nazione italiana esiste, e che è in via di raccogliere e ricongiungere pacificamente tutte le membra intorno al sacrosanto suo capo, che è Roma.

Il 25 di novembre del 1847.

[101]

PROGRAMMA DEL GIORNALE LA LEGA ITALIANA CHE PUBBLICAVASI IN GENOVA.

Dal titolo che apponiamo a questo Giornale subito vien conosciuto che il fine peculiare a cui si studia di giungere, e per cui distinguesi da molti altri, egli è di promuovere con mezzi legittimi, e per quanto l'opera d'inchiostro il può fare, una Lega Italiana, che da parziale ed economica quale al presente la vogliono, divenga generale e politica, e le si possa attribuire il nome di santa con molto maggior ragione ed effetto, che a quella tentata (or fa trecent'anni) contro alla prepotenza di Carlo V. Per fermo, l'impresa forse migliore e più elementata di bontà e di religione che valgono gli uomini ad attuare in ordine alla politica, a noi par quella di ajutare gagliardamente un popolo a costituirsi e durare in essere di nazione. Conciossiachè, come in ciascuna città e provincia la comodezza del viver comune si origina principalmente dalla varietà delle industrie, delle attitudini e degli uffici tra i cittadini, così il bene e l'avanzamento dell'uman genere, più che dall'altre cose, risulta dalla varietà dell'indole e dei costumi che tra le nazioni interviene. Ondechè, ogni popolo giunto a potere e saper vivere di vita propria e spontanea, e però ad assumere le forme ingenite e qualitative di mente e di cuore che sortì da natura, accresce a tutta la stirpe umana nuove specie di facoltà operose e fruttifere, e nuove sembianze e virtù di civile perfezionamento. Perciò, chiunque partecipa e suda a produrre e dar compitezza a un fermo e perpetuo stato di nazione, visibilmente obbedisce un decreto de' più solenni e più manifesti di Provvidenza; e per contrario, chi gli si oppone, reo diventa, per così dire, di umanità lesa e tradita, e si affatica di sformare [102] e di rompere l'organo più efficace e maraviglioso dell'universal bene, e che stava in modi specialissimi prepensato e preordinato nell'idea eterna della vita sociale del mondo. Da questo procede, che promovendo noi e ajutando (per quanto i privati il possono) la Lega Italiana, noi effettualmente ajutiamo un'opera santa; essendo che nelle presenti condizioni di nostra patria, niuna cosa può meglio d'una confederazione giovare al fatto finale e massimo della nazionalità. Egli s'intende, nè sembra mestieri il significarlo, che noi desideriamo a un tempo medesimo di crescere e di solidare l'unione degli animi e delle azioni, stantechè ella sia il cemento primo e vero della lega politica, come questa a rincontro non pure dilata, riconferma e riaccresce l'unione, ma la conduce a presto e abbondevolmente fruttificare; e sì dall'una e sì dall'altra dee, come da radici validissime e profondissime, rampollare e fiorire la compiuta e vera italianità, già disposta e iniziata dalla natura, sancita dalla gloria del nome romano, consacrata dalla unicità di religione e di culto, maturata dal tempo e dalle stesse sventure, assentita e predestinata dai cieli, a cui piace di suscitare per la quinta fiata i figliuoli[8] di questa terra veneranda e famosa a compire alcun gran prodigio di civiltà, in profitto e splendore di tutta l'umana repubblica.

Dappoichè la fortuna, o, meglio, la Provvidenza pone in arbitrio d'ogni buon cittadino l'adoperarsi con utilità copiosa e attuale al cominciato risorgimento d'Italia, vogliono la prudenza e il dovere, che, messe in disparte le speranze troppo ambiziose e troppo fantastiche di cui ricreavasi e consolavasi la nostra mente nell'inerzia del servaggio, ora si badi con maggior diligenza alla realtà delle cose, e lasciato il nudo possibile, addirizziamo l'intelletto al certo od al molto probabile. L'Italia è da secoli divisa e rotta in più Stati, ed ha fra essi poca o veruna comunanza di vita politica: per la qual cosa, non potendosi toglier di mezzo le divisioni, e volendo pure che l'Italia sia una quanto è fattibile mai, rimane che noi ci acconciamo a quella forma di unità che sola può coesistere con la pluralità degli Stati: [103] cioè ad una confederazione la più stretta, la più omogenea, e la meglio ordinata che dar si possa. A questa, dunque, intenderemo con tutto l'animo e tutto l'ingegno; e talora con l'autorità della storia, tal'altra col ragionamento, più spesso con le induzioni chiare ed aperte che gli avvenimenti quotidiani suggeriranno per sè medesimi, sforzeremoci di conseguire che il concetto di una Lega Italiana politica divenga nella mente de' popoli segno e simbolo di nazione, e desiderio intenso ed inestinguibile; e in quella dei principi, un'alta necessità di fatto, pericolosa a combattere, profittevole ad accettare.

Duole ed affligge il pensiero che di tal lega debbano per al presente rimanere esclusi i nostri fratelli Lombardi, che sono pur quelli da cui tragghiamo un esempio di lega antichissimo e non superabile di valore e di gloria, e il quale con la pienezza e felicità del successo ne persuade l'utilità d'un nuovo nazionale confederamento. Ma, per l'amore e la fede che l'altre Provincie italiane portano ad essi, ed essi a tutte quelle, e per la speranza che abbiamo comune del compiuto affrancamento d'Italia, riuscirà caro ai Lombardi che pur senza loro noi ci stringiamo e ci colleghiamo, affine principalmente di poterli con men ritardo e maggior sicurezza raccorre e abbracciare al banchetto sacro della conquistata nazionalità.

Di un altro subbietto importante prenderà cura e farà studio particolare ed assiduo il nostro foglio periodico, e questo è l'ammendamento, l'educazione ed il bene stare del popol minuto. Imperocchè, come la lega politica delle Provincie italiane discuopresi, al giudicio nostro, qual mezzo appositissimo, ed anzi di tutti il migliore ed il massimo, che nelle condizioni odierne ci può menare all'indipendenza e al vero essere di nazione; del pari, nell'educazione morale e intellettuale del popol minuto a noi si lascia conoscere il mezzo più attivo e lo strumento più addatto ed usabile per conseguire essa lega, e le altre maggiori felicità e grandezze italiane. E per fermo, nessuna cosa di gran momento viene attuata nel mondo senza l'animo e le braccia del popolo, e unicamente da lui riceverà la nostra carissima patria redenzione [104] certa e finale. E se ciò è vero per ogni dove, in Italia è assai davvantaggio: perchè di là dalle Alpi e dal mare si legge e si trova che la maggior parte degl'istituti e delle glorie nazionali più ragguardevoli riconoscono l'origine loro dai principi, dalla cavalleria e dagli ordini privilegiati; ma in Italia, per lo contrario, autore od iniziatore primo di tutte le nostre glorie fu il popolo. Quindi dovremmo per semplice utilità e cautela politica voltare le cure e i pensieri alla parte sua più valida e più numerosa, che è pure la men fortunata, dove lo spirito del Vangelo e l'umanità dei nostri tempi ad obbligo stretto e incessante non ce lo ascrivessero.

Abbiamo definito in breve quello che di speciale e di proprio intende fare la nostra effemeride. Seguita che diciamo alquante parole intorno alla sua ragion generale.

Nel giorno in cui la saggezza del principe concede ai popoli una franca discussione ed esaminazione degli atti pubblici, il regno della violenza e del cieco arbitrio ha suo termine; ed ogni potere materiale ed irrazionale viene dispossessato e surrogato dalla forza spiritualissima dell'opinione. In quel giorno fortunato, ogni buon cittadino, giusta i limiti di sue facoltà, sente la necessità e il debito insieme di promuovere e addirizzare le credenze, le cogitazioni, i pareri ed i sentimenti della moltitudine, e accostarli a quella sapienza attiva che è l'apice della perfezione civile. A tale ufficio d'illuminare e addirizzare le menti a rispetto della politica e d'ogni condizione assai rilevante del viver comune, noi pure intendiamo di dar l'opera nostra con quante forze ci ha fornito natura; e d'un ufficio siffatto scorgiamo assai chiaramente la somma importanza e solennità, le malagevolezze e i pericoli. Noi sentiam bene, ch'esso è una specie di magistrato, da cui si assume nel nostro secolo gran parte di quella dignità e santità di carattere la qual risiedeva nel tribunale censorio delle antiche repubbliche. Noi, quindi, procacceremo con ogni industria, che se non l'altezza degli studi e la pellegrinità del sapere, la purezza almeno delle intenzioni e lo zelo dell'operare rispondano più che mediocremente al concetto di ciò che debb'essere lo scrittore entrato ad illuminare e condurre i pensamenti e le credenze [105] del popolo. Per lungo disuso, è pressochè venuto meno all'Italia il senso pratico delle faccende politiche, e i figli suoi si ridestano quasi parvoli e adolescenti in mezzo a nazioni adulte e mature: e d'altra parte, il comune nostro decoro, le stupende rammemoranze di età gloriosissime, il viluppo strano de' casi che corrono, la necessità del premunirsi e difendersi richieggono da tutti noi una vigorosa e precoce virilità. Noi con questa considerazione pigliamo speranza che i leggitori del nostro foglio non vorranno di leggieri accusarci nè di presunzione nè d'ignoranza; chè presumere ci bisogna per la salute comune, e saper bene non possiamo ciò che l'esperienza, l'uso e le occasioni sole ne insegnano.

In due modi suole un giornale politico informare e dirigere la mente ed il senso pubblico: prima col farsi o annunziatore pronto e fedele, o raccontatore veridico e giudizioso degli avvenimenti quotidiani; poi, col discutere sottilmente quel che rilevano, indagarne le cagioni riposte, predirne gli effetti remoti, e far tutto ciò col lume e i principii d'un'alta filosofia civile. Noi, dunque, ambedue queste cose ci studieremo di adempiere secondo nostro potere, e con l'aiuto efficace de' nostri amici e rispondenti. Noi cureremo sempre di attinger le nuove alle fonti sincere, e col nostro privato carteggio suppliremo spesso al silenzio e all'insufficienza delle gazzette. Nè le notizie si stringeranno nel cerchio della politica, ma sì farem luogo a quelle altre molte e diverse che importa all'universale di possedere, ed hanno lor parte notabile nella vita comune.

A rispetto, poi, del pesar bene il valore dei fatti, scoprirne le cagioni e le conseguenze, cavarne le massime direttive, e raddurre il tutto agli assiomi della scienza di stato e alle teoriche della civile filosofia, i compilatori avranno mente di conciliare del continuo la pratica colla speculativa; e, per quanto sarà lor dato, eserciterannosi a scorrere con sicurezza e per vie larghe e spedite dalla esamina degli avvenimenti alla contemplazione de' principii; e viceversa, dal concetto delle teoriche astratte ed universali alle applicazioni certe, particolari e feconde. Noi ci farem debito altresì di narrare e scrutare i casi correnti con animo affatto imparziale, [106] e con giudicio non infiammato e preoccupato da passioni di parte e da bollori di fantasia; e però saremo avversi ad ogni ingiustizia, ad ogni eccesso, ad ogni esagerazione così in risguardo de' governi come de' governati: essendo che non s'agogna da noi quel favor popolare il quale è acquistato e meglio diremmo comprato col piaggiare continuo il volgo e le sue passioni, e maneggiando tutto dì le arti tribunizie; ma desideriamo invece di conseguire quell'autorità e quella stima che cresce occulta e lentissima, che dai tristi è combattuta e dagli avventati è mal sofferta ed acconsentita, ma che alla perfine sovrasta alla malvagità degli uni e alle esorbitanze degli altri, e serve come di aroma prezioso a serbare intatto ed incorruttibile un nome di là dal sepolcro. Soprattutto ci asterremo (per parlare alla moderna) dalle personalità; nè mai la indignazione nostra si verserà sull'uomo, ma bensì sull'azione in astratto considerata, e a riscontro d'alcun documento morale o politico. La qual moderanza e giustizia a noi riuscirà non molto difficile, dacchè le azioni malvage e gli affetti bassi e torbidi sempre ci hanno svegliato più compassione che sdegno; e quanto le sorti universe del genere umano e l'attuazione de' sommi principii e la loro abbondevole fruttificazione ci sembrano cosa grande e degnissima d'ogni onorata fatica, altrettanto gli individui ci appajono leggier cosa, e non quasi mai meritevoli dell'odio del saggio. Per le ragioni medesime, e guardando sempre ad effettuare l'utile pubblico e giudicare imparzialmente uomini e cose, noi ci pregieremo di dare leale ajuto e libera lode al governo, ognora che gli piacerà di accrescere e di caldeggiare il sentimento nazionale, e proseguire animoso nelle riforme. Ma non dubiteremo del pari di contraddirgli legalmente qualora se ne dilungasse o in tutto od in parte: e quando (il che per lo certo non accadrà) l'opposizione nostra sincera e dignitosa diventasse impossibile; esauriti innanzi, fino ai termini ultimi delle leggi, tutti i rimedii, gli spedienti e i partiti che lo zelo di buon cittadino sa rinvenire, il periodico nostro cesserebbe di uscire in luce. Così noi speriamo di concordare la moderazione e il vigore, la legalità e il coraggio. [107] E perchè di questa parola moderazione vien frequentissimo l'uso, ma la significazione sua scorre varia e indefinita per gl'intelletti; a noi giova di dichiarare, che domandiamo improvide e immoderate tutte quelle opinioni le quali, impazienti di rimanere in essere di concetto e di desiderio, discendendo dall'ideale al reale, oltrepassano e turbano ciò che nell'atto presente si fa praticabile, e però è duraturo e fecondo del meglio. Similmente, noi domandiamo improvide e immoderate quelle imprese e quei fatti che conducono a travalicare i termini della legalità; la quale benchè negli Stati della Lega sia peranche molto imperfetta, pur tuttavia non nasconde e non confonde siffattamente i suoi limiti, da lasciare incerto e pauroso l'uomo dabbene e il leal cittadino. In un popolo vissuto per qualche secolo sotto la forza e l'autorità dittatoria, sdegnoso sempre del servire, ma sempre ignaro de' proprii diritti e doveri, niun sentimento è più malagevole a insinuare e insieme più necessario del rispetto e quasi diremmo del culto sacro inverso la legge: al qual culto (abbia luogo la verità) appena cominciano ad avvezzarsi i suoi sacerdoti medesimi. E perciò, noi raccomanderemo continuo così al popolo come ai principi, così ai magistrati come alla plebe, la piena e ottemperante venerazione alla legge, che è il Dio dello Stato.

Egli non è possibile ad una nazione la qual, risorgendo, à consapevolezza e fede e ardimento d'incominciare un'epoca nuova, fidarsi unicamente nella virtù degli instinti, e moversi e operare secondo che danno i tempi ed i casi. Ma le occorre bensì di conoscere con sufficiente chiarezza ove s'inoltra e ove tende, e quello che più le conviene desiderare ed ambire; nè può negarsi, che tanto procederà men dubiosa nel suo cammino ancora intentato, quanto meglio i suoi savj le porranno distinto e ben divisato in sugli occhi il disegno intero dei grandi e varj edifizj di civiltà e di scienza che dee lunghesso la via costruire, e su vaste e incrollabili fondamenta innalzare. E noi pure porgerem mano a lineare e colorire (quanto cel concederà l'intelletto) quell'arduo disegno; e ciò adempiremo col ricercare dapprima le condizioni odierne d'Italia e alle passate paragonarle; [108] poi coll'investigare quello che prossimamente debbono riuscire: nè tali due specie d'indagini imprenderemo senza aver risguardo continuo alla storia delle altre nazioni, all'essere e fortuna loro presente, alle attinenze che ha l'Italia con esse; e in più special modo, all'influsso ed ingerimento morale ch'ella sta forse per ripigliare su tutto quanto il mondo cristiano e civile col nuovo risvegliamento suo; ed infine, al concetto speculativo che i filosofi politici vannosi componendo di tutto insieme il progredimento sociale e la vita dell'umanità.

Di cotal vita è sì gran porzione oggigiorno l'economia pubblica, sì poderose diventano le nazioni per attività di traffichi e ampiezza di commerci; tanto gl'ingegni si assottigliano e si travagliano a raffinare le arti e moltiplicare le macchine; tante questioni nuove di scienza da ciò scaturiscono, massime intorno al sostentamento dell'infimo popolo e all'equa distribuzione delle ricchezze; che a noi non si fa lecito di pretermettere alcuna di queste materie, o di sol toccarle di passata e per incidente: e però noi deliberiamo di porle sovente ad oggetto particolare delle meditazioni e disamine nostre, e raccogliere con accuratezza minuta i fatti e le notizie ad esse attinenti.

Degli eserciti e delle marinerie italiane parleremo tanto più spesso e più volentieri, quanto il nostro giornale compare nella provincia meglio agguerrita della Penisola, e in una città che tien viva memoria dell'avere spiegato una bandiera famosa e temuta su tutti i mari.

Faremo eziandio occupazione nostra frequente gli studj e i metodi insegnativi; e delle lettere e delle arti geniali terremo discorso ognora che le faccende politiche ne lasceranno spazio e opportunità. Alle genti italiane, ricordevoli di loro grandezze non ancora eccedute da alcuno, è forse difficile il ricuperare tanto animo ed alacrità e si ferma perduranza in ogni proposito, quanto ne fa mestieri a rigenerare tutto l'essere proprio morale, qualora non sorga loro in mente la speranza generosa e il concetto magnanimo di non solo raggiungere le nazioni più progredite nel corso della civiltà, ma in qualche parte almeno di oltrepassarle e di primeggiare. E [109] ciò proviene eziandio da questo, che la civiltà conseguíta in effetto dagli altri popoli si scorge e si misura quanta è, e molti e gravi errori vi si discuoprono: ma la speranza del primeggiare inchiude una grandezza invisibile e immensurabile, e perciò risponde assai bene a quella eccellenza ideale e a quell'infinito di perfezione, che solo riempie ed infiamma l'attività e l'ambizione innata e sublime dello spirito umano. Ora, per nostro giudicio, sono peranche molto remoti da noi que' tempi in cui l'Italia ridiverrà formidabile ad ogni popolo con gli eserciti e colle armate, ovvero li supererà nei commerci, nelle manifatture e nelle ricchezze. Ma il primato della sapienza civile, e l'imperio altresì delle lettere e delle arti geniali, nessuno può toglierci se noi fermamente il vorremo; dacchè la natura ci à nelle virtù della mente e nell'arcana intuizione del bello sopra ogni nazione privilegiati. In trattenerci, adunque, con grande amore a discorrere così degli studj pubblici come d'ogni incremento e progresso di qual sia parte dello scibile, noi farem opera singolarmente di buoni cittadini, e d'avveduti e prudenti statisti; e in ciò pure avremo animo di avviare gl'ingegni all'amore e al culto delle memorie patrie e delle dottrine italiane, e al saper rappiccare il filo delle tradizioni nostre letterarie ed estetiche, e ad imprimere in ogni fattura della mente i segni e le impronte dell'indole nazionale. Per ultima cosa, noi promettiamo a tutti coloro che volgerannosi al nostro giornale sì con gli occhi e sì col buon animo, che niuna fatica, niuno studio, niuna diligenza, niuna parte di zelo sarà da noi trascurata per sollevar quello all'altezza e alla dignità de' nuovi tempi e dell'Italiana rigenerazione: la quale, dopo tante sventure e tantissime lacrime, standoci alla perfine presente, e non ricercando per divenire compiuta e fruttifera se non l'operosità incessante e l'annegazione sincera e serena dei buoni, chi si fermasse tra via, ovvero nell'impresa magnanima tramischiasse affetti privati, proverebbe di essere stato per innanzi non più che un ipocrita di libertà, e tanto spregio e abbominio si mercherebbe, quanto, concedendolo Iddio, il nome d'Italiano verrà racquistando d'autorità, di venerazione e di gloria.

Genova, il 5 di gennajo del 1848.

[110]

FATTI DI MILANO NEL GENNAJO 1848.

15 gennajo 1848.

Abbiamo da testimonio oculare e degno di tutta fede una narrazione esatta e minuta dei deplorevoli casi succeduti in Milano dal 2 al 5 del mese andante. A noi par bene di farla conoscere intera, perchè in quegli avvenimenti ogni cosa è stata grave e afflittiva, e l'Italia debbe sdegnarsene e condolersene profondamente.

Nella mattina del 2, per effetto del divieto che il popolo milanese ha posto a sè stesso, non incontravasi per le vie persona che fumasse tabacco. Ma sulle undici ore uscirono fumando i commissarii di polizia, parte travestiti e parte in divisa, e seguitati da poliziotti. La plebe traea lor dietro in frotta ma silenziosa, e i commissarii voltandosi a quella e parlandole in isconci modi, troppo bene la provocavano, dicendo, in fra le altre cose: vedete che noi fumiamo, e a nessuno di voi dà l'animo d'impedirlo. A questo il popolo rispondeva con mormorii e con suono di fischiate. Allora i commissarii ed i poliziotti agguantavano parecchi che li seguivano più d'accosto, menandoli in luogo d'arresto. Ma ciò non disperdendo la folla, ed anzi ingrossandola, quelli incominciarono a malmenare ed anche a percuotere; e verso le quattro dipoi meriggie, come moltiplicavano le pattuglie de' poliziotti, così crebbero ancora i maltrattamenti; a segno che i capi del Municipio e parecchi cittadini de' più notabili turbandosene ed affliggendosene, lasciate le case loro, s'introdussero alla spicciolata in mezzo alla moltitudine, affine d'interporsi autorevolmente fra essa e le pattuglie.

Adempiendosi cotale ufficio pietoso e lodevolissimo dallo stesso Podestà di Milano conte Casati, ei venne violentemente percosso in viso e quindi arrestato. Poco dopo, essendo molte persone civili adunate in contrada Santa Margherita contigua al maggior teatro, i gendarmi a cavallo fieramente le caricavano; e perchè quelle s'erano ricoverate di là da' quei pilastrini che reggono le catene intorno al detto teatro, furono pure colà investite dai cacciatori tirolesi, schierati dietro i cavalli [111] dei gendarmi. Fra questo tempo, il conte Casati già riconosciuto e sciolto e presto raggiunto dai suoi colleghi, lagnavasi con giustissima indignazione degli strapazzi sofferti da lui e dal popolo; e ricevendo dal Torresani, direttore di polizia, parole vane e mendicate di scusa, si recò dal conte di Spaur, governatore generale di Lombardia. Questi mostratosi dolentissimo dell'accaduto, negava risolutamente di averci parte, e sosteneva che quelle cose non erano di sua pertinenza e non ci poteva quasi nulla.

Così compievasi la giornata del 2. Il dì dopo era nella gente civile molta sollecitudine di conoscere le risposte de' superiori, ma il popolo minuto mantenevasi in quiete.

Quando, alle tre dipoi meriggie, la polizia fece appiccare su tutti i canti un avviso, che cominciava con queste false e calunniose parole: — «Gente irrequieta e facinorosa...... osava jeri d'ingiuriare in pubblico tranquilli abitanti per impedir loro l'uso innocente del fumare tabacco, e ardiva di farlo anche attruppandosi, e violentando i passaggeri colti a fumare.» — Alcuno di tali avvisi fu spiccato o lacerato forse per ira, ed altri il furono con poca o nessuna malizia da que' monelli che, in Milano singolarmente, usano di ciò fare su tutti i muri e d'ogni maniera di stampe. E qui non è da tacere d'un grave accidente; e ciò è, che un agente di polizia, colto un ragazzo nell'atto di squarciare l'avviso, lasciossi andare alla ferocia di percuoterlo con uno stile: il qual fatto affermano e testimoniano cittadini onorevolissimi, che di presente ne hanno scritta una giuridica deposizione.

In quel tempo medesimo, uscivano dal Castello pattuglie di dragoni a cavallo, comandate da soli sotto-uffiziali: e da esso Castello e dalle caserme uscivano a torme ed alla rinfusa da circa tremila soldati, ben caldi dal vino e con in bocca i sigari accesi. A costoro erano stati pagati, qualche ora innanzi, denari di soldo per otto dì, e regalati parecchi sigari e offerto vino e acquavite. L'ordine del giorno esentavali dalla chiama, e gli invitava a difendere e conservare la dignità della milizia contro a pochi perturbatori i quali pretendevano di por divieto al fumare. Mossero sbandati per le più popolose strade, e spargendosi nei caffè e nelle bettole, incitavano ogni sorta [112] di gente con lazzi, contumelie e mal viso. Sulle prime, la plebe guardando e udendo quegli sbrigliati, maravigliava; poi, tratta da curiosità più che da altra passione, si mise lor dietro. Ma irritata di mano in mano da quelle ingiurie e soprusi che vedea fare, cominciò a mormorare e a gittar fischi come il dì innanzi. Ed ecco le pattuglie si avventano a caricare, gli agenti di polizia e i soldati sciolti snudano le sciable e menano colpi alla cieca. Non è duello nè zuffa, ma è rabbia e furia bestiale contro ad inermi e non resistenti. Qual tumulto ne seguisse, quali strida ferissero l'aria, di che dolore e squallore si riempisse di subito la città, non mi proverò a raccontare. Dai rapporti più esatti degli spedali risulta, che v'ebbe dieci morti, e che i feriti sommavano molte dozzine. Tra primi è il consiglier d'appello Carlo Manganini, il quale, percosso in capo da due fendenti, spirò sugli scalini della Galleria De Cristoforis. Era uomo sessagenario e quietissimo. Alcuni manovali del carrozziere Giuseppe Sala, uscendo dalla officina per girsi a coricare e scontrandosi in una di quelle furiose pattuglie, furono strapazzati e pesti in maniera, che tre sono morti. Il cuoco stesso del conte di Fiquelmont, in sull'entrare che faceva da un salumajo a fornire sue spese, venne assalito ed ucciso. In tal modo macellavansi i cittadini; ed in quel mentre stesso, il polacco maresciallo Radetski gozzovigliava insieme col generale Scenatz e certo Vociacoschi, polacco esso pure; e tutti e tre insieme ad ogni vittima nuova che lor s'annunziava, mescevano e tracannavano. Nè la notte pose termine pienamente a quella soldatesca licenza, tanto che nelle vie più remote sull'ora tardissima scorrevano ancora que' mascalzoni, così avvinazzati e rabbiosi com'erano, minacciando e imprecando; e guai se taluno s'imbatteva per caso in essi.

Nei dì 4 e 5 si rinnovarono alcune violenze, e fu tra gli altri ferito un famiglio di casa Litta. In que' giorni similmente scoppiò profonda ed universale la indignazione, non che de' giovani e de' più risentiti, ma di qualunque persona paziente, rassegnata e sommessa. È curioso a sapersi, che il Fiquelmont, come lo Spaur, lavasi le mani di tutti quei fatti, e va dichiarando di non avere facoltà e commissione [113] bastevole per li casi urgenti e straordinarii. Il 5, una deputazione composta d'uomini i più ragguardevoli, fra' quali l'arcivescovo di Milano, il conte Borromeo, il conte Giorgio Giulini e taluni altri, presentaronsi al Vicerè, il quale accolseli secondo l'usanza con aria molto benigna; promise di fare e di dire, e ciò pure secondo l'usanza; e congedandoli, ripetè loro la canzone medesima dello Spaur e del Fiquelmont, cioè a dire che non possedeva facoltà sufficienti: la qual cosa mena a concludere, che i Milanesi in que' tristissimi giorni non avevano chi li potesse salvare, e tutti li potevano invece ammazzare.

In quella sera medesima fu pubblicato dal Vicerè un suo proclama, unto d'un po' di miele e promettitore di riforme: ma non pertanto, nella notte à, con grande apparecchio di truppa, fatto chiudere il Club ove radunavansi i giovani a legger gazzette, e a discorrere di Pio IX e della Lega Italiana.

Troncando gran numero di osservazioni che subito corrono in mente a chi legge e considera parte per parte la qui data narrazione, noi ci stringeremo a notare, che nel popolo milanese mai non è sorta la volontà di uscire dai termini della legge, e che il mormorare e fischiar della plebe furono picciol effetto della molta provocazione.

Secondamente avvertiamo, che il sentirsi la moltitudine chiamare dal Torresani gente irrequieta e facinorosa, dovè inacerbirla oltremodo, e che lo strappare su pei canti alcuna copia dell'Avviso fu parimente picciolissimo effetto allato alla grave ingiuria: ed in ogni modo, doveansi punire di ciò i pochi operatori del fatto, e non altri.

Di quindi procede che la illegalità ricade tutta quanta sulla Polizia, e su coloro che hanno sguinzagliata la truppa e menatala a infierire contro un popolo inerme, e il quale negli atti medesimi di resistenza che volea compiere, tenevasi ordinato e pacifico.

Da ultimo, ci giova molto di sapere, che tutti i particolari di quelle violenze e ferocie non iscusate da veruna necessità, accesero tanto sdegno e corruccio, che gli animi più rimessi e per condizione più dipendenti hanno posta da lato [114] la longanimità e la pazienza, e sonosi ricordati soltanto d'essere uomini e cittadini.

A noi giunge notizia certissima, che non pochi impiegati italiani, e fra questi il consigliere di governo Decio, uomo mitissimo e fedelissimo, dopo avere tentato senza alcun frutto di conseguire soddisfazione e riparo di quegli eccessi, hanno pregato che si accettasse la loro rinunzia. Il signor Bellati, Prefetto di Milano, il quale quindici giorni or sono ricusando di sottoscrivere la protesta della Congregazione comunitativa cadeva in tristo concetto appresso del popolo, convocata di poi la Deputazione provinciale, chiedea piangendo e scusa e indulgenza; e ad alta voce leggeva a quella un rapporto, in cui, rappresentata la indegnità ed enormità degli ultimi fatti, concludeva dicendo: «e devesi maggiormente prestare orecchio e credenza al rapporto d'un impiegato il quale, sol per servire con zelo il governo di S. M. I., s'è quasichè attirata addosso la esecrazione de' suoi patrioti.»

Infine, dal racconto qui sovrapposto si scorge, che alcuni ingegni perversi vorrebbero sperimentare nel regno Lombardo-Veneto un modo di reprimento diverso nella specie ma simile nella ferocia a quello usato, sono appena due anni, in Galizia. Ma i Lombardi, come si vede, nè cospirano nè si atterriscono. Nel paese loro non v'ha servi di gleba, non v'ha classi nè ordini che si nimicano; e la prepotenza e bestialità soldatesca, qualora volesse farsi durevole e abituale, affogherebbe nel proprio sangue, non nell'altrui.

(Dalla Lega Italiana.)

DELL'ORDINAMENTO NUOVO DE' MUNICIPJ.

15 gennajo 1848.

Tutti tre i principi nostri riformatori ànno avanti ogni cosa pensato a riordinare i Comuni: nel che si vennero mostrando e avveduti e provvidissimi. Il primo, perchè quelle riforme sono accettate più volentieri, le quali toccano gl'interessi [115] prossimi e cotidiani del maggior numero; il secondo, perchè incominciare dal porre sesto e regola al tutto, innanzi di aver bene e fermamente composte le parti, tanto varrebbe per avventura quanto il costruire e l'architettare non badando per niente alla forma e acconcezza de' materiali. Nello Stato della Chiesa il Municipio nuovo romano è già in atto e in autorità: così volle Pio IX, del quale veramente diranno i posteri, che romanam restituit rem. Fino poi dall'aprile dell'anno poc'anzi cessato, una circolare del Cardinal Gizzi raccomandava in ispecial modo alla cura e meditazione dei deputati delle provincie l'ordinamento dei Municipj. In Toscana, alli 25 di questo vertente mese, vedremo adunata una Conferenza di sindaci e altre persone notabili affine di raccogliere i fatti, udire le informazioni, conoscere i desiderj de' popoli, e determinare le massime direttive della costituzione municipale che là si prepara. Negli Stati Sardi, quello che in sul cominciare di novembre fu promesso dal re in ordine a tal subbietto, vedesi ora mantenuto con la promulgazione del Regio editto per l'amministrazione dei comuni e delle provincie.

Noi di questo Editto parleremo tra breve, con la ponderazione e maturità di giudicio che si conviene in tali argomenti. Oggi basterà l'accennare i punti cardinali che porgono il primo criterio e le prime norme per esaminar bene così il fatto come il da farsi; e ciò non solo in Piemonte e in Liguria, ma eziandio negli altri Stati della Penisola. Conciossiachè sarà intento particolare di questo giornale il discorrere con egual cura, e (secondo sue forze) con egual cognizione, di tutte insieme le Provincie italiane e di quelle della Lega segnatamente.

Ottima cosa è certo da reputarsi, che tutti tre i principi riformatori partecipino a questo concetto speciale intorno alle istituzioni comunitative; e ciò è, ch'elle debbono venir fondate con ordini elettivi larghissimi, e coi principj assoluti dell'uguaglianza civile. Nè per rispetto alla larghezza elettiva potrebbesi forse desiderare o più o meglio di quello che si prescrive nell'Editto di re Carlo Alberto. Ma non deesi porre in dimenticanza, che tale franchigia può divenire angusta e [116] povera negli effetti, qualora da un lato il numero de' consiglieri comunitativi sia grande e quello degli elettori grandissimo, e dall'altro sieno circoscritte e inceppate le facoltà e pertinenze di essi consiglieri. Onde gli è da considerare, per la libertà dei Comuni e insieme la spontaneità e il frutto delle opere loro, qual cosa nel fatto e nell'uso torni migliore: se il numero degli elettori larghissimo e più legate le facoltà, ovvero più ristretto quel numero e maggiore la facoltà e scioltezza dell'operare. Per fermo, non si dà franchigia municipale vera e fruttifera laddove non si componga di queste tre parti essenziali; che sono: elezione popolare; giudicio e scrutinio libero d'ogni interesse speciale e proprio del Municipio; azione libera del suo magistrato.

Sotto queste considerazioni, a noi sembra che non tutto sia buono e non tutto largo e lodevole nel Motuproprio del Santo Padre e nell'Editto di sua Maestà Sarda; e fermamente crediamo, che molte disposizioni di tale Editto oltrepassino quel bisogno di unità, di uniformità e di connessione col Principato, che la legge ha avuto in mente di soddisfare.

Se non che tra l'Editto ed il Motu-proprio interviene una differenza fondamentale; essendo che il primo ha virtù generale, perpetua ed irrevocabile; quando l'altro non dà fondamento e principio salvochè a un istituto particolare, qual è il municipio della sola città di Roma: e oltre a ciò, esso dichiara più d'una volta, che le disposizioni sue dovranno concordarsi tutte con l'universal legge riformatrice dei Comuni, alla quale s'affrettano di por mano i deputati alla Consulta di stato. Ei si può dire pertanto, che su tal subbietto nulla è per anco determinato nella media Italia, e la cosa pende tutt'ora dal senno de' principi e de' lor consultori. Il perchè, prevenendo le nostre parole in que' paesi ogni atto deliberativo, e però potendone ancora uscire un qualche lume e profitto immediato, a noi cresce l'obbligo di non tener chiusa la nostra opinione, e di significarla invece con lealtà e franchezza.

Notiamo per prima cosa, che nel Regio Editto, ma più molto nel Motuproprio di Pio IX, le facoltà e pertinenze del Municipio stanno dinumerate e specificate una per una e con [117] gran minutezza: il che non accade quivi per abbondanza di dire e a schiarimento ed esempio delle pratiche del diritto comunitativo, ma si è fatto al fine di circoscrivere con rigore e definire con esattezza il potere che vien largito dal Principe a forma di privilegio; e però le cose che son taciute non possono in guisa veruna venir sottointese in virtù di una qualche generale franchigia in altre parti del decreto espressa e riconosciuta: onde ripetiamo, che in ciò il Motuproprio romano vince in istrettezza l'Editto Regio, dacchè in questo oltre al cominciare il legislatore dal riconoscere in universale la libertà dei Comuni, esprime nell'articolo VIII del capo VII, che il Consiglio Municipale fa gli atti devoluti alla popolazione in massa, ed in generale delibera su tutti gli oggetti di amministrazione locale che, eccedendo la semplice esecuzione, non sono attribuiti al Sindaco; nelle quali parole, e segnatamente nella clausola prima pare sottinteso il principio, che ogni qualunque atto possibile a farsi in comune dal popolo cade sotto la deliberazione dei Consigli Municipali.

Ora, secondo noi, risiede nel Comune, a rispetto dello Stato, una libertà naturale d'azione e di reggimento, appunto come nell'individuo a rispetto del Comune. Di quindi procede che le franchigie non gli son date dalla legge, ma sì dalla legge sonogli assegnate le giuste limitazioni di quelle. E però, in genere, la legge non dee (come sotto i governi feudali e dispotici) venir numerando le speciali e singolari facoltà del Comune e prescrivergli ciò che può, ma ciò che non può e non dee. Noi sentiam bene, che poco importerebbero tali rassegne e specificazioni ove s'accompagnassero con formole generali di chiaro ed ampio significato, e in cui lucesse una confessione piena e patente del dritto. Noi sentiamo altresì, che parlare in nome dei principj universali del giure non è stile e consuetudine de' Motuproprj e delle Carte e Statuti alla foggia antica. Ma i tempi ricercano altro linguaggio, e non son queste del sicuro disputazioni di grammatica.

Da siffatto principio della libertà naturale d'azione e di reggimento in che vive ogni Comune a rispetto dello Stato, emerge tutta quanta la idea dell'ordinamento comunitativo [118] e delle sue piene franchigie. Per fermo, se il legislatore accoglie nell'animo quel principio, ei non può non volere costituire il Comune con quanta maggiore larghezza di facoltà e d'esercizio è fattibile; appunto com'egli adopera nel dettare le leggi e le guarentigie della libertà privata di ciascun individuo, ai quali mai non oserebbesi di prescrivere le specie, le condizioni e i modi dell'uso ed eziandio dell'abuso delle proprie loro sostanze. Col principio anzidetto, il legislatore dee confessare, che il limite alle libertà naturali dei Municipj è segnato non dalle restrizioni governative e ministrative arbitrarie, non dal desiderio di certa unità fattizia e più militare assai che civile, non dalle vecchie pragmatiche che, or sotto nome di tutela, or sotto quello di vigilanza e di buon governo, nojosamente comprimono e impacciano, ma bensì dalle necessità universali, e dall'ingerimento legittimo e razionale della potestà legislativa operante a nome della utilità vera e durevole di tutto lo Stato.

Col principio anzidetto, si debbono volere disciolte d'ogni legame non necessario all'ordine e alla salute comune le deliberazioni dei Consigli municipali e l'azione dei lor magistrati. E poichè al governo è ragionevolmente serbato d'interporre l'autorità sua tuttavolta che il municipio o travia dalle forme prestabilite di sua istituzione, o rompe alcuna legge od alcun mandamento legittimo dello Stato, in qualunque altro caso non dee far mestieri l'assentimento dei supremi ufficiali, siccome atto con piena ragione presunto e che vuolsi avere per compiuto. Molto meno poi fa d'uopo l'assistenza e presenza de' supremi uffiziali alle discussioni ed alli scrutinj comunitativi; molto meno il richieder licenza per le ordinarie o straordinarie convocazioni de' Consigli: e il simigliante si discorra per altri vincoli e suggezioni. Nè qui ci è lecito di tacere, che sì in risguardo della libertà di congregarsi, deliberare ed eseguire, sì per la libertà e speditezza d'azione de' magistrati municipali, sì infine per la indipendenza e dignità di loro persone, l'Editto piemontese torna senza misura più restrittivo del Motuproprio Romano, nel quale si legge, in fra le altre risoluzioni, che l'approvazione superiore delle deliberazioni consigliari avrà sempre luogo, tranne il caso [119] della mancanza di forme, dell'eccesso di potere e di contravvenzioni alle leggi. (Titolo 1. § 27.)

E quanto è alla dignità e indipendenza del Magistrato, non v'ha nel Motuproprio Romano neppur vestigio delle prescrizioni del Regio Editto che qui registriamo: Capo II. § 6. Il Sindaco è capo dell'amministrazione comunale ed agente del governo. § 9. Il Sindaco è nominato da noi e scelto fra i consiglieri comunali... Rimane in carica tre anni e può essere da noi confermato. § 10. L'Intendente generale può sospendere i Sindaci. Capo III. § 16. I Vice-sindaci sono nominati per un anno, sulla proposta del Sindaco, dall'Intendente generale, cui spetta di sospenderli e rivocarli.

Non ci è ignoto che la molta suggezione dei magistrati municipali, il fluttuare de' sindaci tra il carattere cittadino e il politico, l'intervenire continuo de' superiori negli atti comunitativi, e la necessità del consenso e della revisione imposta a pressochè ogni spesa ed ogni deliberazione, non qui solamente fra noi ma durano e si perpetuano di là dall'Alpi, appresso di una nazione la quale presume essere specchiatissimo esempio di libertà. Queste cose sappiamo da lungo tempo. Ma duole e pesa all'anima nostra, che volendosi pure imitare i popoli forestieri, non sempre si scelga il lor meglio, ma talvolta eziandio il peggiore e il più strano. Oltrechè, le istituzioni de' popoli molto civili sono una vasta e variatissima architettura, ove la deformità d'alcun membro quasi scompare nella bella simmetria e acconcezza del tutto insieme. Altrove la poca libertà dei Comuni è supplita dalla moltissima dello Stato; ma dove questa scarseggia, par necessario compensarla col dilatare e mallevare la vita franca e spontanea del Municipio.

(Dalla Lega Italiana.)

DISPACCI FRANCESI SULLE COSE ITALIANE.

Il Débats delli 7 ci fa conoscere il testo di alcuni dispacci intorno alle cose d'Italia mandati dal Guizot agli ambasciatori [120] e ministri, ed ora comunicati alla Camera. Sono tre lettere al conte Rossi in Roma, una al conte Marescalchi in Vienna ed un'altra al conte di La Rochefoucauld in Firenze; la sesta è in forma di circolare, e l'ultima è indirizzata al signore di Bourgoing in Torino.

Chiunque si ponga a leggere cotesti dispacci, dee notare a bella prima, quanto nei nostri tempi vada mutando il linguaggio dei diplomatici, ovvero quanta diversa natura d'uomini sia quella che amministra oggi i gran fatti politici. Per fermo, in essi dispacci v'ha un lusso di generalità accademiche e un dissertare così vivo e abbondevole, che la Sorbona li accetterebbe affatto per suoi. Il secolo, adunque, è gentile se non vigoroso; gli uomini forse non grandi, ma pieni di facondia e filosofia.

Noi confessiamo assai volentieri, che in tutte sette le lettere del Guizot scorgesi aperto il buon desiderio del governo francese pel risorgimento italiano. E di tal sentimento non può dubitare alcuno il quale conosca la fine e classica civiltà della Francia, e pensi che non v'è quasi villaggio colà ove non si spieghi Virgilio ed Orazio, e non si stupisca dinnanzi alle tele o copiate od originali di Raffaele e di Michelangelo. Del pari risulta da quelle lettere, che il Guizot vive sempre in grave apprensione di veder trionfare i troppo infiammati, e sembra stimare gl'Italiani non capaci ancora di più larghe concessioni e più sostanziali riforme. Ma d'altra parte, com'egli ammira sinceramente la saggezza insperata del popol romano, nè stenta ad applicare simili elogi agli altri popoli della Penisola già ridestati, a noi pare che se ne debba dedurre ch'essi sarebbero sufficienti a molto maggior grado di libertà.

Sulle cose di Ferrara, spiace particolarmente al Guizot che il governo Pontificio abbia posta la controversia in piazza. Ciò naturalmente sa male a un diplomatico consumato, e gli sembra quasi una propalazione indebita dei misteri e della scienza esoterica. Ma se i Tedeschi invadessero un palmo solo del territorio francese, io sfido il ministro Guizot a mantener quivi il secreto, la riservatezza, e la gravità dei capitolati e dei protocolli. La lettera al Marescalchi, che appunto [121] s'aggira sul brutto frangente di Ferrara, è da un capo all'altro tutta mite in verso dell'Austria, tutta lusinghevole e piena d'unzione; e non v'ha neppure una fiammolina di sdegno, una favilla di giusto risentimento. Certo, se il Papa non colpiva di religiosa paura il capo medesimo dell'Impero, ognun può pensare quale difesa efficace e gagliarda sarebbe uscita dalla dolce e tenera ammonizione del Guizot. Pur troppo, i casi della Galizia ci fanno presumere che a Vienna le orecchie non sono così delicate, e il cuore non così cereo come stima l'insigne autore della Storia dell'incivilimento.

Vero è che nella lettera al La Rochefoucauld il ministro Guizot accenna, così di passata, come il Papa abbia fatto richiedergli se in certe date congiunture potesse fare assegnamento su d'una più attiva cooperazione della Francia, e com'egli il Guizot crede d'avergli risposto in modo da contentarlo. Ma qui il velo diplomatico diventa sì fitto ed oscuro, da simigliare a quello che già copriva la statua d'Iside, e non è più la intelligenza ma il cuore che giudica, e gli si comanda un umile atto di fede.

V'ha però in queste lettere diplomatiche due proposizioni non pure verissime, ma da stare ferme e inchiodate in mente degli Italiani. L'una è nel dispaccio al signore di Bourgoing in Torino, e consiste in dire che gl'Italiani s'ingannerebbero forte sperando la lor salute da un rovescio di cose in Europa. L'altra è nella terza lettera al conte Rossi, e la quale afferma che non bene opererebbono i principi nostri a troppo tardare le riforme e le concessioni le quali fossero divenute un'alta necessità di fatto. «In quella protratta aspettazione, dice il Guizot, gli animi traviano per la foga pericolosa delle speranze e dei timori soverchio aggranditi; e quindi colui che regge sembra cedere, suo malgrado, all'urto popolare, dove in fatto egli obbedisce soltanto alle persuasioni di sua coscienza. Il signor conte Rossi ha più d'una volta ciò espresso con debita moderanza ai consiglieri del Santo Padre, ed al Santo Padre esso stesso.»

Noi ringraziamo del dato consiglio e l'ambasciatore e il ministro, al quale parimente dobbiamo e vogliamo esser [122] tenuti della propensione (quantunque un po' peritosa e non assai procacciante) che mostra al bene d'Italia. Noi non ci poniamo tra quelli che da' forestieri pretendono molto di più e molto di meglio, perchè sempre abbiamo opinato che niuna nazione si salvi mediante l'altrui braccio: ed esigere che le genti straniere vuotino per lo scampo nostro le loro vene ed i loro scrigni, o mettano a repentaglio la pace che godono e i negozj e le comodezze in cui vivono, ci compare, non sappiam bene, se una sfrontatezza o una melensaggine: il rimproverarle, poi, fieramente ed anzi svillaneggiarle perciò di continuo, come piace a molti, ci sembra che senta del fanciullesco insieme e del vile.

(Dalla Lega Italiana.)

DELLO STATO PRESENTE D'ITALIA.

19 gennajo 1848.

Vogliono i pensatori moderni, che la fortuna non abbia nè molta nè poca parte nelle faccende umane. Io non so bene di questo, ma so che qualora ne piacesse di battezzar con quel nome le cagioni occulte ed ignote de' gran casi che avvengono, la fortuna comparirebbe ancora spessissimo nella storia de' nostri tempi. E per fermo, chiunque venisse dicendo di aver previsto punto per punto ciò che ora si compie in Italia, rischierebbe forte di non essere creduto sincero. Comunque ciò sia, l'ignoranza nella quale io confesso di rimanere della più parte delle cagioni a rispetto di quel che accade in Italia, mi piace, perchè ho sempre veduto gli avvenimenti massimi e fecondi davvero portar seco questo carattere del farsi ammirare ma non intendere, e tanto più ammirare quanto ciascuno si assottiglia di penetrarli.

Di tal genere, per mio giudicio, sono i fatti odierni della Penisola. Pur nondimeno, egli sembra potersi dire, che la nostra patria dopo le mutazioni e il conquasso della grande rivoluzione francese, ripiglia oggi con vigore e saggezza virile il largo moto di civiltà e di riforma a cui dava principio [123] poco prima della metà del secolo scorso. Allora, siccome oggi, iniziatori del mutamento furono i principi. Ma in que' tempi, le riforme ampliavano la potestà regia, rovesciando la feudalità, le privilegiate corporazioni e gli arbitrj della Curia Romana: oggidì le riforme assumono, al contrario, per fine di temperare il regio potere, e rinnovano in mezzo di noi quel genere di monarchici che i padri nostri, latinamente e con profondo significato, domandavano civile, come il solo buono e degno effettualmente dell'umano consorzio. In que' tempi ogni sforzo tendeva all'equità ed all'uguaglianza; quest'oggi tende alla libertà. Allora, cavatane l'Inghilterra, nessun principato conosceva il freno degli ordini rappresentativi e dell'altre pubbliche guarentigie; onde Pietro Leopoldo e il Tanucci entrarono innanzi in più cose allo stesso Turgot, il quale in Francia non compariva del certo un rimesso e lento riformatore: ma a questi giorni, in tutta l'Europa è sciolto e cancellato il potere assoluto, se n'escludi la Russia che è barbara, e l'Austria incapace di mutazione. Allora i consiglieri arditi e liberali dei re erano letterati e filosofi cortigiani; e ciò che persuadevano e conseguivano venía dai popoli ricevuto o in silenzio rassegnato o con gioja pura ed immensa, come suol farsi per beneficj inaspettatissimi, e i quali niuno osa non che richiedere ma nemmanco sperare. Al dì d'oggi, se i letterati proseguono a consigliare i monarchi, il fanno discosto, e per mandato espresso e perpetuo delle moltitudini, e segnatamente delle classi mezzane; e parlano e s'interpongono come la divina forza della ragione e della giustizia, che vieta e impedisce il conflitto.

Da queste e da parecchie altre disparità che intervengono tra il moto riformatore antico ed il nuovo, sorge il concetto generale, che ne' principi, alle cui mani è affidato presentemente il governo d'Italia, bisogni maggiore maturità di pensieri, più docilità di animo e minor lentezza di opere.

D'altra parte, nel secolo andato e propriamente in quegli anni in cui s'attuavano le riforme, lo straniero regnava in Italia assai meno poderoso; e piuttosto che minacciare, difendevasi e patteggiava. Patteggiava col re di Napoli e col re di Piemonte, patteggiava coi Genovesi. Quello che oggi [124] ne sia, ciascuno lo sa, ciascuno lo vede. Nel secolo andato esistevano stati e genti italiane riconosciute alla dolce favella del si, ma la nazione italiana non esisteva. Ne' giorni nostri, se badasi alla nuda scorza dei fatti, nazione italiana neppure esiste; se al sentimento, al desiderio, al proposito fermo ed universale, le genti italiane son già pervenute a costituire una sola persona morale. E appunto perchè dal sentimento e dal desiderio vuolsi procedere alla piena realità, e gli ostacoli sono molti e gagliardi; e perchè prevedesi di dovere o subito o non mai molto tardi invocare sul Mincio e sul Po il Dio degli eserciti, e però fa mestieri a noi tutti l'unione e la fiducia perfetta e reciproca; ne segue che abbisogni eziandio ne' popoli altrettanta assennatezza, docilità e prontezza viva e operosa. Saggia debb'essere la moltitudine in frenare all'uopo la naturale impazienza de' suoi desiderj; e frutto primo e salutare di tal suo senno debb'essere la docilità, cioè il saper riverire e ottemperare alla legge, mostrarsi arrendevole ai suggerimenti e alle ammonizioni de' buoni, e comportarsi per guisa che più non abbia verun poeta moderno a poter replicare la sentenza del Tasso:

. . . . . . . . . alla virtù latina

O nulla manca o sol la disciplina.

Ma non pertanto, il popolo dee serbarsi pronto ed attivo, non inerte, non freddo, non pusillanime. Distinguiamo sempre e in qualunque cosa l'operosità dal tumulto, la vita dal sonno, l'ordine e la disciplina dalla sommessione cieca ed irrazionale. Nel moto regolare e crescente della cosa pubblica educhiamo l'intelletto ed il cuore; delle concessioni ottenute caviamo buon frutto, le ottenibili maturiamo. Con l'esempio del nostro vivere franco e pieno d'ardore, ma legale, dignitoso e pacifico, con l'aspetto della nostra verace e pacata letizia, con la concordia di tutti gli ordini, ma specialmente di popolo e principe, facciamo impossibile la tirannia, impossibili il negare ostinato e il resistere pauroso nelle rimanenti Provincie italiane. Non si ricerca da noi che ancora un poco di moderanza, di assennatezza, di longanimità; e i figli della gran madre staranno tutti raccolti e tutti beati in un solo [125] amplesso. La santa Lega Italiana avrà compiuto e stretto il suo mistico fascio, nel cui mezzo starà sola una scure, perchè infinite braccia parranno impugnare una sola spada; e miseri quegli stranieri che vorranno assaggiarla.

Come in persone eziandio scorrette e di mala indole sorge tal volta per mezzo all'anima un senso puro del bene e un desiderio generoso di nobili geste, così accade che la Provvidenza spiri per qualche tempo su tutto un popolo l'aura della virtù e del coraggio, e un amore di sacrificio che agli occhi suoi stessi il fa nuovo e maraviglioso. Procacciamo con isforzo continuo, che pur sopra noi, infralita generazione, passi quell'aura sublime; e lo zelo attivo e sincero del pubblico bene invada tutti i seni dell'anima nostra. Sui canti delle strade di Genova (or non sono molti giorni) leggevansi stampate a larghe majuscole queste belle parole: — Ordine, Fratelli; tutta Italia ci guarda. — Ed io dico agl'Italiani: Fratelli, siamo prudenti, disciplinati, operosi; tutta Europa ci guarda; e (facciasi luogo al vero) ci guarda mezzo ammirata ed incredula, e dubita forte se noi siamo ancora i figliuoli dell'eroiche generazioni che vinsero il mondo, ovvero gente spuria e ragunaticcia la qual sogna le grandi cose e le conta per fatte, agitandosi con furore tra le processioni, le luminarie e i banchetti.

(Dalla Lega Italiana.)

DEL FATTO DI LIVORNO.

Adì detto.

Gli ultimi casi di Livorno rattristano l'anima, perchè sono la prima nebbia che sorge a intorbidare il sereno della nostra rigenerazione. Ma forse il male non è tanto grave e profondo, quanto si mostra di fuori: e a niuno poi venga in animo, come scioccamente fu detto, che gl'imprigionati cospiravano a pro dell'Austria. Egli non è possibile ormai in Italia rinvenire dieci persone di mediocre fama, e di vita e condizione alquanto civile, che accolgano in seno un desiderio [126] così vile insieme e così scellerato. Se in quegli uomini si troverà colpa (e speriamo che no), sarà colpa di fanatismo. Non perde subito una nazione i modi e gli usi funesti a cui l'han menata le sventure e la tirannia. Si cospirò per lunghissimi anni, e a mali estremi, e che parevano inemendabili per altra via, si cercarono rimedj violenti e non sempre legittimi. Si brandì il pugnale accanto alla mannaja, il secreto fu contrapposto al secreto, l'inquisizione settaria all'inquisizione di Stato; e, insomma, come i medici temerarj costumano, a fieri veleni riparossi con altri più fieri e mortali. Forse ad alcuni, que' mezzi sono paruti ancor necessarj; forse la inconsideratezza dell'ira e i pungoli dell'orgoglio hanno fatto gabbo alla coscienza e velo al giudicio. Di più non diciamo, e più là non vogliamo andare colle presunzioni e i supposti. È debito di carità e di giustizia il non aggravare coi sospetti e con la baldanza delle parole gente che sia a repentaglio della vita e dell'onore, sebben della vita non crediamo e non paventiamo. Nella felice Toscana, fra gli altri esempj di sapiente mansuetudine che i Principi Lorenesi hanno dato non pure all'Italia, ma sì all'Europa, questo è il maggiore ed il più solenne; di avere, ottant'anni addietro, abolito il crimenlese. Poco stanno discosto da noi que' giusti e benigni tempi, in cui non dico non si puniranno di morte e d'altri gravi castighi gl'imputati di mere colpe politiche, ma si prenderà maraviglia che ciò abbiasi potuto praticare per secoli da tutto il mondo civile e cristiano, come si stupisce oggidì dell'avere cercata e scrutata la verità con l'opera dei tormenti. Dove cessa l'evidenza del reato, là cessa il diritto di punire; e v'ha, pur troppo, infinite quistioni di giure sociale e politico in cui la ragione vacilla, e il comune senso morale non dá risposta patente e assoluta.

Noi non dubitiamo che agli imputati di Livorno non debba, nel processo a cui danno materia, apparire manifestissimo, quanto il dominio della pubblicità torni loro giovevole, e quanto gli amici e fautori di libertà (nelle cui mani sono) procaccino e studino, anzi ogni cosa, la imparzialità e integrità dei giudicii: o se questo vuol esser vero per tutti, maggiormente desideriamo che sia per coloro, alcuni de' quali [127] hanno con noi sospirato e sofferto per la redenzione della patria. Li tenemmo, pur jeri, compagni ed amici; non può il nostro cuore assuefarsi a un tratto a stimarli nemici odiosi ed abbominevoli.

Ma un'altra osservazione importante vien subito fatta a chi bada un poco a cotesto avvenimento. Il Governo Toscano è sembrato scarseggiar sempre di forza, di attività e di speditezza. I tempi, infrattanto, da quetissimi e sonnolenti son divenuti svegliati e vivi. Gli spiriti, prima indolenti e molli, hanno contratto in poco d'ora alcun che dell'antica febbre repubblicana. Tra le città poi toscane, Livorno è la più ardente e più malagevole a governarsi. Un bel giorno, moltitudine grande adunasi quivi in piazza, gridano armi, vogliono armi. Al gonfaloniere ed ai superiori vien meno ogni modo di acchetarli. Creasi a voce di popolo una deputazione, la quale in breve intervallo sembra fatta signora della città ed arbitra delle cose. Le viene comandato di cessare e scomporsi; ed ella, a rincontro, dichiara sè stessa organo e rappresentanza vera del popolo livornese, e pon la sua sede nel palazzo municipale. In questo mezzo, giunge il ministro Ridolfi, che per primo atto fa in ogni quartiere assembrare la Civica: questa obbedisce volonterosa e prestissima, e quattro mila cittadini già stanno accolti e armati sotto le insegne. Entrasi in molte case, imprigionansi cittadini non volgari, e parecchi de' quali erano principalissimi tra i deputati; quindi son menati sul vapore reale il Giglio, e condotti a Porto Ferrajo. Tutto ciò in qualche ora, con risolutezza, con facilità e corampopulo. Ogni cosa ritorna in quiete; la città ripiglia i negozj; in niuna parte è spavento, in niuna è sdegno e rancore. Or che è questo? donde viene al Governo Toscano tanto vigore, tanta prontezza, un fare sì animoso e sicuro, e il sapersi appigliare a partiti forti e recisi? Da due cose ciò proviene: dal muovere che fa il Governo i suoi passi di pari con l'opinione, e dal munirsi e fidarsi compiutamente nell'armi cittadine. La Guardia Civica riesce in Toscana ciò che sempre, ciò che per tutto è riuscita; vale a dire lo scudo e il palladio dell'ordine pubblico, e il sostegno della libertà vera e durevole, non della avventata e mal ferma. Nel [128] Governo Toscano ben rincalzato dall'opinione e dall'armi cittadine, è non solo risorta la gagliardia e l'attività, ma egli porge caparra sicura che di quindi innanzi sarà del corpo della Lega Italiana un membro saldo, sollecito e poderoso.

Che diranno di tali fatti coloro cui la virtù e il regno della opinione mette sgomento? E quegli altri eziandio che diranno, i quali si ostinano a giudicare e credere la Guardia Civica non più che una istituzione militare, apparecchiata in casi di guerra a supplire e spalleggiare l'esercito?

(Dalla Lega Italiana.)

L'ECO DELL'ALPI MARITTIME.

Adì detto.

Ci corre all'occhio il programma d'un nuovo giornale nizzardo, col titolo l'Eco dell'Alpi Marittime. I compilatori annunziano di aver gran fede nel moto vitale e rigeneratore che penetra e fa risentire di mano in mano le più morte membra di nostra nazione. Desiderano con ardore il risorgimento suo, la vogliono libera e indipendente, e si professano e chiamano Italiani di sangue, Italiani di cuore. Ma, cosa stranissima, ei dicono e ripetono tutto ciò in francese! Per prima testimonianza dell'animo loro italiano, abiurano l'armonioso idioma di Dante; e per primo atto d'indipendenza, fannosi servi d'un linguaggio straniero, il quale tenta di snaturare e viziare sì fattamente il nostro, che sarà dura e lunga fatica a guarirlo e salvarlo. Ei sembra che pur anche a que' giornalisti sia caduto in mente un qualche sospetto della loro stranezza; ma tosto l'hanno cacciato da sè, racchetandosi con questa ragione, che dobbiam cercare un po' meno quello che ci divide, e molto di più quello che ci ravvicina. O bella o bella davvero! Ma, signori giornalisti nizzardi, noi per serbare appunto e convalidare, quanto ci è dato il meglio, ciò che ne può tenere uniti, abbiamo carissima la nostra lingua, solo segno visibile e universale della comunanza del sangue, solo retaggio rimasto della mente e gloria degli avi. Come ad ogni [129] nazione è sortita una forma propria intellettuale, così è sortito da Dio un organo particolare a significarla. In esso, in quell'organo particolare e mirabile, sta la nostra effigie, il nostro stemma, la nostra bandiera; in esso è quel tesero antico ed inestimabile che nè il correr del tempo, nè le somme sventure, nè il servaggio lunghissimo, nè la stessa nostra incuria e viltà ci hanno potuto involare. Signori giornalisti nizzardi, voi ci avete ferito, senza volerlo (crediamo), nella più nobil parte del cuore. Certo, voi siete arbitri e liberissimi di parlare e scrivere la lingua che più v'aggrada. Ma chi non parla e non iscrive la nostra, dee sentirsi dire con qualche sdegno da tutti i buoni Italiani: — A che mentite il nostro nome, o signori? a che v'accostate al nostro banchetto? Uscitene, noi non vi conosciamo. —

(Dalla Lega Italiana.)

NOTIZIE DELLA SICILIA.

21 gennajo.

Dalle nuove di Sicilia tutta l'Italia del certo sarà funestata; e niuna cosa può riuscire più misera ed afflittiva al cuore de' buoni Italiani, come vedere in mezzo al quieto e ordinato nostro risorgimento scoppiare un conflitto la cui fine non può tornare se non infelice ad entrambe le parti. Se la superano i sollevati, chi porrà modo alle lor domande, e chi interdirà loro d'inalberare il vessillo isolano, squarciando e dispiccando un membro di più al corpo già troppo lacero e troppo diviso d'Italia? E se vince la podestà regia, ormai gli è impossibile che ciò succeda senza moltissimo sangue, fiera semenza di sollevazioni nuove e più pertinaci; e niun modo, poi, e niuna misura verrà segnata agli esilii, agli incarceramenti e ai supplizj che già tanto moltiplicavano in quelle provincie sfortunatissime. Dio conosce gli autori e gl'istigatori di tanto male; e certo, a chi ha menate le cose ad estremi così terribili, prepara nella sua giustizia squisiti castighi e vendette.

[130]

Primamente, noi sentiam bene per tutto ciò, che gli animi colpiti così a un tratto dalla narrazione di casi lacrimevoli a tutta l'Italia si abbandonino al dolore e allo sdegno, e quasi disperino della salvezza pubblica, od almeno si sentan fallire la dolce speranza di campare la patria dai tumulti sanguinosi, dalle mutazioni violente e immature, e dalle miserie e dal lutto della guerra intestina. Ma dato sfogo al primo impeto dell'affetto, e rimenate le forze della ragione e le virtù dell'animo agli uffici loro, debbono tali forze e virtù, avanti ogni cosa, impedire che noi ci lasciamo vincere all'immaginazione, invece di crescere in attività e in coraggio quanto i danni e i pericoli crescono. Se il vorremo tutti, e gagliardamente il vorremo, niun uomo, e sia pur coronato, potrà contrastarci di ricondurre la conciliazione e l'ordine dove ora sono sbanditi, e di far cadere le armi male impugnate, disfare i patiboli, restituire alla patria i fuggiaschi, assicurare la pace, dar principio e base a riforme larghe ed irrevocabili. Per tutto ove abbondano i buoni e accorrono risoluti e operosi, mai non è mancato rimedio ai più profondi guasti e alle più cangrenose piaghe dei regni. Poniamoci tutti, con quanta efficacia di persuasione e con quanti mezzi possediamo di forza e ingerimento morale, poniamoci in mezzo ai sollevati ed al principe: Dio e la fortuna d'Italia compiranno il restante. Ma noi siamo privati, e l'azione nostra va lenta, dislegata e difficile. Tocca pertanto ai principi nostri riformatori il primo alto e il più vigoroso del morale intervenimento di cui ragioniamo. E che? potrà una sola volontà, potrà una sola mente caparbia turbare e sconvolgere a suo talento l'Italia intera? Permetteranno i principi della Lega, che tante loro fatiche e buoni desideri e savissime opere, che tante speranze e disegni loro magnifici per salvate con progressivi e pacifici mutamenti l'Italia, vadan perduti? No, questo non accadrà, chè sarebbe importabile e mostruoso. Parlino ed operino essi con tutta la pienezza e la vigoria di lor dignità, e con tutta quella che porge loro al presente la necessità delle cose, la santità della causa, il dovere di padri e salvatori de' popoli, l'orrore del sangue civile; e a ciascuno sarà giuocoforza obbedire. [131] Ma lascino addietro (noi ne li preghiamo e gli scongiuriamo) le forme e le lungaggini diplomatiche, e come i fatti sono straordinarj e giungono subitanei, altrettanto sia straordinaria e subita l'azione loro. Guai se non riuscissero, guai. V'ha già chi trae compiacenza di tal prima sollevazione, pigliando fiducia che le cose precipitino tanto al male, da vedere disfatti e poi ricomposti a lor modo i regni e i trattati. Ma noi, corretti dalle lunghe sventure, noi non ignari della bestiale pazienza degli uomini, e che ne' gran rovesci la libertà e i diritti de' popoli quasichè sempre vanno in conquasso, noi speriamo tuttavia che la rigenerazione nostra regolare e incolpabile abbia vita così poderosa e tanto piena di partiti e compensi, da trionfare eziandio di questa prima battaglia, e rimovere questo durissimo inciampo che trova nel suo cammino, semprechè i principi della Lega vi si adoperino di concerto e con intera e pronta efficacia. Deh! movali almeno l'enormità del pericolo, se altro sentimento ed affetto non gli riscuote: sebbene dal cuore de' principi nostri niun sentimento pietoso e nobile rimane escluso; e singolarmente dal cuore di Pio, il quale benchè sia padre di tutti i fedeli, pure sa e sente che gl'Italiani sono primogeniti suoi, primogeniti della Chiesa.

Usi egli, dunque, larghissimamente della più che umana autorità del suo grado e carattere; usi della maestà che possiede e della gloria che ha conquistata; e interceda potentemente e con azione sollecita, e con quanti modi e mezzi e clientele ed ajuti ha seco, interceda, diciamo, per otto milioni e più d'Italiani e compatrioti suoi, i quali pure in mezzo al tumulto e alle armi girano in verso di lui lo sguardo, e ne invocano in ogni istante il nome venerando e miracoloso. Noi non sappiamo quali ragioni distogliessero poco fa il Pontefice dall'interporsi in guisa patente e solenne tra le popolazioni Svizzere in procinto di azzuffarsi; ma questo sappiamo, che niuna ragione, niun dubbio, niuna cautela può stoglierlo legittimamente dall'intromettersi con somma efficacia tra il re delle Due Sicilie e le insorte popolazioni. Quindi egli debb'essere risoluto di ciò; e noi, chinati ai suoi piedi, ne lo supplichiamo con quella istanza e con quel fervore [132] d'affetto e profondità di dolore, che la civile carità e la voce del sangue italiano ci fa sentire e significare.

(Dalla Lega Italiana.)

DELLA SICILIA.

22 gennajo.

No, la felice innovazione delle sorti d'Italia non debbe così a un tratto cangiar natura per la cieca pertinacia d'alcuno e l'ira impaziente di molti.

Nè il sangue di nostre vene dee piovere in guerra fraterna o sotto il ferro del manigoldo, ma bensì serbarsi per causa infinitamente migliore, e spargersi tra le armi nemiche in guerra giustissima, anzi nella sola accettevole a Dio, e in cui quel sangue laverà l'anime nostre quasi un nuovo battesimo.

No, non è lecito ai buoni di starsi con le mani a cintola, in faccia al nascente incendio dell'Italia meridionale. E noi invitiamo tutti i buoni a pensare con zelo, e di stretto accordo, gli spedienti e i ripari migliori e più praticabili: l'amor santo di patria e di libertà vera, e la necessità di salvare il quieto e progressivo risorgimento italiano, assottigli l'ingegno così de' privati come de' principi, e li ajuti a rinvenire ed usare tutte le facoltà e i mezzi morali conducenti a spegnere colaggiù le sollevazioni violente, abolire le condanne e i supplizj, fondare e mallevare le progressive riforme. E perchè l'opinione pubblica cresce ogni giorno di autorità e di efficienza, ed ora ha modo in Italia di farsi conoscere quale e quanta è, giova significare in guisa aperta e solenne il nostro cordoglio ed il biasimo nostro a tutti coloro d'ambe le parti, che vogliono sommerger nel sangue la speranza e la fede di una trasformazione ordinata e conciliativa. Siamo certi che nè le distanze nè l'armi nè le polizie nè il terrore impediranno alla voce di migliaja di buoni Italiani il farsi intendere in mezzo de' combattenti. Ma la voce senza misura più potente, efficace e penetrativa di tutte, debb'essere quella [133] del Sommo Padre e Gerarca. Non ha egli nelle Due Sicilie come nell'orbe intero cattolico la sua sacra milizia, i suoi ministri e ufficiali? E che non potrà la falange de' vescovi e de' sacerdoti inviata da lui, con alto ed espresso comando, a spartire la mischia e riconciliare insieme i popoli e il re, non a nome del dispotismo ma della ragionevole libertà, non col diritto del forte ma con quello della civiltà progredita e delle pubbliche guarentigie?

Noi per questo intento pigliamo arbitrio di trascrivere qui il Memoriale che addirizziamo con debito ossequio al Pontefice, facendo preghiera agli amici nostri, al clero, al popolo ligure e piemontese, a tutte le genti della Penisola di ripetere questo fatto concordemente e sollecitamente, affine che l'anima di Pio IX si senta nell'ufficio santissimo fortificata dal voto manifesto, ardente e affettuoso, di tutti i suoi figliuoli e compatrioti.

BEATISSIMO PADRE.

Gl'Italiani a Voi concittadini per sangue e figliuoli in Cristo Signore, recano ai piedi vostri nelle parole di noi sottoscritti l'espressione e il testimonio di lor profondo cordoglio, vedendo nelle Due Sicilie scoppiare un conflitto il quale minaccia o di riempiere nuovamente quelle contrade di crudeli giustizie e in peggiore servitù sprofondarle, o di pervertire nell'intera Penisola il moto pacifico e bene ordinato di rigenerazione politica.

Voi foste, Santo Padre, il glorioso principiatore di quel moto regolare di civiltà, e a Voi s'appartiene di mantenerlo in sua via. Nè certo noi veniamo a supplicarvi di ciò per bisogno che faccia di consigliare e spronare la carità e saggezza vostra, ma solo per isfogo dell'anima, e per accompagnarvi nell'opera santa con l'ardore de' nostri voti, e affinchè sappiate essere noi apparecchiati e desiderosi di ogni qualunque maniera di cooperazione.

Poco fa, uno tra' maggiori potentati d'Europa si scosse alla vostra voce, e facendo luogo al diritto, risparmiò a sè e a' suoi regni di assaggiare gli effetti della vostra lesa giustizia. [134] Non potrà un altro principe, che è doppiamente vostro figliuolo e si professa religiosissimo, resistere alle preghiere di tanto padre, e ai consigli e alle istanze di tanto pacificatore. Nè i popoli dall'altra parte ricalcitreranno ostinati ed immoderati, ognora che Vostra Beatitudine entri mallevadrice dei patti e serbatrice della fede. Voglia, per altro, la Santità Vostra richiamarsi alla mente, che a lei fu fatta promissione larga ed esplicita di concedere miglioranze e riforme subitochè le sommosse di Calabria venissero a fine; le quali venute, non pertanto è apparita nessuna volontà di riforme, e nessun decreto che le annunzi almeno ed accerti per l'avvenire.

Ei si conviene, adunque, alla Santità Vostra nell'alto secreto di sua prudenza investigare e trovare modi assai più efficaci e solleciti d'intervenimento, e praticare rimedj tanto maggiori, quanto qualunque indugio diviene sopramisura funesto, e i danni e i pericoli sonosi fatti ogni giorno più gravi e ogni giorno meno evitabili.

Pieni di fiducia nella Vostra virtù e sapienza, umilmente ci rassegniamo di Voi, Padre Santo e glorioso, devotissimi obbligatissimi servi e figliuoli

Il Direttore e i Compilatori della Lega Italiana.
(Dalla Lega Italiana.)

Iscrizioni dettate pei funerali che Genova celebrò, il 22 di gennajo 1848, alle anime dei Lombardi uccisi in Milano e in Pavia.

Rimpetto alla porta.

DEL RISORGIMENTO ITALIANO
GENEROSO INCOLPABILE
INIZIATO DAL GRAN PIO
SALVETE O MARTIRI PRIMI

[135]

Dall'uno dei lati.

ALLE ANIME
DE' MILANESI
NOSTRI FRATELLI
NEL DÌ TERZO DI GENNAIO
DEL MDCCCXLVIII
UCCISI DAL FERRO STRANIERO
INERMI
E NON RELUTTANTI ALLE LEGGI
PREGATE LA GLORIA DE' MACCABEI

Dall'altro lato.

ORATE PEI GIOVANETTI
STUDENTI
CHE NEL DÌ NONO DI QUESTO MESE
IN PAVIA
CADDERO SOTTO LE PUNTE DE' BARBARI
IN ZUFFA DISUGUALISSIMA
PRELUDENDO AHI TROPPO ANIMOSI
AL FINALE COMBATTIMENTO

Rimpetto all'altare.

BEATISSIMI VOI
CHE NEL SENO DI DIO
OVE DAL MARTIRIO SALISTE
SCORGETE D'UN SOLO SGUARDO
TUTTA LA FUTURA GRANDEZZA
D'ITALIA

(Dalla Lega Italiana.)

[136]

DEL MEMORIALE AL PONTEFICE PEI FATTI DI SICILIA.

24 gennajo.

Nella vita politica è gran bisogno che le opinioni si manifestino, e ciascuno caldeggi la propria con lealtà e franchezza e con buon coraggio civile. Da ciò nasce il profitto comune che la verità sia discoperta e conosciuta con più sicurezza; e la discussione schietta e libera sminuendo col tempo gli errori, le discrepanze, le ambiguità e le amplificazioni, produca nell'universale un giusto criterio pratico: oltrechè gli uomini politici sostenendo con dignità ed a viso aperto i proprj pareri, possono divenire avversarj ma non nemici; e in quella parte in cui tutti convengono, che per lo più sono i principj ed i sentimenti d'amore patrio, d'indipendenza e di libertà, congiungono il consiglio e l'azione con vigore e concordia maravigliosa.

A ciò abbiamo noi inteso con l'atto che jer l'altro compimmo di addirizzare un Memoriale al Pontefice; il quale atto fortemente suggella le nostre opinioni, e dichiara la via che vogliamo calcare con indeclinabile lealtà e franchezza. E nostro pensiere non è stato al sicuro, come stima taluno, di versar biasimo sulle insorte popolazioni; e chi leggerà la Lega del 19 conoscerà bene sino a che punto (secondo il nostro giudicio) sieno esse scusabili, ed a qual grado di fiera disperazione abbiale trascinate la mala signoria che pure altra volta

Mosse Palermo a gridar mora mora.

A noi non fu presente se non solo questo concetto; che, cioè, la sollevazione de' Siciliani da un lato e l'ostinazione cieca e feroce dall'altro, mettevano del pari a pericolo estremo il risorgimento pacifico e progressivo d'Italia; e però convien tentare ogni modo d'intervenire fra esse, e porre ordine ai moti incomposti e freno agli sformati voleri.

Noi non siamo di quelli che desiderano e sperano di vedere oggidì in Italia rinnovarsi alcun che del furore repubblicano [137] francese; il quale, con eccessi inauditi e con ispaventevole vigoria, tenne fronte agli eserciti collegati e domò le intestine discordie; ma poi, stanco e della metà consumato, si riposò sotto una ferrea dittatura. E di grazia, dove sono appo noi le oppressioni feudali, le proprietà conculcate, i diritti sociali offesi che infiammino le moltitudini? dove l'aspettazione certa ed universale d'un secolo d'oro di civiltà vicinissimo, e più bello del sogno di tutti gli antichi filosofi? dove il senso e l'essere di nazione, nudrito appresso i Francesi da mille anni di vita comune? dove le tradizioni guerresche, dove l'animo oltremodo disciplinevole, e le vittorie strepitose e continue, generanti in quel popolo un salutare orgoglio e una fede invitta in sè stesso? dove, in corpo smisurato, un solo e gagliardo capo, e membra numerosissime avvezze a obbedire con alacrità e con ardore? dove, infine, lo spazio dato alla Francia di parecchi anni bastevole ad educare le moltitudini e prepararle per ogni guisa al combattimento? E che? noi mezzo inermi e divisi, noi inesperti e indisciplinati, noi tutto fuori di quelle singolarissime condizioni poc'anzi rassegnate, sfideremo non che l'Austria ma pur l'Europa, e vinceremo ad un tempo il nemico esteriore e interiore?

Chi farà questo enorme prodigio? forse lo immenso vigore della stessa rivoluzione? Ma quel vigore onde nascerà, se le cagioni anzidette nè sono nè hanno tempo di sorgere?

In somma, la salute d'Italia intera estremamente pericola se le manca tempo e opportunità di unirsi, di educare le plebi, d'armarsi e apparecchiarsi d'accordo co' suoi governi, d'accordo con tutti gli ordini dello Stato. E però, a lei conviene fuggire le violenti rivolture, e l'esorbitanza delle pretese e delle passioni che ne conseguono, e il porsi in nimistà e in discordia co' principi suoi, con la diplomazia europea, col Papa e la miglior parte del clero. Questa è la credenza nostra invittissima; e se in lei sta il vero, e la pluralità degl'Italiani così la pensa, dico che debbe loro rincrescere fuor di modo così la caparbietà dell'uno come le sollevazioni degli altri; dico che il disperar subito di salvare l'ordine e la concordia, e di raddrizzare il moto delle miglioranze [138] e riforme pacifiche, è debolezza ed avventatezza; dico che dobbiamo invece por mano a tutti i rimedj, quanti ne sono in facoltà nostra.

Obbiettano ancora, che l'intervenzione e ingerimento morale de' principi e del Pontefice, e qualunque nostra cooperazione ed azione privata, quando farà sentire gli effetti suoi, le sorti del Regno saranno già consumate; imperocchè, o la sollevazione avrà ceduto alla forza regia, o questa alla sollevazione.

E noi rispondiamo, che ciò per appunto dimostra la grande proficuità del proposito nostro, riuscendo ugualmente opportuno e ugualmente utile in ciascuno dei casi. Perchè, se la superano i sollevati, l'intervenimento morale procaccerà con ogni sforzo di temperare i vincitori e ricondurli all'ordine ed all'unione; e se il principe rimarrà superiore, l'intervenimento del pari procaccerà di non pur scemarne lo sdegno e il risentimento, ma di rompere l'ostinazione sua contro le larghe riforme ed innovazioni. A chi, poi, estima che l'una e l'altra cosa sono affatto impossibili ad ottenere, noi rispondiamo, anzi tutto: che il procedere regolato e concorde del nostro risorgimento è si bello, sì necessario e sì salutevole, porge tal nuovo esempio ed arreca tal maraviglia all'Europa, innalza a siffatta grandezza di fama e d'onore il nome e la sapienza italiana, che merita sia tentata ogni prova per mantenerlo e difenderlo, e sia prevenuto col nostro proprio l'intervento degli stranieri. Rispondiamo in secondo luogo: che mai le cose umane, e massime le politiche, non riescono tanto assolute ed inesorabili, quanto considerate in astratto appariscono; e la forza del pubblico voto, qualora sia saldo, manifesto ed universale, e si conformi affatto col desiderio dei buoni e coi principii eterni della giustizia e del bene, acquista ne' nostri tempi un valore ed un'efficacia tanto maggiore ed inestimabile, quanto sembra celare l'azione sua, ed usar solo le armi spirituali e invisibili della verità e della persuasione.

(Dalla Lega Italiana.)

[139]

L'ALLOCUZIONE DEI PARI DI FRANCIA.

Adì detto.

I Pari di Francia proseguono da qualche giorno a discutere, con la pacatezza loro ordinaria, l'allocuzione al re, o, come dicono, l'indirizzo. Il solo incidente gradito e favorevole a noi Italiani è stato un paragrafetto che vi si volle inserire, dove si parla con lode di Pio IX e delle riforme iniziate da lui in Italia; cosa dimenticata affatto nel discorso regio, non senza un po' di maraviglia di tutti i Francesi. Ai ministri è paruto bene, scorgendo l'assentimento pressochè unanime, accettare la cosa con garbo, e come se non inchiudesse biasimo del silenzio. Il Guizot ha ragionato a un dipresso come ne' suoi dispacci; e a riassumere la generale sentenza del suo discorso, basterà di notare questo concetto, che mentre il popolo romano va intorno al cocchio del Papa sclamando: «coraggio, Santo Padre, coraggio;» il Guizot, in quel cambio, sembra dirgli ed anzi espressamente gli dice: «adagio, adagissimo, Santo Padre. Oh Dio, vedete quanti pericoli e quanti malanni. Ecco qua i Trattati, chi può toccarli? L'indipendenza è delirio, la libertà non è matura, le teste bollono, l'Austria minaccia: giudizio, per carità.» E se ciò consiglia il Guizot al Pontefice, in cui (secondo suo dire) di costa al punto di movimento v'ha per necessità un punto di resistenza continua ed invincibile, quali avvisi ed ammonizioni andrem noi presumendo che porga ai principi secolari?

Ciò non ostante, noi ripetiamo che la buona propensione del governo francese ci è cara, e gliene sappiam grato. Ma vedesi aperto, ch'ella non può contentare l'opposizione parlamentaria, perchè questa dee reputare che a un sì potente e sì liberale paese come è la Francia conviene qualche cosa di più attivo e di più gagliardo. Onde, agli occhi degli opponenti il sistema politico del Guizot dee far la comparsa d'un guardiano di serraglio, alla custodia del quale sia consegnata la pace d'Europa, bellissima favorita del suo signore.

Parecchi in tal discussione son venuti tratteggiando lo stato e le condizioni d'Italia; ma, per nostro avviso, chi meglio [140] di tutti ne ha giudicato, è senza dubbio il Cousin. Il luogo ed i tempi, le ricordanze di sua passata dignità e forse l'aspettazione della futura, hanno fatto il suo parlare moderatissimo e assai contegnoso; ma, non pertanto, egli ha dimostrato abbondevolmente, che la risurrezione italiana e il bene stare dell'Austria implicano contradizione, se pure a ciò facea mestieri dimostrazione alcuna. Oh quante parole per provare che la luce risplende! Anche il ministero ha gli occhi, e la vede: pur nondimeno, che può far egli volendo tenersi amici e l'Austria e le popolazioni italiane? Ma del discorso del Cousin, la parte che accogliamo più volentieri è quella dov'egli ci porge consigli sinceri e non superbi, affettuosi e non imperiosi; diverso non poco in questo da qualche altro Pari, e segnatamente dal Montalembert, che mal conosce l'Italia e male la giudica: il qual errore in sè non farebbe caso, considerandosi che ai forestieri riesce poco men che impossibile il conoscere con giustezza e il ben valutare le cose nostre. Ma perchè allora tanta sicurezza nel sentenziare, e tanta solennità e autorità nell'ammonire? Stima egli forse il Montalembert, che basti essere nato francese ed aver seggio nel palazzo del Luxembourg, per assumere quell'aria boriosa, e far cadere così dall'alto le sue parole su ventiquattro milioni d'uomini? Chè se la nazione francese operasse alcun gran sacrificio per la emancipazione de' popoli, potrebbesi pigliare in pazienza l'alterigia de' suoi oratori. Ma dappoichè ella si ristringe nel suo diritto e pensa solo all'utile proprio, noi consigliamo il Montalembert e gli altri colleghi a dismettere affatto il linguaggio che usano da protettori e da Mentori; chè l'Italia potrebbe a ragione finire col prenderne un po' di spasso. In quel loro linguaggio si sente chiaro ch'essi ci trattano, sottosopra, come fanciulli inesperti. E per fermo, noi non possiamo saper daddovero ciò che dal tempo e dalla pratica sola viene insegnato. Ma, di grazia, non doveasi perciò appunto ammirare quella specie di virilità e di senno precoce, e quella divinazione della scienza politica di cui dà prova al presente la nazione italiana, involta come è, pur troppo, in casi ed in circostanze le più intricate e le più malagevoli che dar si possano?

[141]

Per vero, il conte di Boissy à lodato la nostra saviezza, e ha contraddetto con zelo l'esagerate paure e i sospetti non ben fondati che molti Pari hanno fatto intendere circa alle mene settarie, e all'immoderatezza dei desiderj e delle opere negli Stati della Lega. Ma il bel cuore e il retto senso del vero non sempre sortiscono il dono delle belle parole; e quell'egregio signore ha confermato un poco il proverbio, che un mal destro amico equivale a un nemico.

Noi dobbiamo, poi, ringraziamenti caldi e pienissimi alle parole d'incoraggimento e di affetto che Vittore Hugo ha pronunziate. Il risorgere dell'Italia è di necessità una vivente e magnifica poesia; e però nel cuor d'un poeta doveva essa spegnere tutti i pensamenti politici e tutte le arguzie parlamentarie, per solo lasciar campeggiare e risplendere una ammirazione durevole e una speranza sublime.

(Dalla Lega Italiana.)

RIFORME NEL REGNO.

25 gennajo.

Dio protegge l'Italia; e perchè veggasi viemeglio che tutta opera delle sue mani è il risorgimento di lei generoso e incolpabile, l'ha lasciata gire fin sull'orlo estremo ove s'apre l'abisso delle rivoluzioni e della guerra intestina; e poi tutt'a un tratto ne la ritrae, mutando con salutari paure le volontà pertinaci, e schiudendo la via delle conciliazioni e dei provvidi consigli.

Ieri l'anima nostra gemeva nel lutto; oggi si riconforta e quasi gode e trionfa, non perchè non sovrastino ancora pericoli gravi e timori di nuovo inciampo e di nuovo sangue, ma perchè a tali timori e pericoli v'è tempo e modo di riparare, ed è validissima la speranza del buon successo.

Il re di Napoli fa promessa d'un'amnistia; concede a' suoi Stati larghezza di stampa; aumenta le pertinenze e prerogative della Consulta di Stato; accresce il numero dei Consultori e cávali da ogni condizione di cittadini; dilata le facoltà [142] dei Consigli provinciali, e dà loro adito alla Consulta di Stato.

Commette ad essa Consulta di far la proposta d'un ordinamento nuovo di Municipj, al quale dia base: 1º La libera elezione dei Decurioni conferita agli Elettori; 2º Ogni attribuzione deliberativa conceduta ai Consigli comunali; 3º Ogni incarico di esecuzione affidato ai Sindaci.

Con altro decreto, re Ferdinando concede ai Siciliani governo, amministrazione ed esercito proprio, rimettendo in atto ciò che fu statuito nel 1816; epoca dolorosa per l'Isola, dacchè in quell'anno appunto fu consumato l'annullamento della Costituzione siculo-inglese.

Di tal regio decreto noi prendiamo consolazione, non perchè ottimo, spiacendoci forte la divisione nuova che ne risulta tra le due Provincie italiane, ma perchè ne dee conseguire almeno un pronto armistizio, e guadagnasi tempo ed agio ad usare mezzi più efficaci e più accomodati per ricondurre la pace, l'unione e l'affratellamento.

Noi, dunque, non avemmo il torto a sperare che il moto pacifico e progressivo della nostra rigenerazione, benchè scomposto e quasi interrotto, poteva essere ancora raddrizzato e riordinato. I tempi corrono velocissimi, e i casi nostri s'incalzano e quasi direi s'accavalcano; onde ai provvedimenti d'un giorno convien dare il dì dopo modificazione ed assetto nuovo: ma la sostanza non muta, e bisogno è tuttora d'un morale intervenimento.

Quel che sappiamo finora delle tarde concessioni di re Ferdinando in risguardo della Sicilia, non dà certezza di credere che gl'insorti s'accheteranno e terrannosi per soddisfatti. Sembra, in quel cambio, probabile assai, che, poichè sono in armi e non domi, ei richiedano la Costituzione loro del 1812, giurata da Ferdinando il vecchio, e poscia da lui sospesa e infine abolita di proprio arbitrio. Oltrechè, non può il rimanente d'Italia vedere senza rammarico, che nel regno delle Due Sicilie risorga di nuovo uno stato nello stato, invece di quella unità di governo e perfetta riunione di membra che una larga e libera legislazione potea solo ottenere. Molti nodi pertanto sono ancora da sciogliere, ed è [143] nostro debito di procacciare che non li tagli la spada, nè la malvagità e l'ostinazione li ravviluppi, ma l'amore ingegnoso e paziente della concordia e dell'italiana fraternità si travagli e sudi a disfarli. Disponiamoci ad ogni maniera di sacrificj, ricorriamo ad ogni spediente, imploriamo ogni ajuto così dal Pontefice come dai principi della Lega; e niuna cosa rimanga intentata, perchè lo straniero nè perturbi nè si intrometta nelle nostre faccende, e gli estremi e sanguinosi cimenti sieno rimossi e fatti impossibili.

Noi non vogliamo sollevazioni e guerra intestina: ecco quello che intese significare il Memoriale nostro al Pontefice. Noi non le vogliamo, e con tutte le forze dell'animo, e con quanti mezzi legittimi e usabili sono in nostro arbitrio, le allontaneremo da noi. Perchè, tralasciando il discutere de' diritti e de' principj, e ragionando solo di pratica, a noi sta fermamente fitto in pensiere, che l'Italia di sconvolgimenti gravi e funesti è capace pur troppo, ma di vera e generale rivoluzione non mai; e s'anco potesse farla, impossibile le sarebbe condurla a buon fine: quindi gli stranieri disporrebbero a lor talento delle sue sorti, rompendo e impedendo con forza e violenza bestiale il suo felice comporsi in essere di nazione. Sta poi del pari nel nostro animo una fede saldissima, che posto che tutti coloro i quali assentono a tal verità vogliano porsi all'atto di scostare con ogni mezzo e sperdere la tempesta delle rivoluzioni e dei sanguinosi conflitti, ei del sicuro riusciranno nel nobile intento, raccogliendosi in loro (per quel che pensiamo) la prevalenza altresì del numero, e potendosi dalla volontà universale onesta e operosa trovar sempre qualche riparo ai pubblici danni e qualche sorta di compromesso tra le parti contendenti. E questo fu il secondo significato del Memoriale nostro al Pontefice; conciossiachè l'esperienza fa, pur troppo, vedere che ne' momenti difficili e quando l'azione de' buoni diventa più necessaria, come ora in Italia, ella suole invece far difetto, o almeno rallentarsi e rattiepidirsi, perchè la bontà comune non è coraggiosa, e la comune virtù più presto s'astiene dal male di quello che osi attuare il bene: quindi accade che gli spiriti turbolenti o fanatici tengono solo il campo e sgomentano gli avversarj. [144] Noi, dunque, intendemmo e tuttora intendiamo di fare ai probi e savj Italiani una chiamata solenne in quest'ora quasi direi formidabile, in cui l'Italia può correr rischio di lasciare le vie di progresso pacifico e di mutua confidenza, per entrare alla cieca nei cupi e inestricabili labirinti delle rivoluzioni; alla porta dei quali, per seguitar la metafora, sta un mostro biforme: cioè la discordia civile e l'intervento straniero, pronto ed armato ad uccidere chi per avventura ne uscisse salvo.

Iddio, inverso l'Italia misericordioso, dischiude, dicemmo, fra le tenebre che s'addensavano sopra il Regno una via di luce che mena a salvezza. Guai, se tutti i prudenti e gli onesti non entrano in quella. Ora fa d'uopo risolvere, e non occorrono declamazioni e sofismi. In noi pure è il senso delle passioni generose, e freme in petto a noi pure l'odio sacro e veemente contro i tiranni; a noi pure vengono a schifo le prepotenze soldatesche, le bindolerie de' diplomatici, e la fiacchezza e ignoranza del volgo. Ma più che la passione e il risentimento, più che il desiderio del meglio e della perfetta libertà, più d'ogni cosa, insomma, e più di noi stessi abbiamo a cuore la salute estrema d'Italia.

Ripetiamo, pertanto, che gli è gran mestieri ordinare tutte le forze morali omogenee, e raccogliere tutti i pensieri e gli affetti comuni, onde n'esca poi l'unità e l'efficacia delle opere. Probabilmente, non sono ancora di là dal Faro cadute le armi di mano de' sollevati, e forse vi dura un'ira profonda e implacabile, una diffidenza cupa e troppo scusabile, una voglia cocente di certe e irrevocabili guarentigie. Forse al re non parrà fattibile abbandonare le forme del governo assoluto; forse per resistere ai Siciliani tenta di amicarsi i popoli di qua dal Faro, conoscendoli di più miti pensieri e più facile contentatura. Per ricomporre e sedare sì gran tumulti, sciogliere tanti viluppi e a tanti e sì vecchi mali recare rimedio stabile, appena sarà sufficiente la viva e sollecita azione e cooperazione di tutti i buoni, nè già timida e dislegata, ma stretta, coordinata e animosa.

Noi, nell'atto di jeri l'altro, arbitrammo di seguir l'uso d'ogni buon capitano, il quale volendo ordinar la milizia e riempierne meglio le file, fa, innanzi ogni cosa, la chiama, e [145] così impara quanti accorrono e quanti mancano al suo vessillo. E noi, del pari, desiderammo conoscere quanti fra coloro che reputano inopportune e funeste in Italia le rivoluzioni si dispongono ad operare concordi, vigorosi e costanti per arretrarle. I tempi son fieri, il momento è più che mai minaccevole. Innalzi ciascuno la insegna de' principj e delle credenze sue proprie. Noi, col Memoriale al Pontefice, abbiamo innalzata e spiegata la nostra. Chi vuol salvare davvero l'Italia, s'accosti a quella e combatta; se no, adocchi un'altra bandiera e sott'essa si arruoli. Ma, per Dio, non se ne rimanga indifferente ed inerte; e pensi alla bontà e necessità della legge ateniese, la quale nelle politiche alterazioni faceva delitto a ciascun cittadino il ritrarsi e il non iscegliere la sua parte.

(Dalla Lega Italiana.)

CONSIGLI AL RE DI NAPOLI.

27 gennajo.

Alle concessioni di re Ferdinando si è fatto mal viso, non solo perchè carpite a lui dalla subita paura, ma pel medesimo essere loro. Elle aggiungono qualche larghezza e perfezionamento a quegl'istituti che da ormai quarant'anni non diciamo governano il Regno, ma dimorano scritti nelle sue leggi. Ognun sa che dal 1821 in poi è durata in Napoli questa contraddizione sconcissima; leggi e istituti, cioè, tanto buoni quanto possono stare in assoluta monarchia, e un Governo ed una amministrazione pessima e inemendabile. E a ciò ha dato cagione principalmente la veemenza sconsigliatissima con cui tutta l'opera del 21 fu atterrata e distrutta. Da indi in poi, i reggitori di quelle provincie hanno comandato ed amministrato a guisa di setta, e con la diffidenza e la rabbia di una fazione che schiaccia la sua contraria e lasciasi vincere alla paura. Questa ha fatto che il reprimento e le concussioni eccederono tutti i termini comportabili; e d'altra parte, i pensieri di libertà erano penetrati così addentro nell'animo dell'universale, che il Governo non ebbe intorno di sè, salvo che i più ignoranti od i più corrotti.

[146]

Così gl'istituti ottimi di cui fu fornita la monarchia, son rimasti una lettera morta; e le poche larghezze che ora v'aggiunge il re, sono comparse agli occhi del popolo come membra vive appiccate a un gran corpo cangrenoso e disfatto. Per farli utili ed accettevoli, conveniva, la prima cosa, chiamare al governo persone di fama integra e di spiriti liberali, e però capaci di render vigore al cadavere delle leggi: oltrechè avrebbero cominciato da ciò che è prima e fondamentale necessità d'ogni accordo in quel regno; vogliamo dire dal ricondurre negli animi un po' di fiducia, la quale n'è tutta uscita da lungo tempo, ed a gran ragione.

Da tutto ciò è proceduto che ai nuovi decreti di Ferdinando, non pure i Siciliani insorti, ma i popoli ancora di qua dal Faro, ne' quali si stimava essere maggiore arrendevolezza, sembrano voler tutti rispondere fieramente: «gli è troppo tardi;» terribil parola che muta e travolge affatto il movimento delle cose italiane. Già l'animo infiammato dei giovani esulta; già nella baldanza de' lor pensamenti e de' lor desiderj applaudono ai nuovi successi, e gridano pure a noi, fautori e propugnatori dell'ordinata e progressiva rigenerazione: «gli è troppo tardi.»

Dunque, la ostinazione cieca d'un solo uomo avrà potuto non che mettere a repentaglio la sua corona e sè stesso, ma la concordia e salute di tutta l'Italia? Dunque, un risorgere così bello per misuratezza e virtù, e degno d'essere dato ad esempio in ogni secolo ad ogni popolo, verrà guasto e annullato dalla colpa di un solo? Quell'amicizia e cooperazione mirabile di tutti gli ordini, quel consenso perfetto e continuo di tutti gli animi, quella fratellevole congiunzione d'ogni città, di ogni provincia, d'ogni Stato, non fia possibile salvare in alcuna guisa dalla procella che, scoppiata nel mezzogiorno, non tarderà guari ad invadere tutto il cielo italiano? Se ciò è destino, non sì ammirino i lettori nostri sentendoci tornare più d'una volta sulle medesime lamentazioni. Chè mai l'Italia non aveva visto e goduto di giorni non dico sì fatti ma neppur somiglianti. Nel clero come ne' laici, nella plebe e nei rozzi come nei dotti e civili, dalle officine ai palazzi, dalle città ai villaggi, sempre, per ogni luogo ed in tutti era un sol sentimento; [147] la gioja, vo' dire, del nuovo stato, e la certa e dolce speranza di veder fra breve l'Italia intera tornata libera e grande. Nelle feste il pudore e il contegno, nella vita pubblica la moderazione e l'ossequio alle leggi, in ogni atto politico la pietà religiosa e la santità e pompa dei riti cattolici. Un aspettare non inquieto, un domandare dignitoso, un obbedire ragionevole, un giudicare assennato, un armarsi ed apparecchiarsi senza tumulti e con precoce maturità di pensieri e d'affetti. E tutto ciò sparirà, dunque, in un giorno? Tanto merito di prudenza, tanta fatica per riparare agli eccessi, sì lungo studio per evitarli, finirà (com'è da temere) nello scompiglio e nel sangue? Noi, benchè quasi sentiamo il rumore dell'armi e le grida delle insorte popolazioni, benchè ogni corriere e ogni nave che giunge rechi nuove più gravi e più avverse alla pace e alla conciliazione, noi non possiamo disperarne del tutto, e mai non caleremo il vessillo onorato che poco avanti spiegammo.

I mali sono profondi: mano, dunque, agli eroici rimedj. Tre ne proporremo fallibili ed efficaci. L'intervenzione del Pontefice; la immediata istituzione per tutto il Regno della Guardia Cittadina; l'abdicazione di Ferdinando in favore del suo figliuolo.

Se il re di Napoli invece di comparire ne' nostri tempi, fosse nato in quelli favolosi di Grecia e uscito dalla famiglia de' Pelopidi o degli Atridi, i poeti, parlando di lui, avrebbero immaginato che tutte tre le Eumenidi siedono invisibili accanto di lui, accecandolo in ogni consiglio ed in ogni impresa, per vendicare e punire nella persona sua molti ed antichi misfatti.

Molte fïate già piansero i figli

Per le colpe de' padri.

Certo è che ogni cosa ha pensato ed eseguito a rovescio; e quando era bello di resistere ha conceduto, e quando di concedere ha resistito. Mai nè i tempi nè gli uomini, nè il valor delle cose, nè i pensieri e le esigenze del secolo gli sono comparse nell'aspetto loro verace e istruttivo. Sedici anni d'impero assoluto, invece d'illuminarlo, son venuti [148] vieppiù annebbiando la non molta intelligenza che à da natura. Al presente, a lui mancano per intero i due soli mezzi d'ogni regno e d'ogni comando, il farsi amare o il farsi temere; e similmente, gli vien fallita quella facoltà che è base e strumento d'ogni transazione e riconciliazione, il dare e il ricever fiducia. Per nostro avviso, è necessità suprema di fatto, che re Ferdinando abdichi volontariamente, e lasci in suo luogo il figliuolo con una reggenza. Noi ripiglieremo presto il discorso e la trattazione di sì grave materia.

(Dalla Lega Italiana.)

IL PASSATO E IL PRESENTE DI NAPOLI.

I.

31 gennajo.

Delle Provincie italiane la più disgraziata ci è sempre paruta la terra di Napoli. In tutte l'altre, la fortuna girando sua ruota, ha spinto i popoli, almeno per qualche tempo, in sull'alta cima. In Napoli io non so quando quella ingegnosa e stupenda natura di uomini abbia potuto mostrare appieno ciò che sente e che vale. Ogni sorta di gente straniera ha corso e occupato il paese loro, e trattatolo come conquista: onde tutte le specie di tirannide ha sostenute, tutte le forme più improvide di governo ha provate; e quelle che lo potevano prosperare e difendere, sono cadute appena comparse. Nel mentre che nella rimanente Europa civile la feudalità rovinava, nel Regno, per contro, parea col dominio Spagnuolo accrescersi e fortificarsi; od almeno crescevano le angheríe e i soprusi, cresceva la boria e l'insolenza dei baroni inverso de' popoli: certo mai non ha pesato sopra una colta nazione e ricca d'intelletto e di cuore un reggimento più funesto e più distruttivo di quello dei Vicerè Castigliani. Si giudichi dopo ciò, qual tempra robusta d'animo e d'intelligenza sia stata dalla natura impartita ai Regnicoli per avere non che resistito a sì gran cumulo di sventure, ma dato a quando a [149] quando segni tanto mirabili or di energia e fermezza, or di eroica magnanimità, or di luminoso e rapido incivilimento.

Ma, da ormai mezzo secolo le vicende del reame di Napoli corrono più del consueto straordinarie e terribili; e variando sempre d'aspetto, questa sola simiglianza hanno mantenuta con sè medesime, di non mai riuscire a bene ed a salvamento di quella tanto nobile parte d'Italia. Chi non sa le stragi del 99, la formidabile sollevazione delle Calabrie, il tempestoso regno di Gioacchino, e la guerra infelice da lui tentata nel 1815 a nome dell'indipendenza italiana? A chi non è noto l'insorgere del ventuno, l'invasione degli Austriaci, il modo sì deplorevole con che cadde la libertà, le vendette e oppressioni di poi succedute, gli sforzi e i tentamenti per iscuotere il giogo, sempre con audacia rinnovellati e sempre conchiusi con le prigioni e i patiboli? Veramente, quella provincia è stata ed è tuttavia terra vulcanica, e il Governo ha di continuo camminato

per ignes

Suppositos cineri doloso.

Ma in ventisei anni già corsi dall'annullamento della Costituzione, è mancato affatto a quel Governo il senno e l'abilità di procacciarsi altro migliore sostegno che i gendarmi e gli Svizzeri: onde per lui nessuna forza morale può supplire alla materiale; quando non si voglia chiamar del nome della prima quella prostrazione di animo in cui gli onesti e generosi spiriti eran caduti, e lo sgomento rimasto in essi dell'armi straniere, e il sentirsi e il vedersi sfregiati innanzi all'Europa e innanzi a' proprj occhi: tutte cose di cui il Governo non arrossiva di farsi arme e puntello.

L'effetto peggiore e più amaro di tal traviamento e di tal servaggio è stato l'abbiezione e la corruttela. Diciamo l'effetto peggiore, perchè dove l'animo non è troppo corrotto, le buone leggi tosto il risanano; ma dove la depravazione abbonda, le buone leggi e le libere istituzioni non bastano, ed anzi rischiano forte di essere contaminate e guaste esse stesse. Gli è un fatto, che ovunque l'ingegno e la fantasia sono più pronti, il sentire più vivo, l'indole più passionata [150] e focosa, quivi la servitù reca danni molto maggiori; perchè la scaltrezza vuol supplire alla forza, la simulazione e la frode s'assottigliano all'infinito; e quanto sono vietati i piaceri dell'animo e l'esercizio delle maschie virtù cittadine, altrettanto l'accensione naturale del sangue e le blandizie del clima trascinano l'universale ai piaceri del senso, alle sconce libidini e alle intemperanze d'ogni maniera.

Nondimeno, rispetto al Regno, è da distinguere con gran cura le provincie dalla città capitale. In questa poco rimane, a dir vero, di sano e d'intatto; e quella plebe singolarissima, la quale insorse tanto animosa nella metà del cinquecento per cacciar dal suo seno l'Inquisizione; e un secolo dopo tenne fronte ella sola, può dirsi, a tutta la gran potenza Spagnuola; e più tardi, in sul primo invadere delle truppe francesi, mostrò a Championnet come in una città non murata e senza armi rimanevano ancora nel nudo petto e nelle pronte braccia del popolo fortissimi baluardi; quella plebe, diciamo, perdendo il rozzore della barbarie, non per ciò ha contratto la dignità e gentilezza civile, e con lo smettere a grado a grado le sue vecchie e profonde credenze, nessuna nuova ne ha guadagnata: onde rimane una cosa informe e scomposta, che non ha sembianza nè nome, e più s'approssima al vizio che alla virtù.

Ma nelle provincie, massime negli Abruzzi e Calabrie, lo stesso vivere appartato e poco socievole, le ricchezze men che mediocri, le possidenze minutamente spartite, il trarre pressochè ogni sussistenza dall'arti agrarie, certa semplicità di costumi durata per mezzo a mille mutazioni, hanno conservato, per gran ventura, fra quelle genti molta vivezza di affetti nobili e di pensieri liberali, accanto a molta naturale bontà e schiettezza.

A ogni modo, noi siamo di quelli che reputano, che in popolazioni eziandio guaste e degeneri, il numero dei non corrotti è infinitamente superiore, e valgono a riparare ogni male e ricondurre ogni sanità, posto che il vogliano fermamente, e che la bontà loro (nol ripeteremo mai troppo) sia coraggiosa ed attiva. Per ciò ardentemente desideriamo, che a qualunque altra innovazione nel Regno preceda la istituzione [151] della Guardia Cittadina. Imperocchè, tra gli altri profitti notabilissimi che reca tal Guardia, debbesi annoverare la fortunata necessità in cui pone gli onesti e assennati a divenire solleciti ed operosi del bene comune, e a compiere una intervenzione gagliarda e continua tra la tirannide e la licenza.

Per la ragione medesima, desideriamo e con calde istanze chieggiamo l'intervenire del Pontefice; essendochè la sua voce e l'autorità sua serviranno d'esempio e di sprone a tutti quei tepidi, benchè buoni, i quali altrimenti starebbersi muti ed inerti, e lascerebbero andare le cose a seconda delle immoderate passioni, e come la temerità e improntitudine dei partiti le vuol condurre.

Ma oltre a tutto questo, a noi non esce dell'animo, che nelle nostre provincie meridionali, se la natura sensitiva e delicatissima degli uomini sembra con facilità stemperarsi e corrompersi, altrettanto guarisce con celerità, e risorge e trasformasi in meglio, con istupore di chi n'è testimonio. E certo, noi non crediamo che poco prima dello scoppiare della rivoluzione francese i costumi della città di Napoli tenessero dell'austero e del forte; chè anzi nella reggia e nelle case de' grandi e sin nei chiostri e ne' seminarj v'era mollezza, ignavia e dissolutezza non poca. Venne il turbine delle guerre e della rivoluzione, corsero tempi e vicende le più rischiose del mondo, e fu agli spiriti non volgari offerta occasione frequente di dure lotte e di arditissime prove. Ora, egli avvenne che in seno di quella terra voluttuosa e indolente, apparvero tutt'a un tratto uomini non solo non disformi dal secolo, ma grandi come i suoi casi e forti come i suoi rischi. Noi non possiamo se non accogliere in cuore speranze liete e magnifiche di quella Provincia italiana ove il Cirillo, il Conforti, il Caraffa, il Serio, Mario Pagano e cento con essi vestirono in un momento l'animo antico, e porsero agli scrittori moderni materia degnissima della penna di Plutarco.

Noi seguiteremo altra volta a spiegare a quali mezzi e provvedimenti debbano por mano i nostri fratelli di Napoli per condurre a bene il nuovo risorgimento loro, e uscire delle [152] gravissime e difficilissime condizioni in cui la cecità sventurata di alcuni gli ha posti.

(Dalla Lega Italiana.)

PALERMO BOMBARDATA.

31 gennajo.

Il supplemento dell'ultimo nostro foglio ha dato notizia che Palermo da parecchi giorni era bombardata, e che aggiugnendosi ciò alli scontri frequenti delle soldatesche coi cittadini, cagionava una terribile mortalità. Ier sera poi ci venne riferito da testimonio oculare, che il tredici dal Forte di Castellamare furono scagliate sulla città 132 bombe.

Nel 1821 Palermo insorse, e domandò di avere governo proprio sotto la corona medesima, con la medesima costituzione. Nel Parlamento un'ira ingiustissima accecò affatto il giudicio, e fu risoluto di vincere con la forza la sollevazione Palermitana. Sbagliò il Parlamento, come ora il Governo Napolitano; ma gli è impossibile di non osservare e notare le differenze fra li due errori. Palermo nel 21 insorgeva contro Napoli fatta libera, già venuta in possesso d'una forma di reggimento politico, che in que' tempi volevasi la migliore di tutte e la perfettissima. Oggi Palermo insorge contro un dispotismo violento ed improvvido, e che s'incera l'orecchie per non udire richiami e supplicazioni, e fa rispondere con le sciable agli evviva il re e le riforme. Allora, capo della spedizione fu il generale più reputato delle Due Sicilie, uomo di nobil cuore e di sentimenti e pensieri liberalissimi, D. Florestano Pepe: oggi, capo e governatore è il generale Majo, uomo spregevole affatto, e soldato inetto, e dall'universale troppo mal visto. Allora il Pepe non accettò i sussidj che Messina e Catania gli offrivano, abborrendo dal vedere spargere dai Siciliani il sangue siciliano; potea tagliare i condotti dell'acqua e nol fece; i mulini già occupati dalle sue truppe rendeva all'uso cotidiano, in benefizio e ristoro della città; era già penetrato in Palermo e poteva al [153] tutto sforzarla, e non volle; e impose alle navi di non danneggiarla, e a tutti di risparmiare al possibile le vite de' lor fratelli.

Oggi, il Governo di Napoli non usa alcuno di tali rispetti; e incapace di sforzar la città, la fa bombardare spietatamente; ed avventa il fuoco su quelle venerande basiliche, in cui l'arte italiana conserva gli avanzi e i testimonj maravigliosi di ciò che potè il nostro Genio nella notte barbarica del medio evo. Tanta è la furia che pone a domare gl'insorti, che rompe le costumanze e i buoni procedimenti d'ogni nazione civile, e i quali son divenuti regole certe e costanti del gius delle genti. Diffatti, la protesta dei Consoli da noi ristampata jer l'altro, dà prova che niun tempo è stato lor conceduto di riparare e provvedere così a sè stessi come ai loro compaesani. Le dimostrazioni di fratellanza, il far luogo all'amore e alla compassione in mezzo al conflitto medesimo, il saper temprare lo sdegno e reprimere il risentimento, sono questa volta dal lato de' Siciliani. Dio protegga la causa di chi fra l'armi e nel sangue non iscorda i doveri di buon Italiano, e sente nel danno dell'avversario il danno e il dolore della patria comune.

(Dalla Lega Italiana.)

IL PRESENTE E IL PASSATO DI NAPOLI.

II.

2 febbrajo.

Le cose di Napoli, chi ben le guarda, s'avviano verso d'un termine che le assomiglia a quelle del 1820. Parecchie differenze per altro intervengono, le quali son tutte, la Dio mercè, in favore della innovazione presente. Noi ne darem conto ai lettori con brevità e chiarezza, secondo il nostro istituto.

E primamente, diciamo che se l'Austria non fa disegno d'intervenire, questo sol caso porrebbe tra oggi e il venti sì [154] gran differenza, che lascerebbe ai due tempi una mostra di simiglianza, e non altro. Ma nell'Austria la voglia d'intervenire non può mancare, qualunque volta non manchino la opportunità e la potenza. Divisiamo, adunque, per bene quali condizioni nuove di cose difficultano la intervenzione austriaca in Napoli.

Nel venti, la lega dei re assoluti, che per antifrasi fu detta sacra, toccava il colmo della sua fortuna e potenza. Oggi, quella cospirazione veramente inaudita e novissima contro le libertà dei popoli, non solo è sconnessa e mezzo annullata, ma i governi rappresentativi maggioreggiano in guisa da occupare ormai tutta l'Europa civile. E se tu ne cavi la Turchia la quale è barbara, e la Russia ove ancor dura la schiavitù, l'Austria sola accenna di voler, dove può, conservare il pieno arbitrio monarchico: ma in Ungheria nol può, e in più altre parti del vecchio e scrollato impero cesserà di poterlo.

L'Austria nel venti predominava in Germania, predominava in Europa; pendevano dal suo labbro i gran consiglieri dei re; parea rinsanguata, robusta e piena di vita. Al presente, è sopraffatta in Germania dall'arti prussiane, poco ascoltata in Europa, incresciosa all'universale, massime pei casi di Galizia e Cracovia e per gli orrori dello Spielberg; la stimano tutti esausta, vacillante e decrepita: la quale opinione, fosse pur falsa, riesce dannosa oltremodo, infin che i fatti non la smentiscono.

Avea l'Austria nel venti quete le provincie, fedeli i popoli, strette con vigore le redini del governo. Al di d'oggi, neppur ne' Circoli austriaci è piena tranquillità, e dalle rupi del Tirolo alle foci del Danubio non v'ha un palmo di suolo in cui si rincontri buona contentezza e fidanza. Quel malumore, poi, che nel regno Lombardo-Veneto serpeggiava qua e là al tempo della Costituzione Napolitana, e non parea farsi intenso e profondo salvo che negli uomini colti e bollenti d'affetto patrio, ora scoppia da tutte parti, invade le moltitudini, e manifestasi con tali prove di virtù e coraggio civile, da superar di gran lunga l'aspettazione medesima de' più caldi Italiani.

Allorquando in sul principiare del ventuno l'Austria, [155] poco dubbiosa dell'esito, fece movere le sue truppe, lasciavasi dietro alle spalle il Piemonte travagliato da sétte ma non insorto, e che non parea prossimo a insorgere; e quantunque l'esercito Sardo ponessesi di poi in sollevazione, subito discordò e si divise e tutto scompaginossi; onde pochi reggimenti tedeschi bastarono a spegnere quel primo incendio di libertà. Quest'oggi, l'Austria trova Liguri e Piemontesi tanto infiammati quanto concordi, e così bene in arme e in assetto, come docili alle leggi, ordinati nel loro ardore, e affidatissimi ne' loro capi.

Nell'anno venti e ventuno, l'Austria scorgea buona parte d'Italia commossa dalle opinioni liberali più in superficie che nel profondo: v'avea società secrete estesissime, cospirazioni di ufficiali d'esercito, scontentezza di molte provincie; ma ardor popolare assai poco, e il sentimento nazionale appena spuntava, e, per isbaglio quasi comune, più pensavasi alla libertà che all'indipendenza; ogni Stato viveva in disparte e per sè, e il concetto di unione e collegazione di popoli o non nacque o non si mantenne. Oggi, per lo contrario, il desiderio d'indipendenza entra avanti a tutti gli altri; gli Stati si confederano, i popoli chiamansi ad alta voce fratelli, e la vita morale della nazione è già una, e ferve in tutti i suoi membri vigorosa e omogenea.

Nel venti, in fine, i Principi nostri o alla scoperta o di soppiatto tenevan con l'Austria, e taluni non vergognavano di confessarla solo sostegno e salute rimasta alla persona e potestà loro. Al presente, più d'uno fra essi sta dalla parte de' popoli, accetta ogni buon progresso civile, sdegnasi dell'ingiuriosa tutela di Vienna, e gode di avere a capo e scòrta il nome glorioso e la venerabile autorità del Pontefice.

Ora, di tutte queste notevoli differenze in fra i due tempi paragonati, alcune rimangono ferme e indipendenti dai casi, altre si legano all'andamento e alla fine che avranno le sollevazioni del Regno. Felice l'Italia, se ne' popoli delle Due Sicilie sarà tanto di virtù e di senno, da porre insieme due cose nate veramente per procedere bene unite, ma che il volgo e i partiti disgiungono assai di leggieri: noi vogliam dire l'energia e la prudenza.

[156]

Occorre a que' popoli l'energia, per rimovere la possibilità d'ogn'inganno e sventare ogni trama cortigianesca, e mostrando la gran fermezza e unione di lor desiderj, conseguire sufficiente malleveria dell'ordine nuovo di cose. Occorre poi sopramodo a que' popoli la prudenza, per non trascendere in cotesti atti il segno e il termine della necessità, e saper tornare sollecitamente nell'ordine e nell'obbedienza alle leggi.

Adoperando essi in tal guisa, e guadagnandosi e mantenendosi piena ed intera la propensione e amicizia degli altri Stati Italiani, nè dando ai Principi della Lega cagione legittima alcuna di spaventarsi; l'Austria avrà tuttora contro di sè la unione che sì la sgomenta de' cittadini d'ogni ordine, la consonanza perfetta degli animi, la tenace confederazione di tutti gli Stati, il desiderio comune ed inestinguibile d'indipendenza e di libertà, protetto oggimai e santificato dalla maggiore e miglior parte del Clero, difeso da eserciti disciplinati, e dalla mutua fede e assistenza di ventiquattro milioni d'uomini.

Ma un'altra difficoltà, e forse la maggiore di tutte, debbono procacciare all'Austria i nostri fratelli del Regno; e questa è di toglierle ogni presunzione ed ogni speranza di veder rinnovati gli errori gravissimi in cui la fortuna nemica d'Italia lasciò cadere i Napoletani nei nove mesi che vissero di risorgimento e di libertà. Distingueremo altra volta cotesti errori, e accenneremo i mezzi e le pratiche più confacenti a bene evitarli.

(Dalla Lega Italiana.)

IL CARROCCIO, GIORNALE DELLE PROVINCIE.

31 gennajo.

Con gran piacere leggiamo il Programma d'una nuova Gazzetta Politica che sta per uscire in luce in Casale, e alla cui direzione intenderà il conte Pier Dionigi Pinelli; nome che per se stesso è pegno grandissimo della bontà del Giornale, [157] e ne accerta particolarmente che quel periodico mai da verun altro verrà sorpassato nella integrità e nobiltà delle massime e delle dottrine. E veramente, quando vediamo persone così specchiate e generose come il conte Pier Dionigi Pinelli porsi a capo di tal sorte d'imprese, debbe ognuno augurare con sicurezza un bene copioso e durevole per la nostra Italia; ricordandosi, fra l'altre cose, come appresso molte nazioni, e in Francia segnatamente, la stampa periodica sia venuta a mano di gente non molto onorevole, e povera soprattutto di ferme e radicate credenze. Il titolo del giornale Casalese sarà il Carroccio, bello e bene appropriato battesimo; perchè, volendosi con quel Giornale prender cura peculiare dei municipj e degl'istituti provinciali, doveasi riporre in mente ai popoli italici quel simbolo antico de' nostri gloriosi Comuni; e il quale fu loro sì sacro e cagionò tanto profitto, quanto forse ai Romani quell'ultimo adito del Pretorio, ove, a modo di reliquie e di numi indigeti, stavano raccolte le aquile e le altre insegne delle vincitrici legioni.

(Dalla Lega Italiana.)

ALLOCUZIONE AI NAPOLETANI.

2 febbrajo.

Era giunta notizia che Ferdinando di Napoli, più non fidandosi di resistere, apparecchiava una Carta costituzionale.

Fratelli Napoletani!

La gioja che dentro al cuore ci abbonda non può rimanersene chiusa, ma vuol mostrarsi di fuori ad ognuno; ed a voi particolarmente, o Popoli Napoletani, aggiunti oggi a quella famiglia di patrioti che, francheggiata dai Principi riformatori e stretta in lega santissima, affrettava coi voti, preparava con gli scritti, predicava con gli esempj la unione e rigenerazione di tutti i figliuoli d'Italia.

Deh! abbracciamoci strettamente, o Fratelli, in desiderio e in ispirito, e ringraziamo dal profondo dell'animo il Dio [158] Salvatore de' Popoli e Datore eterno di libertà. Questi, nelle gran meraviglie che da due anni fa comparire nella Penisola, manifestamente c'insegna che la parola increata ha negli abissi di sua sapienza e bontà pronunziato che l'Italia sia, e l'Italia infallibilmente sarà.

Oh quanti amari sospiri, quante angosciose sollecitudini, quante querele sconsolatissime ci cagionavano i vostri mali, o Fratelli! Oh come lo strapazzo indegno e la servitù miserissima d'una sì nobil parte d'Italia spargeva di molto assenzio i cittadini banchetti e le feste a cui entravamo! Oh come le lacrime vostre e ogni stilla del vostro sangue dalla mannaja versato parea ripiovere sul nostro cuore, e attristarlo dell'amaritudine della morte!

Ora godiamo delle speranze comuni, e nel puro e libero abbracciamento dell'anime nostre esultiamo. Trenta secoli di civiltà sono già corsi sulla Terra Italiana; e pur questo, o Fratelli, questo è il giorno primissimo in cui gli abitatori dell'uno e dell'altro estremo di lei possono pubblicamente e solennemente, in fatto e non in pensiero, chiamarsi figliuoli e cittadini d'una sola gran patria. Nè cento mila spade straniere bastano ad interdire quel grido sulle rive stesse del Po, del Mincio e del Bacchiglione.

Fratelli Napoletani! sforziamoci con ardore e costanza operosa e incolpevole di non rimanere inferiori all'altezza de' nostri destini. Agli altri popoli è gran fatica il gir oltre, a noi il tornare quello che fummo.

(Dalla Lega Italiana.)

[159]

PARTE SECONDA. TEMPI COSTITUZIONALI.

[161]

CONSIGLI AI PRINCIPI E AI POPOLI.

3 febbrajo 1848.

Noi riputiamo avere a quest'ora dato prove sufficientissime di quanto teniamo a cuore la conservazione dell'ordine, l'unione di tutti gli animi, la concordia fra popolo e principe. A noi sembra, pertanto, aver conseguito qualche buon dritto di non palliare il vero e di non dimezzarlo; ma, quando ci occorra, esprimerlo francamente, e quale il sentiamo ed il conosciamo.

I fatti burrascosi dell'Italia meridionale non recarono (gran bontà della Provvidenza) quel sanguinoso e profondo conquasso che temer si potea. La rigenerazione nostra può procedere, oggi pure, ordinata e con moto equabile, semprechè non si contrasti alla molto maggiore velocità del suo corso, e non le si nieghino que' premj e guadagni che già stima di avere in pugno. Occorre pertanto (e ogni giorno ci cresce il debito di ripeterlo), che tutti i Principi della Lega intendano questa incessante necessità, e si persuadano che ogni ritardo come è inopportuno ed inefficace, così può riuscire odioso, e togliere ad essi non poco credito di lealtà e non poco merito di spontanea risoluzione. Certo, quel nobil carro, ed anzi propriamente quella nobil quadriga in cui siede ora l'Italia e onde ai suoi destini è condotta, non potrà far buona e regolar via, se tutti quattro i popoli non si attelano in riga, quasi destrieri generosi, e tutti con uguale ardore e uguale prestezza non muovono.

Che debbesi oggi da qualunque buon Italiano e sopra ogni cosa augurare e desiderare alla patria? questo principalmente, che poco o nulla si muti nel morale stato di lei; perchè migliore di quel che si mostrava poc'anzi, non potrebb'essere. E quando l'Italia ha conosciuto giorni così fortunati di concordia e di fratellanza? quando ha goduto di simile congiunzione fra Stato e Stato, e di simile amicizia e contemperanza fra la religione e la politica? quando vide giammai estinte le sètte com'ora? quando cessate le cospirazioni, ridotti quasi al nulla i partiti? quando i [162] pensieri, i sentimenti, le speranze, i disegni di tutti si risolvettero si pienamente in un pensare e in un sentire universale e comune! Tutto ciò, adunque, non dee mutare; e perchè non muti, occorre rimovere di mano in mano qualunque cagione grave di risentimento e di turbolenza, e dare sfogo ai desiderj divenuti impazienti e infrenabili, perocchè fatti maturi e legittimi dalla prepotenza dei casi e del buon successo. Se da per tutto gli animi debbon serbarsi in pieno consenso, è grande necessità che le leggi e gl'istituti eziandio consentano da per tutto; e se non vuolsi che le fazioni ripullulino, i savj si sgomentino, le passioni s'inacerbiscano, convien porre in atto sollecitamente ciò che risponda alla generale esigenza dei tempi. Jeri le cagioni di discordia parean giacere nell'esorbitanza di certe opinioni e nell'eccesso dell'arder giovanile; oggi possono rampollare dalle inutili resistenze e dalle funeste dimore. Ei si vede che noi miriamo sempre al medesimo scopo, e consigliamo con la debita modestia e imparzialità or l'una parte ed or l'altra, e così i governati come i governanti; e però ci diamo pace se mal ci spiegammo o male fummo capiti. Al presente, le nostre parole debbono piuttosto che alle moltitudini addirizzarsi ai lor reggitori, pigliando arbitrio di ricordare sentenze utili, benchè non nuove, ed anzi vecchie quanto la civiltà umana. E già Omero le pose con rara facondia sulla bocca del savio Fenice, il quale raccontando molto a distesa di un re d'Etolia come troppo s'indugiasse ad appagare il suo popolo, conclude che

. . . . . . . . il tardo

Beneficio rimase inonorato.

Sta col nostro animo una gran fede nella Provvidenza, che protegge ed ajuta l'Italia; e confessiamo volentieri, ed anzi con viva letizia il facciamo, che gli avvenimenti sono infino a qui riusciti più avventurosi che non ci parea lecito di sperare, ed hanno contraddetto a parecchi de' nostri timori. Con tutto ciò, non è bene di domandare dal Cielo nuove maraviglie ogni giorno, e nè i popoli nè i re debbono in alcuna guisa tentare Iddio. Chi non iscorge in fondo di tutti i cuori l'ansietà e l'incertezza? Prima e presentanea cagione [163] di sicurezza e di calma sarà la vista desideratissima dell'armi cittadine. Colui che non consiglia oggi a' suoi superiori la istituzione immediata della Guardia Civica, o sconosce affatto la forza de' nuovi accadimenti, o resiste e mentisce alla propria coscienza.

(Dalla Lega Italiana.)

DEL NUOVO MINISTERO NAPOLETANO.

3 febbrajo 1848.

Noi non vorremmo così subito mostrarci scontenti dei nuovi reggitori dello Stato, tanto più che si afferma non avere essi voluto accettare il gravissimo carico, salvo che ricevendo promessa solenne di veder promulgata una Carta. Ma la sventura di vivere il governo o in conflitto aperto o in secreto coi governati debbe aver fine, e però è necessario che l'universale possa di gran cuore stimare e obbedire i supremi ufficiali; e noi dubitiamo forte, che il popolo napolitano possa e voglia far ciò lungamente inverso i personaggi testè chiamati da re Ferdinando. Quattro di loro sono principi. Io non partecipo alle ingiuste preoccupazioni del volgo contro i gran signori: ma so che ad essi è, in generale, troppo difficile il pensare e il sentire come la maggior parte del popolo: so di più, che in Napoli parecchie di quelle stirpi di gran titolati sono degeneri affatto e d'assai poca levatura: e so infine, che agli errori quivi commessi debbe assegnarsi per cagion principale, la turba inetta dei nobili cortigiani, che sconoscendo i tempi e le cose, adulava e accecava il monarca.

Nel presidente del Consiglio, Serra Capriola, è molta onestà e naturale benevolenza, e qualche pratica delle corti: ma troppo manca perchè l'ingegno e l'animo suo pareggino le difficoltà del grado e del nuovo reggimento, e dieno pegno bastevole di amare fortemente le libere istituzioni. Assai minor pegno può darne il Cassero, che già più anni è stato ministro quando, non dico la libertà, ma le miglioranze politiche d'ogni maniera trovavano chiuse tutte le porte [164] della reggia e dei ministeri. Del Bonanni dicono che abbia, parecchi anni addietro, patito guai per le sue liberali opinioni; ma fama di abilità e di politica scienza non gode. Il sol nome caro ai Napoletani è il Colonnello Cianciulli; uomo di spiriti moderatissimi, ma integro, illibato, caldo dell'onor nazionale e amico sincero di libertà. Però, logoro e cagionevole da gran tempo e desideroso di quiete, gli è da temere che sopportar non possa tutta la gravezza di un tanto ufficio.

Del resto, quel nuovo ministero dee forse unicamente segnare un mezzo tempo, ed agevolare un passaggio fra 'l regno dell'arbitrio e quel delle leggi. Ma non ho mai veduto simili tentamenti e saggi riuscire a bene e a profitto: per consueto, scontentano le due parti, e provocano le moltitudini. Ad ogni modo, il ministero presente napolitano, nel suo tutto insieme, non si confà per nulla con le esigenze e le pratiche dell'Era nuova che in Italia incomincia. Noi ci siamo affrettati a manifestare tal nostra opinione, perchè in Napoli più che altrove gli uomini hanno fatto gabbo alle leggi; e ognun ricorda i danni gravissimi che produsse nel 1820 e 21 quell'aver lasciato maneggiare la cosa pubblica da gente poco devota alle franchigie costituzionali, e più disposti a tollerare il giogo tedesco, che l'impero del popolo, e le fatiche e i pericoli della libertà.

(Dalla Lega Italiana.)

COSTITUZIONE DESIDERATA DAGLI ITALIANI.

6 febbrajo 1848.

La parola Costituzione giunge gradita oltremodo agli orecchi del popolo, non già perch'ella gli svegli in pensiero un concetto chiaro e ben definito di tutto quel che significa, ma perchè gli ricorda queste due cose bellissime e desideratissime, Libertà e Guarentigia Conviene, pertanto, distinguere in una Costituzione ciò che ha virtù e sodezza di fondamento ed è affatto universale, da ciò che muta e si trasforma [165] secondo l'indole delle nazioni e le varie contingenze dei tempi e dei casi.

La prima parte, pertanto, è quella che, supposta certa maturità di opinioni e certa efficacia di avvenimenti, mal si farebbe d'indugiare a mettere in atto. L'altra invece (come si notava, fa pochi giorni, nel Corriere Mercantile) ricerca molta meditazione e lunga disamina per riuscire a bene, e adattarsi con proprietà e giustezza alle condizioni peculiari d'ogni paese. In cotesta seconda parte si racchiude eziandio la risoluzione ed applicazione di molte dottrine che non sono ancora uscite di controversia; laddove la prima più non porge materia di dubbio, e i suoi principj sonosi fatti, quasi a dire, massime di senso comune, e come tali compariscono ne' nostri tempi in tutte quelle provincie del mondo civile in cui mette radici la libertà.

In essi principj si raccoglie e conchiude quel general concetto della forma migliore politica che l'epoca odierna venne trovando. Così accadde della scienza di Stato in ogni tempo e in ogni contrada; e quelle nazioni nel cui intelletto luceva l'idea d'un'ottima forma politica, mai non conobbero vero riposo e prosperità insino a che non la conseguirono ed effettuarono. Ad onta degl'infortunj nostri grandissimi, la natura ci ha di tale e tanto ingegno forniti, e abbiam conservato avanzi così notabili della civiltà e sapienza antica, che la forma generale dei governi rappresentativi ci comparve la migliore possibile e la più conveniente all'età in cui viviamo, prima ancora che Montesquieu cantasse l'apoteosi della costituzione inglese. Tutto ciò che è di poi accaduto, non altro poteva indurre nell'animo degl'Italiani salvo che un più fermo e invitto convincimento di quella verità: e però, chi governa l'Italia dee credere con gran saldezza che questo si è l'inveterato e radicatissimo desiderio nostro, al quale oggimai non sembra potersi altramente resistere che usando la forza delle scimitarre straniere.

Ora, tornando alla distinzione di cui, poco è, parlavamo, occorre di ricordare, che i fondamenti d'ogni qualunque costituzione debbono star riposti nelle libertà e guarentigie sostanziali e primarie del diritto privato e pubblico. E tali libertà [166] e guarentigie riduconsi propriamente alle cinque infrascritte, cioè: 1º La facoltà compiuta di pubblicare le proprie opinioni. 2º La Guardia Cittadina. 3º Ministri sindacabili, e però eziandio punibili. 4º La nazione chiamata per via di rappresentanti a discutere e a squittinare le leggi e le imposte. 5º La libertà personale, e l'altre sicurezze e tutele a cui particolarmente provvedono i Codici. Qualunque di coteste franchigie e malleverie mancasse in una Costituzione, o vi stesse in mostra ed in apparenza più che in effetto, farebbe perdere a quella ogni suo valore, perchè tutte si legano e si mantengono mutuamente; ed in altro caso, ella somiglierebbe affatto ad una fortezza in cui moltissime porte fosser guardate eccetto che una: e così nello Stato, per quel solo special difetto di libertà e di sicurezza, entrar potrebbero a mano salva la tirannide o la licenza.

Segue dal fin qui espresso, che ciò che importa di promettere sollecitamente e in modo solenne ed irrevocabile, sono le cinque istituzioni summentovate; ed anzi, l'ultima è in buona porzione di già conceduta e sancita nei codici nuovi. Le due prime poi, con le quali, a dir vero, componesi la universal mente e il braccio vigoroso del popolo, come possono venire immediatamente ad effetto, così dovrebbero esser date e compite senza dimora. Invece, per la seconda parte che versa sui modi più confacenti di rappresentar la nazione nei congressi legislativi, e sul restringere od allargare le pertinenze di questi, e sull'altre materie attinenti; noi desideriamo assaissimo, che in cambio di promulgare e ottriare in fretta simili leggi e istituti, vogliasi innanzi ponderarli per bene e con gran diligenza e fatica, e giovarsi di tutto il senno che emerge dalla pubblica discussione; onde quelli sieno come il portato ed il parto della migliore sapienza civile italiana. Passò quel tempo in cui gli statuti e le leggi uscivano dai penetrali del tempio, o dalla mente d'un solo ed unico saggio. Ora i popoli sono legislatori a sè stessi, e non riconoscono mai in veruno il diritto assoluto di prevenire e d'interpretare ad arbitrio suo il giudicio e la scienza comune. Certo, se al re di Napoli fossero sovvenute queste verità, non avrebbe in quel primo disegno di patto costituzionale specificate certe forme [167] politiche, le quali trovando subito contradittori, o scemarono il pregio ed il credito della concessione, o indussero a desiderare che la legge non appena nata venisse mutata: brutto abito contratto dai popoli servi, alli cui sguardi la legge non ha nulla d'augusto, nulla di sacro e d'inviolabile. Raro è che le nazioni sieno dalla fortuna condotte in istato di potere alzare da' fondamenti, e quasi a piena lor voglia e con un disegno preordinato, l'arduo edificio delle istituzioni loro politiche. Ma più raro è ancora, che di tale facoltà preziosa e fuggevole sappiano ritrarre utilità e profitto largo e durabile: chè anzi quasi sempre sonosi vedute le leggi fondamentali uscire alla luce o per concorso strano di casi, o da un conflitto passionato e violento di parti, o dall'intelletto di uomini men che mediocri, balzati dalla fortuna in cima alla ruota, e che per accidente trovavansi strette in mano le redini dello Stato. Facciamo noi miglior senno, se gli è possibile; e sempre ci dimori innanzi alla mente, che in noi si trasfuse e il sangue e l'ingegno del più gran popolo legislatore dell'antichità.

(Dalla Lega Italiana.)

LA LOMBARDIA E IL METTERNICH.

7 febbrajo 1848.

La Cancelleria di Vienna è istizzita, e nol può tacere. Ognuno sa che le provincie dell'impero sono tutte sue figliuole carissime, maternamente da lei governate. Fra queste si annovera la Lombardia, la quale benchè sia figliuola prediletta, siccome l'ultima apparsa in casa e venuta a consolare la vecchiezza della monarchia, ricalcitra ingratamente contra i benefizj della tenera madre. E per vero, la Cancelleria di Vienna dimostra in un articolo molto succoso, dato testè a pubblicare alla Gazzetta d'Augusta, che il regno Lombardo-Veneto possiede e fruisce da lunghissimi anni tutte quelle buone leggi e quei liberali istituti, per la concessione dei quali i Romani, i Toscani o i Piemontesi vanno in visibilio dalla gioja, e fanno di continue feste e baldorie.

[168]

A questo osserviamo, che quando pur ciò fosse vero, resterebbe a spiegare quel verso di Dante:

Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?

Dappoichè, ancora laggiù nel Regno stavano scritte bellissime leggi, e ognun conosce il gran caso che ne faceva il Governo. Ma forse Metternich o il suo segretario non intendono Dante, e occorre a ogni modo farci sopra un po' di commento: e noi prendiam questo carico assai volentieri, usando uno stile piano ed aperto, come si ricerca al buon chiosatore. Diteci, pertanto, o Signori: avete voi conceduto ai Lombardi la Guardia Civica, e una moderata libertà di stampare le proprie opinioni? Egli è certo e provato che no: parvi dunque poco divario avere le medesime leggi con quelle due libertà e guarentigie di giunta? Una libertà moderata di stampa accanto all'armi cittadine, vuol dire, e ben lo sapete, l'opinione fatta signora e governatrice: vuol dir la mente dei savj che à il braccio del popolo per difesa.

Intendete cotal differenza? In Lombardia sono le bajonette Croate, che quando accade, vibrano punte mortali alla cieca: e nell'Italia media, il cittadino medesimo è fatto guardiano della libertà insieme e dell'ordine, e però è sicuro che ogni riforma conveniente e ogni progresso legittimo verranno di mano in mano attuati.

L'achille degli argomenti di Metternich è sempre questo: — La Lombardia è straricca, la Lombardia è prosperosa. — Ma quante volte deesi, dunque, suonargli all'orecchio il detto evangelico, che l'uomo non vive del solo pane? quante volte deesi fargli entrare nel comprendonio, che al popolo italiano non basta di far vita grassa ed allegra, e sentir sulla sera suonar i pifferi de' Tirolesi, e vedere l'Essler trinciar l'aria coi piedi e fare lezj e svenevolezze? Ei bisogna dire di Metternich, salvo sempre il rispetto che gli si vuol serbare, o ch'egli à l'anima tutt'adiposa, o che intorno di sè non vede nè conosce uomini veri, ma gran pezzi di carne con gli occhi, e automati che respirano: perocchè non so qual altro ministro di Stato abbia mai tenuto così a vile il genere umano, e [169] siesi dato a credere di poterlo governar bene ingrassandolo e trastullandolo come si usa fare coi paperi.

Insomma, il Metternich non vuol pensare che i Lombardi e i Veneziani si rivoltino così dispettosi e fieri per mancanza di buone leggi. — Tutti questi tafferugli e subbugli movono, ei dice, da un capriccio in cui sono entrati, di volere insieme con gli altri Italiani costituirsi in nazione. — E qui l'uom di Stato lascia di botto quel dolcebrusco parlare che usa un padre col suo beniamino un po' scapestrato e bizzarro, e ponendosi le mani sui fianchi e arrossando le gote, minaccia guai a chi toccherà la corona di ferro sull'augusta fronte del successore dei Cesari. — Costui, dice, andrà del sicuro col capo rotto. — E forse in tal passo la minaccia sale più alto, e vuol essere udita così di qua come di là dal Ticino. Come ciò sia, il diplomatico senza spiegarsi da vantaggio, soggiunge: — Ma non verranno a tanto quei sussurroni Lombardi; e però puniremoli non secondo le intenzioni, ma come porta il fatto. Essi ci forzano a tener grosso esercito lungo il Po e l'Adda, e sembra che l'incomodo della spesa maggiore cagionata dal lor capriccio non è per cessare domani nè doman l'altro: però decretiamo fin da quest'ora, che ogni soprapiù di spesa verrà pagato e rifatto in contanti dai signori Lombardo-Veneti, e i più ricchi ne saranno pelati al dovere. —

Troppa fretta, o Principe! ei non si può dir quattro finchè non si à nel sacco. Il cielo è nuvolo molto, e mal coprite con la franchezza e baldanza delle parole l'apprensione e sollecitudine fiera dell'animo. Voi toccate ormai la decrepitezza, e pure (confessatelo) voi non vi siete imbattuto mai a vedere in Italia ed in Lombardia quello che ora vi scorgete. Paese nuovo, nuova vita, uomini nuovi; e i mille sintomi che d'ogni lato appariscono, fannovi argomentare una malattia sì profonda e talmente maligna ed appiccaticcia, che tutta la spezieria dello Spielberg non la guarisce.

(Dalla Lega Italiana.)

[170]

LE CAMERE FRANCESI.

8 febbrajo 1848.

In Francia nella Camera dei Deputati non d'altra cosa s'è ragionato e discusso per due giorni interi, salvo che d'Italia e del suo pieno risorgimento. Secondo il costume, i discorsi sono stati a mostra d'ingegno e a sfogo dell'animo, non a mutare una virgola nell'allocuzione o indirizzo, come ora il chiamano. Ciò nondimeno, alla causa italiana non nuoce aver sentito pronunziare parole caldissime in suo favore; e noi dobbiamo ringraziamenti a quei molti oratori che hanno provato di amarci, e in particolar modo al Lamartine ed al Thiers. Certo, quando il primo ha descritto lo spirito nazionale italiano sempre vivo e rinascente, e il secondo ha versato a man piene la lode sul nostro sforzo ordinato e gagliardo per attingere la indipendenza e rinverdire la gloria degli avi, ardea nel lor favellare una fiamma che rade volte sfavilla al presente nelle arringhe parlamentarie francesi. Così pure, quando Thiers ha mosso discorso di Palermo bombardata e delle uccisioni di Milano, e quando per simili atti ha chiesto che in fondo al cuore di tutti i buoni sorga e ferva quello sdegno giustissimo che per simili altre scelleratezze ha commosso l'Europa, subito è parso eloquente e sublime, perchè i santi e incancellabili dritti dell'uomo tuonavano sulle sue labbra. Per ciò noi gli condoniamo quell'eccesso di orgoglio francese, per non dir vanità, il quale gli fe pronunziare, che ogni cosa in Italia, qualora non sia per le mani stesse della Francia operato, è, del sicuro, operato dal Genio di lei. Tocca a noi di fare che ciò non sia, e che il solo Genio italiano presieda alle sorti italiane.

Quanto è poi ai termini stessi della controversia, bisogna con molta cura distinguere ciò che s'attiene direttamente alla Francia, e alla lunga ed aspra contesa che l'opposizione sostiene contro il Guizot, distinguere, dico, e separar l'uno e l'altro, dall'estimazione e giudicio che dee farne l'Italia per sua propria norma ed utilità.

Il Guizot, nella discussione intorno le cose d'Italia, esponeva [171] con nettezza e franchezza maggiore che per addietro le massime direttive di sua politica, o vogliam dire della politica di Luigi Filippo.

«Il nostro governo si fa debito, diceva egli, di conservare i fatti consumati e accettati, e i diritti perdurabili e positivi; e ciò per iscansare le rivoluzioni e le guerre. Esso accoglie, pertanto, i trattati quali sussistono, e quelli del 15 specialmente, perchè sono base dell'ordine moderno europeo. Esso vive, non che in pace ma in osservanza e amicizia con tutti i governi, e combatte dove può e quantunque può la demagogia. Se a Cracovia l'Austria ruppe i trattati, noi ben l'avremo in memoria: ma non per ciò imiteremo lei ed i suoi colleghi nell'infrazione dei patti. Abbiam usato in Italia il massimo d'ogni sforzo per ajutare le riforme: più là v'è la guerra, la qual non vogliamo e non possiamo volere. Ogni acquisto o perdita di territorio trascina oggi a conflitto tutte le armi d'Europa: l'Austria assalita sul Po non difenderebbesi sola.»

Queste e altrettali ragioni rispondeva il Guizot al Lamartine ed al Thiers; ragioni connesse con un sistema il quale non rispondendo all'esigenze naturali e legittime dei Francesi, è per la forza logica stessa de' suoi principj pervenuto a conseguenze che sentono del paradosso; e tra le quali poi il Guizot, passionato più che non sembra, meschia non poche amplificazioni: e tale è senza dubbio quell'accusa perpetua di radicalismo che scaglia sulla Penisola, e quel dire che v'ha un partito gagliardo fra noi, a cui sta in mente di menare il Pontefice a rimpastare tutta l'Italia e costituirvi un reggimento quasi repubblicano. D'altra parte, la medesima esagerazione lo muove a chiamar l'Austria del dolce nome di amica e di collegata, e lodarla segnatamente di molta moderazione, e del compiacimento sincero che prova per le riforme che vede altrove attuarsi.

Ma persuadiamoci bene, che non si confuta e non si atterra tutto un sistema politico, salvo che contrapponendolo ad uno od a più, i quali oltre al mostrarsi connessi e coordinati in ciascuna parte, debbono eziandio comparire pratici ed operabili, e insegnar la guisa di adempiere il lor disegno speditamente e con somma probabilità di successo. Ora, a nostro [172] giudicio, questo non fu mai definito e insegnato dagli oratori della sinistra in modo chiaro e persuasivo; e i discorsi facondi e splendidi loro negano e distruggono (la più parte almeno) ma non edificano; e percuotono l'avversario di piatto ma non di punta, ne' fianchi ma non mai nel mezzo del petto.

Voi temete sopra ogni cosa, noi diremmo al Guizot, le rivoluzioni e le guerre: ma gli è agevole ritorcere contro di voi gli argomenti vostri medesimi; perchè, sempre l'Europa vivrà in giusto sospetto e paura delle rivoluzioni, e però delle guerre, infino a che i diritti di molte nazioni sieno conculcati, e il gius delle genti non nel bene comune e durabile, ma nella prepotenza di pochi avrà base. Tra il rompere e il calpestare i trattati, ovvero osservarli pur come stanno, e volerli intangibili e inviolabili, corre molto intervallo; e vi giace in mezzo ciò che è sol degno d'una sì gran nazione come la Francia, vale a dire osservare i trattati e chiederne e conseguirne alla fine le necessarie modificazioni, e che le parti affatto sleali ed inique ne vengan rescisse. Del pari, v'à qualche cosa in mezzo tra il rispettare ciecamente la lettera dei trattati quando da tutti i contraenti si faccia il simile, e rispettarli con tale scrupolo quando gli altri, occorrendo, li trasgrediscono. Delle due parti che compongono l'influenza politica esterna, cioè di quella che esercitar si vuole sui re, e dell'altra ch'esercitar si vuole sui popoli, voi sempre ed unicamente pensaste alla prima, e la seconda avete distrutta. Eppure, in questa soltanto è la forza e grandezza morale della nazione francese. Se in diciassette anni di pace non à la vostra diplomazia saputo o voluto far nulla per emendare i trattati e porgere mano alle nazioni che soffrono, voi brillate a giusta ragione fra i filosofi e i cattedranti, ma uomo di Stato non siete. E se la paura delle guerre e delle rivoluzioni dee fare immobile la politica e perpetuar le ingiustizie, converrebbe chiamare la diplomazia un'arte deplorevole di eternare il male e fare impossibile il bene.

A queste conclusioni, o ad altre poco diverse, è giunto sempre il nostro pensiero, quante volte si è fermato a considerare la lite acerba e ostinata che ferve da tanti anni in Francia tra il ministero e l'opposizione. Ma riducendo ora il [173] discorso alle cose nostre e al giudicio che far dobbiamo di quei caldi dibattimenti, rispetto al bene della causa italiana, ci sembra poter fermare le proposizioni che seguono.

Le moltitudini in Francia sono inchinevoli e favorevoli alla causa italiana.

Il ministero vuol conciliare due cose troppo nemiche; la sua buona colleganza con l'Austria, e l'ajuto al risorgimento italiano.

Ad ogni modo, egli non potrà combatterlo scopertamente, nè avversar molto i Principi nostri nel proposito saldo che ànno di concedere maggiori franchigie e statuti rappresentativi.

L'Inghilterra ci favoreggia più alla scoperta e senza ritegni, e solo domanda che non si rompa lo statu quo, in risguardo della possessione di territorio.

Ma rotto che fosse, non moverebbe l'armi per ristorarlo.

Il ministero francese, quand'anco volesse in quel caso stare dal lato dell'Austria, non par probabile che il potesse, perchè troppa ingiuria recherebbe ai sentimenti liberali di sua nazione.

A noi, dunque, rimane arbitrio di proseguire nel cammino di libertà in ciascuno Stato non sottomesso alla forza austriaca. In caso poi di conflitto, ciò che par possibile a prevedere si è, che l'Europa rimarrebbesi spettatrice. Nè altro noi domandiamo: l'Italia farà da sè.

La diplomazia europea non ci recherà, dunque, nè molto bene nè molto male. Uniti ed armati, d'ogni nemico trionferemo, d'ogni impresa verremo a capo; disuniti e sprovvisti, a niuno darem suggezione, e s'aprirà di nuovo il mercato del nostro sangue e delle nostre provincie.

(Dalla Lega Italiana.)

[174]

SULLA COSTITUZIONE CONCEDUTA IN PIEMONTE.

I.

9 febbrajo 1848.

Inutilmente noi ci sforziamo di contenere la nostra gioja e padroneggiare il nostro animo, sì che possa questo foglio farsi organo men difettivo ed araldo meno infedele della pubblica esultazione. A noi pure, come al popolo intero di Genova, manca modo di raccontare quel che sentiamo; e invece di parole, ci corrono al labbro tronche e sospirose esclamazioni: conciossiachè pure il gaudio supremo guarda il cielo e sospira.

Ecco sorge, ecco splende sul nostro capo il giorno fortunatissimo, l'aspettato da cinquant'anni. Ecco ci sta presente e stringiam con mano il frutto sublime di tanti travagli e pericoli, e il subbietto d'un desiderio infinito. Ecco l'ultima maturezza dei tempi, il suggello d'ogni nostra speranza, il fatto primo e novissimo ch'era in cima d'ogni nostro pensiere, informava il più degno e profondo de' nostri affetti, e fin dalla tenera giovinezza svegliò nell'ingenuo cuore i primi moti generosi, e suscitò i germi vivaci d'un sentire forte e magnanimo. Quel nome che per lunghi anni fu mormorato a bassa voce, e nudrì e crebbe nel silenzio e nell'ombra la religione nostra politica; quel nome che parea suonare infortunio, e mai non usciva scompagnato da un gemito; quel nome che epilogava tutte le libertà, significava i più fervidi voti, riempieva di sacro ardore tutto lo spirito, ora (bontà di Dio) esce aperto e risonante dal labbro — Viva la Costituzione! —

Il sangue dei martiri ha fruttificato; le voci alzate dal fondo delle prigioni giunsero all'orecchio di Dio; le amare e copiosissime lacrime dei raminghi e degli esuli sono state convertite in rivo di ubertà, in rugiada fecondatrice; e il fiore immortale e divino della libertà è spuntato.

— Viva la Costituzione! — con tal grido sul labbro è lecito infine ai Liguri e ai Piemontesi, lecito ai figliuoli tutti [175] d'Italia di ripigliare intera e lucente la dignità d'uomo, conquistar quella di nazione, e sentirsi fremer nell'animo l'alterezza del nome italiano.

Fratelli e figliuoli d'una sola gran patria! stringiamoci caramente, stringiamoci tutti in quello amplesso ineffabile di cui l'anime sole sono capaci; e tra gli affetti gagliardi e soavi che d'ogni parte c'investono e assalgono, predomini di presente la gratitudine, e sia calda, sincera, abbondevole e quanta ne può capire in umano petto. Primieramente, chiniamo le ginocchia al Signore Iddio, al largitore eterno di ogni libertà e d'ogni gloria, e che degna scuotere dal sonno di morte e dalla polvere dei sepolcri le razze latine, sempre risorgenti e non mai periture. In secondo luogo, volgiamo l'animo conoscentissimo a re Carlo Alberto, e ringraziamolo del gran benefizio nel modo migliore e più conveniente d'un popolo rigenerato; facendogli, cioè, solenne promessa di seguitar dappertutto la sua spada e le sue bandiere, e di spendere per la sua Causa, che è la Causa d'Italia, tutto il sangue nostro e de' nostri figliuoli.

— Viva Carlo Alberto! — Oggi egli è il più lieto e più avventuroso dei Principi, conciossiachè gli avviene ciò che troppo radamente incontra a chi siede sul trono; cioè di possedere certezza perfetta, che le lodi le quali ascolta sono affatto leali e spontanee, e che vero è il gaudio, vero l'amore, vera la felicità de' suoi popoli.

(Dalla Lega Italiana.)

II.

10 febbrajo 1848.

Noi siamo ancor tanto pieni di vera letizia e di gratitudine per la conceduta Costituzione, che non vorremmo e non sapremmo far luogo ad alcuna indagine critica intorno al suo contenuto, qualora ciò non venisse a noi comandato dal nostro ufficio medesimo, che è una specie d'intellettuale magistratura ordinata a illuminare le moltitudini: e oltre a questo, ci sorge in pensiero, che il nostro esame può riuscire non tutto disutile così per le provincie italiane ove ancora [176] non sono Governi rappresentativi, come per li medesimi Stati Sardi ove il disegno intero del patto costituzionale non è compiuto.

Egli è manifesto per quello che noi dettavamo lunedì scorso nella Lega, che molta maggiore soddisfazione ci avrebbe recato il veder promulgare un decreto, ove promettendosi solennemente al popolo d'investire i suoi deputati della facoltà legislativa, e concedendoglisi l'uso immediato della libertà della stampa, e la istituzione pure immediata della Milizia Cittadina, fossesi pel rimanente significato di aspettare consiglio dal tempo, dalla scienza e dalla pubblica discussione.

Forse il nostro Governo ha pensato che in Piemonte, ove può d'un subito alzarsi l'incendio di guerra, e al canto giulivo degl'inni succedere d'ogni parte il rimbombo dell'armi, dovesse provvedersi perchè le genti non fossero di soverchio commosse e preoccupate dall'alte questioni di forme e diritti costituzionali.

Nell'articolo quattordicesimo dell'insigne decreto degli 8, si annunzia che v'ha chi prepara, per comando del Principe, il disegno intero dello statuto fondamentale. Noi pigliamo fiducia che que' consiglieri di Carlo Alberto a cui fu commesso il più grave e il più malagevole di tutti gl'incarichi, farannosi coscienza di consultare gli uomini più avvisati e meglio istruiti, e vorranno far buon tesoro di tutte le cognizioni e giudicj che l'opinion pubblica espone di mano in mano con l'organo della stampa.

Due cose ottime sono nel mondo; la scienza consumata di pochi, e il buon criterio istintivo delle moltitudini. La perfezione sta nel congiungere insieme tali due termini. Ma vicino ad essi è una terza cosa non buona; e ciò è la presunzione e la falsa dottrina di quelli che, tirati su pel ciuffetto della fortuna, o ricchi d'un bel casato e poveri d'ogni altro bene, o infine avvezzi da lunghi anni al maneggio, direi quasi, meccanico delle faccende di Stato, spaccian sè stessi per grandi uomini, assediano tuttogiorno il Principe, nè sopportano che esca loro di mano la lavorazione delle leggi. Ora, i tempi domandano assai imperiosamente, che in luogo di [177] questi tali sieno molto più uditi i pochi veri sapienti tenuti discosto ed inonorati, e il buon criterio istintivo d'ogni porzione onesta ed illuminata del popolo.

A noi non sa male la istituzione di due parlamenti, ed anzi la reputiamo utilissima; perchè, come dice uno scrittore italiano, «Innovare è mutare, e il mutamento solo non è progresso: adunque, si fa necessaria la identità e permanenza allato alla mutazione; e però necessaria si fa la scienza del conservare..... Ma rado è che coloro i quali sanno ben conservare sappiano altresì innovare; ed, e converso, rado è che gl'ingegni novatori e inventori sappiano e vogliano serbare e modificare l'antico. Ma pur bisogna alla umana società le due sorti d'intelletti e di spiriti insieme contemperare, affine che la conservazione non diventi superstiziosa, nè l'innovazione o falsa o immatura o malefica.»[9] Ora, tale contemperanza ritrova la repubblica con la istituzione appunto di due consessi legislativi. Nè ciò è nuovo de' nostri tempi, o è dottrina inglese e francese, ma scaturisce, come vedesi, dall'indole universale e dalle condizioni perpetue del convivere umano. Ma perchè tali due consessi riescano al fine loro, uopo è che in ciascuno risieda una forza propria morale. Ciò posto, quel parlamento che è tutto e solo ordinato ed eletto dal re, sembra investito di pochissima autorità negli occhi del popolo, dacchè all'ultimo non è il principe ma sibbene i ministri che scelgono e chiamano a quella dignità ed ufficio: quindi se ne forma un consesso affatto ministeriale, che non vien creduto e non è, nel fatto, indipendente abbastanza. Ma noi ci rifaremo tra breve a parlare di questo subbietto.

Nell'ordine e costruzione delle pubbliche guarentigie, la milizia cittadina fa giusto riscontro alla libertà della stampa, e sono ambedue le maggiori e più salde colonne del vasto edificio. Per vero dire, la milizia Comunale promessa dal regio decreto degli 8, non sembra poter rispondere pienamente agli alti concetti di malleveria e di franchigia che sogliono presedere alla istituzione e all'ordinamento della Guardia Nazionale. Stando alle condizioni presenti del Regno Sardo, [178] neppure uno dei capi di bottega e di fondaco entrerebbe nelle righe della Milizia Cittadina, essendo ch'essi non pagano censo alcuno diretto; e posto eziandio che in processo di tempi sia deliberato che il paghino, rimarrebbesi esclusa dal corpo di quella Milizia tutta la immensa moltitudine degli operai; e ciò non crediamo nè provvido nè molto legittimo. La legge non dee nè può senza ingiuria porre quelli affatto in disparte, ma sì li debbe esentare dall'obbligo; conciossiachè il costringerli loro malgrado ad interrompere di quando in quando il lavoro onde traggono di continuo la sussistenza, sarebbe eccessiva gravezza.

Da ultimo, nel vedere copiata a lettera la disposizione dell'ordinamento francese la quale serba al Sovrano la facoltà di inabilitare o sciogliere la Milizia Cittadina nei luoghi dove crederà opportuno, ci è corso all'animo il desiderio che tal potestà fosse accompagnata dall'altro savio temperamento della legge francese, la quale assegna al Governo un termine certo di tempo entro a cui debbono que' corpi disciolti di Milizia Cittadina venire rifatti e riordinati.

Tutto ciò abbiamo notato per iscrupolo quasi di pubblicista, e per recare qualche utile alle rimanenti deliberazioni. È legge dell'umana natura desiderare il bene, e questo conseguito, desiderar l'ottimo ed il perfetto.

(Dalla Lega Italiana.)

D'UNA MARINERIA ITALIANA.

10 febbrajo 1848.

Io non istarò a numerare tutti i gran beni che recheranno all'Italia i casi e le condizioni nuove di Napoli e di Palermo. Pure dirò qualcosa a rispetto d'un particolar vantaggio che debbe uscirne per la comune difesa.

Di tutte le Provincie italiane, Napoli è la meglio fornita di marineria da guerra, massime in bastimenti a vapore. Questi, la maggior parte, sono ottimamente costrutti, benissimo corredati, e nelle varie fazioni che occorrono benissimo [179] esercitati. Purtroppo, fino ad ora tale esercizio ha proceduto da molto trista cagione; perchè il Governo napolitano, più che d'ogni altro mezzo, valevasi dei legni a vapore per estinguere rapidamente quelle prime fiamme di sollevazione che scoppiavano qua e là in Sicilia e nel Regno. Ma Dio tragge il bene dal male, e ciò che gli uomini ciechi propongono a un fine, Egli dispone ad un altro. E così quelle navi che furono per tanti anni sgomento dei popoli e mezzo validissimo di oppressione e di servitù, diverranno da quindi innanzi buona difesa d'Italia, e a que' degni capitani che le comandano sarà cessato il sommo cordoglio di spargere l'arte e i sudori per ribadire i ceppi de' lor fratelli. Dico diverranno buona difesa d'Italia, perchè supposto libero il mare, è incredibile in tempo di guerra quale e quanto profitto possa ritrarsi da una buona squadra di legni a vapore, massime in un paese configurato come l'Italia. E di vero, quella squadra adoperata e diretta con accorgimento e opportunità, tiene sempre forniti di armi, di provvigioni, di uomini e d'ogni altra cosa acconcia alla guerra, le fortezze e i luoghi muniti lungo le coste; ed a peggio andare, imbarca e salva le guarnigioni e le artiglierie: e tutto ciò con somma agevolezza e prestezza.

Ma da una squadra copiosa e bene ordinata di legni a vapore si cava in guerra quest'altra specie più notabile di utilità, che consiste a condurre improvvisamente molte migliaja d'uomini e di cavalli e moltissime artiglierie in qualunque punto si voglia, e farli giungere inaspettati ad offendere o il fianco o le spalle dell'inimico: le quali fazioni eseguite spesso e con senno, e validamente ajutate dai popoli in mezzo de' quali succedono, soglion recare, col tempo, danni maggiori e men riparabili d'una o due battaglie perdute.

Tutto questo bene (se Dio ci ajuti) riceverà la difesa d'Italia dalla marineria da guerra napolitana. Ma perchè ciò succeda, conviene che Napoli e la Sardegna non solo si dichiarino amiche, ma senza dimora alcuna strettamente si colleghino; e il patto che le confederi non sia solo d'interessi economici, ma di militari e politici. Chè anzi, a dir vero, nella pratica degli affari di Stato, più malagevole assai delle altre riesce la Lega [180] economica. Per fermo, a volersi due o più popoli stringere e collegare politicamente, basta che i grandi e universali interessi loro sieno nella sostanza i medesimi: ma per la lega doganale, come la chiamano, ricercasi, a poterla subito porre in atto, non solo la professione delle stesse dottrine, ma una parità sì perfetta, ovvero una equivalenza e una reciprocazione sì ben bilanciata nelle condizioni economiche dei paesi collegati, che non è agevole di trovare ed è difficile assai di comporre: senza dire del danno e offesa che recasi inevitabilmente a molte industrie private, alle quali bisogna pure per equità dar soccorso e provvedimento.

A noi non si fa lecito di nascondere più lungo tempo il vivo rincrescimento e la grave e continua preoccupazione che ci cagiona il vedere i Governi nostri così dubbiosi e lenti a promovere fra essi una politica confederazione. Il tardare e il titubare su ciò, sembra troppo pericoloso; e non sappiamo indovinare quel che si aspetti, massimamente dopo i casi e le mutazioni del Governo napolitano. L'Austria stessa non può ragionevolmente dolersi d'una confederazione ordinata con puro carattere difensivo, e richiesta dalla crescente e visibile fratellanza dei popoli. L'Austria, negli editti che manda fuori per interdire l'entrata alle gazzette dell'Italia media, dà titolo di anarchia allo stato nuovo di cose. L'Austria fa ripulsa intera e minaccevole alle domande legali dei popoli del Regno Lombardo-Veneto, e con ciò si discioglie e distacca viemaggiormente dagli Stati della Penisola, e dalle massime e dai principj che li governano. L'Austria ingrossa sì fattamente sul Po le sue truppe, e moltiplica i suoi apparecchi per guisa, che l'Inghilterra medesima ha stimato debito di ricercarla del perchè. L'Austria, interpretando a suo modo i trattati, tentò, mesi sono, d'insignorirsi affatto della città di Ferrara; e sotto colore or di buona vicinanza e amicizia, or di crescere pompa ad un funerale, introduce l'armi sue in Modena e in Parma. Che più? Ciò che al presente succede in Napoli ed in Piemonte, e fra breve succederà nell'altre provincie italiane, eccetto la Lombardia, non fu nel 1820 dannato e colpito dagli anatemi dell'Austria? o le possono forse mancar pretesti e sofismi per pareggiare affatto l'un [181] tempo con l'altro, e implicarli ambidue in una medesima riprovazione? E dopo tanto, non sarà lecito ai nostri Principi di collegarsi per mera difesa propria, e congiungere e ordinare in comune tutte le forze, in quel modo che le menti e gli animi di tutti i popoli loro sono congiunti? Noi ripetiamo con l'ossequio e modestia che ci compete, ma sì ancora con l'istanza e sollecitudine di buoni e veri Italiani, che il collegarsi i Principi nostri politicamente, e con fermo e tenace patto, entra oggidì fra le più manifeste e le più calzanti esigenze della salute d'Italia.

(Dalla Lega Italiana.)

DI NUOVO, DEL MINISTERO NAPOLETANO.

10 febbrajo 1848.

A noi non è facile significare quanto ci gode il cuore di veder chiamato all'ufficio di ministro dell'Interno il cavalier Bozelli, uomo insigne di virtù e di scienza, stato maggiore delle sventure, serbatosi puro ed integro nella povertà, nell'esilio e nella prigionia, e alla libertà e salute d'Italia invariabilmente devoto. Ma oltre a ciò, noi godiamo di tal promozione, perchè ci è sicura caparra che quasi tutto il ministero nuovo napolitano dovrà mutare fra breve. Il cavalier Bozelli non può avere per lungo tempo a colleghi il duca di Serra Capriola, il principe di Cassero e il generale Garsia; tre nomi che non dànno alcuna sufficiente malleveria del loro zelo vivo e sincero per la libertà e per la causa del popolo. Quanto più si vuole intera e perfetta la inviolabilità del monarca e divertere dal suo capo le imputazioni d'ogni mal operato, tanto fa bisogno sicurezza maggiore ed anzi certezza piena dell'animo libero, generoso ed energico dei ministri. Chi ha patteggiato con gli oppressori, e servito o lontano o d'appresso un Governo che ha fatto arrossire l'Italia intera in faccia al mondo civile, non può, non dee sedere nel consiglio del Re. Fratelli Napolitani, sovvengavi spesso il disastro del 1821.

(Dalla Lega Italiana.)

[182]

FILOSOFIA CIVILE ITALIANA.

14 febbrajo 1848.

Noi, sotto questa rubrica, intendiamo d'intrattenere i lettori nell'esame e speculazione di quegli alti problemi sociali e politici, la cui soluzione sembra più specialmente commessa al Genio Italiano ora ridestato: e così compiremo, se l'ingegno e la fatica ci basti, quello che si annunzia nel nostro Programma; l'idea e il disegno, cioè, dell'edificio nuovo civile, a cui tutti i buoni pongono mano. Che se ciò non vien praticato dalla più parte de' giornali politici forestieri, si voglia considerare che l'Inghilterra e la Francia non sono al presente, o non credono essere, in via di profonda trasformazione; e le leggi che si discutono nei lor parlamenti entrano molto di rado nel novero di quelle che si domandano organiche, e sono fondamentali e costitutive. Per lo contrario, chiunque andrà un poco sfogliando i giornali francesi dettati in sul cadere del secolo scorso, vedrà con quanto compiacimento e abbondanza discorrevano e disputavano le teoriche di alta filosofia civile. Ma oltre a ciò, noi non iscorgiamo ragion sufficiente per imitare in ogni qualunque cosa le effemeridi oltramontane. E di più aggiungiamo, che tuttavolta che occorre a quei fogli di entrare ad esaminare i principj (il che avviene pur di frequente), la povertà e incertezza di lor cognizioni si fa manifesta ai meno avveduti. Per la ragione stessa, le massime direttive che nelle questioni cotidiane s'aggirano come spiriti ed elementi vitali di tutto il corpo della scienza politica, sono accolte ed asseverate il più del tempo e dalla più gente alla cieca e per forza di uso. Onde poi interviene che molti e gravissimi errori son mantenuti e perpetuati: e ne porge esempio l'Economia pubblica, intorno alla quale ognun si ricorda il ripetere che hanno fatto i giornali francesi, per tanti anni e con sicurtà e intrepidezza compiuta, abbagli sperticati e falsissimi ragionamenti.

Ma come ciò sia, noi vorremmo nell'animo de' lettori trasfondere parte del convincimento nostro intero e ben radicato; il quale è, che il risvegliamento d'Italia non può non [183] riuscire principio di cose grandi e novissime nella vita sociale del mondo; e che però le fa d'uopo una matura sapienza civile, la qual consiste precipuamente nella cognizione profonda dell'umana natura, e nell'esperienza trita e copiosa dei fatti, purgata e universalizzata al lume delle prime cagioni.

Posto che tale credenza risieda altresì nell'animo della pluralità de' lettori, noi non temiamo con queste nostre dottrine e teoriche di lor parere gente infusa di pedanteria e con indosso la zimarra accademica. Dacchè gli è impossibile a chicchessia di persuadersi che l'idea non debba antecedere al fatto, e che la repubblica umana possa rassomigliare e imitare quella delle api, ove lo istinto insegna misteriosamente ogni cosa.

(Dalla Lega Italiana.)

LA COSTITUZIONE NAPOLITANA.

16 febbrajo 1848.

Re Ferdinando ha, il 10 febbrajo, risoluto di proclamare, ed ha proclamato irrevocabilmente il Patto Costituzionale del Regno delle Due Sicilie.

Temerario sarebbe il portar giudicio formale e definitivo su tanta opera, nella strettezza del tempo in cui siamo. Ciò non ostante, a noi giova di subito dichiarare que' primi concetti che al leggere la nuova Carta Napolitana sonosi affacciati alla nostra mente. Laddove per dar sentenza il cuore entra a parte col raziocinio, i primi pensieri s'appongono forse alla verità meglio che i successivi. E il cuore, innanzi a tutto, ci dice essere la Costituzione del Regno nel suo tutto insieme lodevolissima ed assai liberale, e in parecchie materie entrare innanzi a quella di Francia.

Sotto la rubrica delle Disposizioni Generali, nell'articolo 9, si assicurano al Regno le franchigie comunitative e l'elezione libera dei reggitori del Municipio; e non si assegna [184] a tali diritti altro limite, salvo quello di dover lo Stato vigilare la conservazione del patrimonio comune.

Nell'articolo 29 della stessa rubrica, il secreto delle lettere vien dichiarato inviolabile. Lode a Dio! L'Italia potrà vantarsi di aver pòrto al mondo civile questo esempio salutare di riconoscere come colpa di Stato l'apertura delle lettere d'ovunque vengano, da chiunque scritte. Tanto tempo ha dovuto tardare questo natural diritto dell'uomo a trovare suo luogo nella legge fondamentale degli ordinamenti politici!

Nel capitolo III, che risguarda in peculiar modo la Camera dei Deputati, le due grandi questioni da più anni agitate in seno dei parlamenti francesi sono risolute in favore della libertà. Nel Regno, il solo censo non darà titolo di elettore nè di eleggibile, ma eziandio i pregi dell'intelletto. Nel secondo, terzo e quarto paragrafo dell'articolo 56, si statuisce che i socj ordinarj dell'Accademia Borbonica e dell'altre regie Accademie, e i cattedranti titolari nella R. Università degli studj e ne' pubblici Licei autorizzati da legge, ed all'ultimo i professori laureati della R. Università degli studj in qualsia specie e maniera di scienze, di lettere e di arti belle, sono tutti elettori. E sono poi eleggibili, conforme si determina nel paragrafo 2 dell'articolo stesso, tutti coloro che hanno seggio nelle tre R. Accademie della Società Borbonica, i cattedranti titolari della R. Università, e in genere i socj ordinarj delle altre R. Accademie.

L'altra conquista di libertà viene sancita dagli articoli 58 e 59 del predetto capitolo. Si decreta nel primo, che sono elettori e sono eleggibili tutti i pubblici magistrati e ufficiali, purché inamovibili; e nel secondo, che gl'Intendenti, i Sotto-intendenti e i segretarj generali d'Intendenza praticanti gli ufficj loro, mai non potranno essere nè elettori nè eleggibili.

Il censo che debbe investire altrui del diritto di eleggere ovvero di essere eletto, verrà più tardi definito e fermato da quella legge che porrà norma e governo a tutti i particolari delle elezioni. Ma noi, così dalle liberali disposizioni dei paragrafi citati, come dalla fiducia che abbiamo grandissima nel libero animo di chi intenderà a compilar quella legge, [185] non dubitiamo che il censo prescritto a condizione primaria ed universale sarà tenue quanto si possa.

Al Re appartiene la più splendida prerogativa de' Principi, il diritto cioè di far grazia. Ma non potrà, ciò non ostante, valersi di tale nobile sua spettanza inverso i ministri condannati, se non per domanda espressa di una delle due Camere legislative. Alla risponsabilità dei ministri, affine di bene determinarla, e quando occorre, metterla in atto, provvederà una legge speciale. Ognun sa che tal subbietto non è fuori di controversia in verun paese costituzionale; e stringerlo tutto dentro una legge assai chiara e assai praticabile, è faccenda malagevole ed implicata.

Queste a noi sono comparse le parti della Costituzione e più nuove e migliori, costituendo paragone fra essa e la Carta francese, la quale il legislatore napolitano ha scelto a solo modello suo. Ci spiace che non gli abbia gradito di seguitarla in più cose di gran rilievo, e segnatamente in ciò che spetta alla religione. Possibile, che nella contrada ove più volte il popolo insorse per non aver sul collo il funesto e miserando giogo della Inquisizione, si voglia ora decretare una intolleranza compiuta inverso di tutti i culti? Speriamo che il tempo farà sentire al Monarca piissimo, nessuna cosa discordar tanto dallo spirito del Vangelo, quanto la intolleranza, pigli ella qualunque colore, armisi di qualunque ragione. Trista cosa è altresì vedere le leggi di reprimento supplite dalla censura per ogni scritto che s'attiene a religiose materie.

Le categorie prescritte alla scelta dei Pari, sembrano troppo anguste, e da riempiere l'alta Camera di uomini soverchio attempati.

Una grave omissione da non potersi tacere, si è senza dubbio la istituzione dei giurati negletta. Comportisi per la giustizia ordinaria; ma per gli abusi di stampa, noi reputiamo fermissimamente, che dove i giurati non danno sentenza, gli scrittori non hanno guarentigia vera e proporzionata, e i pericoli dell'ufficio loro sono troppi ed esorbitanti. A rispetto della stampa, la massima che può e dee governarla equamente è sol questa: la stampa è organo dell'opinione; la sola opinione può giudicarla.

(Dalla Lega Italiana.)

[186]

D'UNA DIETA ITALIANA.

16 febbrajo 1848.

Non v'è Lega e Confederazione durevole al mondo, che non si compia e non si mantenga con una Dieta. Perchè, unendosi e stringendosi i popoli per lungo tempo, crescono gl'interessi e i negozj comuni, a tutti i quali volendo dar sesto con mutua soddisfazione, occorre adunarsi a certi tempi e discutere. Pertanto, la Confederazione Italiana avrà essa pure una Dieta; e se i Principi nostri vorranno affrettarsi ad assecondare il voto unanime delle provincie confederande, saviamente faranno a mostrare all'Europa la volontà ferma in cui sono di collegarsi, principiando dall'istituire una Dieta. Nessun pronunziato di dritto pubblico, nessun articolo di trattato può loro interdirlo; e intanto l'impressione che in tutte le menti e in tutti gli animi recherebbe un tal fatto, appena si può immaginare. Ma perchè dalla parte de' nostri popoli quella impressione viva e profonda perseverasse, e la Dieta si mantenesse forte e autorevole, ognun comprende che in lei non dovrebbero congregarsi solamente i ministri plenipotenziarj di ciascun governo della Lega.

Qual paese in Europa era meglio disposto della Germania a entrare in istretta confederazione? Certo nessuno. Benchè spartita e quasi direi sminuzzata in numerosissimi Stati e feudi, pure il nome soltanto e la dignità quasi inerme dell'imperatore l'avea per secoli tenuta in certa unità, ed apparecchiata a ricevere un modo e una forma più salda e più permanente di vita comune. A tutte quelle mutazioni e divisioni intestine che avea cagionato la guerra terribile dei trent'anni, e poi l'ambizione della casa di Brandeburgo e il declinare continuo dell'autorità dell'impero, ponea rimedio e compenso il rinnovamento dello spirito antico alemanno; il quale, dalla metà del secolo scorso, invase prima le cattedre e le accademie, quindi comparve nella politica, ed ebbe suggello dal sangue abbondantemente versato nei campi di Lipsia. Di tutto quell'ardor nazionale fu erede e signora la nuova Dieta di Francoforte, e niuna cosa [187] parea doverle tornare difficile per istringere in un sol volere e in un sol patto di fratellanza la gran famiglia germanica. Ma tanto bene mancò affatto per questa cagione, che nella Dieta di Francoforte, oltre al prevalere sfacciatamente i forti sui deboli, fu rimossa eziandio qualunque rappresentanza diretta dei popoli. Da ciò avvenne che a poco a poco i ministri dei Principi non ebbero altra cura nè altro proposito se non di allargare le regie prerogative, e combattere di concerto il desiderio di libertà che in ogni parte ripullulava.

Simili errori non commetterà del certo la Dieta Italiana, perchè ai Principi nostri la libertà non fa più spavento, ed ei si pregiano di regnare col suffragio sincero e continuo dell'opinione. Oltrechè, una Dieta Italiana, come delibera a nome delle provincie collegate, così dee volerle rappresentare nel vero essere loro; e come in esse la legislatura è spartita fra il re e i mandatarj del popolo, similmente la legislatura della Dieta dee procedere da ambedue quelle fonti di autorità. Del modo parleremo altra volta un po' più alla distesa, essendo materia non pur di molta ma di suprema importanza. Deh! affretti il giorno fortunatissimo, che in Roma e nelle stanze del Campidoglio salutino tutti i figliuoli d'Italia la prima Dieta della Nazione. Trenta secoli sono corsi per preparare e maturare quel giorno.

(Dalla Lega Italiana.)

QUESTIONI COSTITUZIONALI.

I.

18 febbrajo 1848.

Napoli e il Piemonte si son risoluti. Avremo, in sostanza, la Carta Francese con parecchie modificazioni, e non tutte saranno ammende e perfezionamenti. In Toscana, ove il sentire italiano è più antico, se non più profondo, si voleva fare schermo e difesa da tanta invasione straniera. Ma il torrente trascina tutti, e i giornali di colà cominciano a chiedere essi medesimi una Costituzione sull'andare della francese. Nè la [188] ragione che adducono è certo da riprovare, conciossiachè essi pensano doversi in Italia provvedere sopra ogni cosa alla uniformità delle istituzioni. Ma per Dio, facciasi punto una volta; e per tutto ciò che rimane ancora ad edificare, vogliasi avere in mente l'indole nostra, la nostra storia, le tradizioni, i costumi, le circostanze speciali. Mai questo Giornale non si stancherà di ciò ripetere a quegl'Italiani che ora s'adoperano a riformare ed a ricomporre la vita politica della Nazione. Noi copiamo modelli i quali non sono essi medesimi veri esemplari, ma imitazioni in gran parte, e talvolta racconciature e mosaici. Meno male, se di que' modelli fosse lunghissima la durata, compiuta l'esperienza, sicura la prova, l'effetto bellissimo e fortunato. E per fermo, in Inghilterra, ove tutte queste cose in gran parte si avverano nella sua vecchia costituzione, ben si comprende la tenacità di coloro i quali non ne vorrebbero cambiare un jota. Ma l'Inghilterra è ammirabile più che imitabile; e per potere senza pericolo traslatare nel continente le sue istituzioni, occorre anzi tutto coglierne la ragione profonda ed universale, e scordarsi affatto le forme speciali che vestono, e sì il valore che assumono dalle rispondenze e armonie loro col tutto. Noi dubitiamo forte, che ciò abbiano saputo far sempre i Francesi, de' quali ci siamo resi fedelissimi copiatori. Ma come ciò sia, gli è certo, noi ripetiamo, che più di una delle istituzioni moderne francesi non hanno per sè nè la prova del tempo, nè quella degli ottimi risultamenti, nè infine l'alta ragione speculativa.

Quando Luigi XVIII costituì la Camera Alta, fu da questo pensiero condotto, che in Francia la democrazia traboccava d'ogni parte, con troppo rischio e danno del trono e delle istituzioni monarchiche. Sperò farle argine creando una nobiltà non più cortigiana e feudale, ma essenzialmente civile e politica. Quindi imitò al meglio la Camera dei Lordi Inglesi; e come in costoro è l'eredità e la ricchezza, dètte a' suoi Pari l'eredità e gli emolumenti. Nei Lordi Inglesi è un diritto di giudicatura rimasto loro molto naturalmente dalle antiche prerogative feudali. Luigi XVIII, senza badar più che tanto alle differenze de' tempi e de' luoghi, attribuì a' suoi Pari, a un dipresso, quel diritto medesimo. In Inghilterra ogni cosa [189] ha dell'inopinabile e del singolare; e inopinabile e singolarissima cosa si è di vedere, che un'aristocrazia superba e d'origine affatto feudale abbia investito la Corona della facoltà di chiamare di quando in quando alcuni privati a sedere nel Parlamento dei nobili, per sola virtù e a titolo solo di pregi individuali. E questo pure imitò Luigi XVIII. Ma in Inghilterra i ministri, posti a rincontro d'un Ordine così potente per grado, ricchezza, clientela e opinione, mai non abusano (e già nol potrebbero) del diritto di creare nuovi Lordi. In Francia, per lo contrario, non v'ha ministero quasi, che in ciò non trasmodi, perchè gli mancano sufficienti ritegni e abituale prudenza.

Sopravvenne la rivoluzione del 30. Quell'aristocrazia così un po' svecchiata e tenuta su coi puntelli, subito andò in dileguo, e con essa perdè la Camera Alta il suo carattere d'indipendenza: per restituirle il quale, e accrescerle considerazione e valor morale appresso le moltitudini, bisognava qualche partito reciso; come sarebbe stato che la Corona scegliesse i Pari sulle terne offertegli da qualche Corpo elettivo; ovvero, che tutti i primi ufficiali e magistrati del regno e altre somme dignità fossero Pari di proprio e natural giure, e come un ultimo premio e una civica corona che lo Stato lor serba, senza dover mendicare suffragi nè dal principe nè dal popolo. Ma nè queste nè altre combinazioni cercaronsi, e niuna legge fu vinta e nemmanco proposta per moderare e ristringere l'uso del diritto d'illimitata nominazione. Restò poi nei Pari, come per addietro, la facoltà giudiciaria; e appresso un popolo amicissimo dell'uguaglianza civile perfetta, e avverso ed intollerante d'ogni forma e guisa di trattare i giudicj la qual sembri uscire dell'imparzialità e ponga eccezione alla legge comune, mantennesi un tribunale separatissimo dalla giustizia ordinaria, e cui manca tuttora una legge scritta circa al suo modo determinato e speciale d'intavolare e condurre i processi che à ufficio d'imprendere.

A noi sembra, dopo ciò, che si convenisse andar più a rilento nell'imitare simili cose; le quali, come vedemmo, sono copie rimpastate e ricomposte all'infretta, e come davano i casi.

Ma v'à di più: della Costituzione inglese medesima, [190] la parte ancor meno ferma e meno vitale è, del sicuro, la Camera dei Signori. E per vero, lasciando stare l'alta questione dei majoraschi e il diritto legislativo trasfuso da padre in figliuolo, questo è certo al presente, che la Camera dei Comuni, fornita com'è in guisa tutta particolare e propria della facoltà di ricusare le imposte, e fatta indipendente e sincera dall'ultimo bill di riforma, prevale oltre misura sulla Camera aristocratica, e l'equilibrio fra esse due non è più che una mostra ed una apparenza. Ciò prova che in tutta Europa il modo di costituir bene una Camera Alta, e dotarla quanto bisogna d'indipendenza e di morale efficacia, è problema non risoluto; e potea forse recare un profitto non lieve a tutta la civiltà il prendere tempo per consultare l'ingegno degl'Italiani. Ma noi riveriamo ora la legge quale ci viene promulgata e largita; e solo preghiamo novellamente tutti coloro che intendono a sviluppare e perfezionare i nuovi istituti, a credere meno alla sapienza straniera, e alquanto di più al naturale criterio e alle fortunate ispirazioni del Genio Italiano.

II.

25 febbrajo 1848.

A noi non cadde in mente giammai di sperare che le nuove Costituzioni italiane fossero differentissime dalle forestiere, e sapevamo assai bene che di necessità in molte cose doveano entrambi rassomigliarsi. Neppure ci corse in pensiere di confondere insieme e artatamente unificare gl'istituti comunitativi coi politici e universali. Ciò che desiderammo con fede, fu solo che il senno italiano avesse agio di meditare e dare sentenza, non potendo alcuno pronunziare con sicurezza, che non ne sarebbe uscita veruna soluzione giudiziosa ed inaspettata dei proposti problemi.

Ad ogni modo, ora il fatto è consumato, e convien solo badare che presto sorgendo desiderio e necessità di mutarlo, la cosa si adempia per vie pacifiche e con certo ordine prestabilito. Di ciò ha mosso parola il nostro Giornale di lunedì, e prosiegue oggi a discorrerne come di argomento gravissimo, e forse prossimo all'applicazione. Veramente, a noi recherà [191] sempre gran maraviglia la trascuranza dei moderni in tale subbietto, parendoci che tra l'esigenze prime e imperiose della vita odierna civile stia il ben provvedere alle innovazioni maggiori e insieme non evitabili, le quali uscendo da ogni termine ordinario, hanno bisogno di straordinarie disposizioni: e però gli statuti fondamentali debbono essi stessi aprire a quelle il cammino, e farle giungere al termine con mezzi legali e proporzionati all'intento. Che tal pensiere non fosse negli antichi legislatori, non è da stupire; conciossiachè nella più parte di loro stava la ferma credenza di poter fondare un edificio immutabile; e quando il tempo consumava o alterava sostanzialmente una forma di repubblica e di governo, o solevano accusarne la inemendabile caducità e corruzione delle faccende umane, o procacciavano, per solo rimedio, di ritirarle, come Macchiavello insegna, verso i loro principj.

Ma pei moderni non va così; sapendosi oggi da ogni ordinatore di leggi, che ne' corpi sociali umani è una vita profonda, la qual bisogna o che sempre si svolga e trasmuti, o che si vizii e perisca. Quindi, ad essi occorre di operar sempre due cose. La prima, di comporre intellettualmente una rappresentazione e un prototipo della perfezione sociale; l'altra, di considerar bene nell'uomo quel che è mutabile e trasformabile, e quello che no. Nella prima, il divario appunto da Platone ai moderni è questo, che la repubblica di Platone è un archetipo assoluto ed immobile; dove quello degli Statisti moderni, se vuol rispondere ai fatti e servire alle applicazioni, debbe uscir sempre di quiete, e procedere senza mai fermarsi inver l'assoluto d'ogni eccellenza. L'altra cosa da operare (che è il ben discernere dentro l'uomo, e però nella comunanza umana, ciò che muta e ciò che perdura) dee menare il legislatore a ben distinguere altresì negli istituti e ne' codici la parte fondamentale e perpetua, da quella che di mano in mano si va alterando, e che può peranche bisognare di larghissime correzioni ed innovazioni.

Da ciò segue, che il dare, come si usa negli odierni Statuti, ai due Parlamenti facoltà e arbitrio di abrogare certune leggi e produrne delle nuove, non basta; perchè quelle leggi non valgono ad abolire alcun difetto essenziale che si scoprisse [192] nei fondamenti medesimi del sociale edificio. Nè questo, d'altra parte, si dee correggere con tumulto e violenza, ma con que' mezzi estraordinarj, e non però illegali e disordinati, che la sapienza stessa legislatrice ha definiti e previsti.

Pur l'Inghilterra, solenne maestra al mondo civile del saper rispettare la legge e porre l'ordine allato alla politica agitazione, ha rischiato, or fa quindici anni, di soggiacere a sanguinosi sconvolgimenti, non trovando ne' suoi istituti alcun modo legale e prestabilito di mutare affatto la forma della sua Camera dei Comuni. Nè il partito fu vinto nel Parlamento dei Lordi per le vie ordinarie, ma per la minaccia continua delle moltitudini di rompere e ammutinarsi, e correre ad ardere gli antichi castelli, e devastare i tenimenti, e forse ucciderne i possessori.

Provvedano, dunque, i nostri legislatori perchè in Italia non si corra un simigliante pericolo; il quale tanto riuscirebbe più grave appo noi, quanto ai nostri Statuti manca il venerando suggello dell'antichità. E perchè appunto non sia impossibile a questo suggello di segnare a grado a grado le leggi e le istituzioni umane, e farle spettabili e come sacre agli occhi di tutti, conviene fin da principio saper piegare quelle leggi e quelle istituzioni a ricevere la novità in modo avvisato e premeditato. In tal guisa, ed unicamente in tal guisa, potrannosi conciliare i profitti e i risultamenti dell'innovazione e della conservazione, e le leggi saranno sempre e antichissime e modernissime. Nè certo si può deplorare abbastanza quell'abito e facilità che ànno molte nostre popolazioni di poco pregiare la legge e (potendo) di eluderla; come, per lo contrario, non si dà fondamento migliore alla perfezione civile, che il grande ossequio e la somma osservanza inverso la legge. Ma perchè questa giunga ad infondere dentro gli animi tanta e sì salutevole riverenza, occorre non già che permanga immutabile (la qual cosa non si può fare), ma bene ch'ella sia inviolabile, e nessuna forza e nessun arbitrio la manometta: ad ottenere il qual fine (noi replichiamo), ricercasi che tutte le novità, eziandio sostanziali e fondamentali, emanino dalla legge medesima.

L'antichità procacciava di mantenerla inviolabile circondandola [193] di religione, e convertendo gli umani decreti in divini pronunciati. Questo significarono, per mio giudizio, i portentosi natali dei prischi legislatori, e Temide fatta generare direttamente da Giove, e gli arcani colloquj di Numa con la ninfa Egeria, e la scienza del giure romano data a custodire al collegio dei pontefici. Nel medio evo, poi, appresso molti popoli la legge serbavasi immobile per virtù di consuetudine e forza di autorità, e per certa timidità nel cercare il meglio e poca speranza di ritrovarlo. Oggi, di tutto ciò non sussiste quasi vestigio. La legge non può altrimenti rimaner venerabile, salvo che consonando con la ragione, che è legge suprema, e veramente assoluta e immutabile. La consuetudine o fu rotta o non basta, e forse anche è sospetta allo spirito indagatore del secolo. Progredire si vuole a ogni costo, e correggere e perfezionare si spera con fiducia e coraggio; e dove i modi usati e regolari fanno difetto, o presto o tardi si abbracciano i disusati ed irregolari. A rimovere quest'ultimo danno e pericolo, il rimedio debb'essere suggerito sempre dalla Costituzione medesima; e tutte quelle in cui non si legge, non dubitiamo di chiamare incompiute.

A noi par, dunque, che i nuovi Statuti italiani provvederanno sapientemente all'indole e all'esigenze universali dei tempi, e molto più alle condizioni singolarissime dell'Era grande che tutti iniziamo nella nostra comune Patria, se verranno determinando a quali lunghi intervalli, da che forma di consessi, con quante prove e dibattimenti, a che numero di suffragi potrà discutersi e vincersi una proposta la quale intenda o di mutare o di aggiugnere alcuna cosa di momento alla legge fondamentale. A breve andare, noi saremo imitati da tutta Europa.

(Dalla Lega Italiana.)

AGLI UNGHERESI.

18 febbrajo 1848.

È vostro desiderio costituirvi in grande e forte nazione; e noi pure il vogliamo, o popoli del Danubio. Voi vi sdegnate [194] che al progresso e spiegamento delle vostre virtù sociali faccia ostacolo la forza straniera; e questo move del pari lo sdegno nostro. Voi volete la libertà; e noi similmente. Avete fede e certezza di conseguirla; e noi pure l'abbiamo. Se dunque i desiderj, gli affetti, il fine, le speranze sono le stesse, l'Italia e l'Ungheria non che vivere amiche, debbono giovarsi e schermirsi reciprocamente. All'Italia fa bene ogni opposizione vostra legale, ma energica e pertinace; come a voi torna utile soprammodo tutto il presente moto della Penisola, il quale impaccia, affatica e consuma la prepotenza straniera. Or via dunque, levatevi su, e al vostro ardore d'indipendenza e di libertà crescete l'impeto e l'intensione. Fate soprattutto, che le classi e gli ordini privilegiati cedano spontaneamente ciò che il tempo a non lungo andare strapperà loro di mano. Perchè la legge preeminente e massima che governa i casi dell'epoca nostra (ricordatelo, Ungheresi), è legge di tutta uguaglianza. Non vi salverà il Danubio, non i monti Carpazj, non la lingua e i costumi separatissimi dal rimanente d'Europa. La democrazia toccherà e invaderà il vostro suolo; ed anzi, buona parte l'ha invaso, e nel chiuso animo delle moltitudini vostre di già trionfa. Onde i privilegi feudali permangono appresso di voi molto simili a quelle poma del lago Asfaltico, che nell'esterior buccia serbano colore e freschezza, ma nel midollo sono polve e carbone.

Profittate, Ungheresi, dell'aura vivace e feconda che spira d'Italia, e accendetevi singolarmente di vergogna e dispetto considerando che i vostri vassalli, ed anzi voi stessi in gran numero, serviate ancora d'istrumento e di braccio all'oppressione e alla tirannia. Veri e robusti rampolli del sangue Magiaro, come non arrossite che per le vie di Milano, di Padova, di Pavia, di Brescia, alle scimitarre austriache sieno tramischiate le ungariche, e le vostre mani grondino sangue innocente? come non arrossite di vibrare il ferro nel petto di giovani il cui delitto è simile al vostro, e il cui desiderio è quel medesimo che vi fa eloquenti e animosi nelle vostre diete? Generoso empito di Cavalleria vi mosse, già tempo, a salvare la casa di Ausburgo: movetevi oggi a salvare l'onor vostro medesimo; e a chi vi ricordi la fedeltà antica [195] e gli allori in comune raccolti, fieramente rispondete: — Cavalieri siamo, ma non carnefici. —

(Dalla Lega Italiana.)

LA COSTITUZIONE TOSCANA.

19 febbrajo 1848.

La Costituzione Toscana è promulgata. Al Granduca avrebbe gradito pensarla e meditarla più lungamente; ma la impazienza non al tutto ragionevole di moltissimi, e il dubbio e sospetto che già correva non si volesse, sotto colore di fare opera affatto toscana, privare que' popoli d'alcune notabili guarentigie, ha mosso il Governo ad affrettare la pubblicazione del patto fondamentale. Mal si può stans pede in uno pronunziare giudicio alquanto sicuro intorno ad opera di tanto e sì grave momento. Pur cediamo al desiderio e al piacere di subito significare la molta soddisfazione ch'ella ci reca nel suo beninsieme; e a noi non par temerario di dire ch'ella supera di bontà eziandio la Carta Napolitana: la qual nostra lode ha però sempre rispetto alle condizioni in cui sonosi posti senza necessità il Legislatore Napolitano e il Toscano, d'imitare al possibile il patto costituzionale francese.

Noteremo in breve i pregi principalissimi della Carta Toscana; dico i proprj e speciali, essendochè gli altri sono comuni alla maggior parte degli Statuti rappresentativi odierni.

Le parole del Proemio ci sono sembrate bellissime, e tanto degne d'un Principe generoso, quanto sincere e piene d'affetto. Nè in quelle parla soltanto il Principe di Toscana, ma l'uno dei contraenti della Lega Italiana, ma il caldissimo cooperatore della rigenerazione nostra comune; imperocchè Egli dice, di volere col nuovo Statuto procurare a' popoli quella maggiore ampiezza di vita civile e politica, alla quale è chiamata l'Italia in questa solenne inaugurazione del nazionale risorgimento. E zelante e religioso Italiano si mostra pure [196] laddove conchiude raccomandando l'opera sua al Signore Iddio, e rafforzando la preghiera di quella benedizione che il Pontefice della Cristianità spandeva poc'anzi sull'Italia tutta.

L'art. 6 del titolo primo registra fra i principj del Giure pubblico dei Toscani la libertà del commercio e dell'industria: ciò fa suggello all'antica saviezza di quella contrada, ove non si credè mai che le ricchezze e le industrie crescessero per privilegi ed inibizioni. Ma bello è vedere i dogmi dell'Economia Pubblica conformarsi alle nozioni del dritto universale, e prender luogo alla perfine nella legge fondamentale d'un popolo.

Nel titolo terzo, fra le pertinenze dei Senatori non si annovera il far giudicio di qualunque delitto di Stato. E questa pure è sapienza toscana e degna del nipote di Leopoldo I, che osò abolire per fino il nome di crimenlese. Già lo Statuto napolitano avea circoscritta la facoltà giudiciaria dei Pari, applicandola unicamente ai reati di alto tradimento di cui possono essere imputati i componenti di ambedue le Camere legislative. Ora lo Statuto di Leopoldo II annulla affatto quella particolare spettanza, e vuole, con alto senno, che una sola sia la giustizia, uno il procedere di lei per tutti e per ogni ragione di colpe. Se non che, fa eccezione a questo la responsabilità dei ministri, dei quali potrà essere accusatore il Consiglio generale e solo giudice il Senato.

Nell'articolo 30 del paragrafo secondo dell'articolo terzo, è scritto: il possesso, la capacità, il commercio, l'industria conferiscono al cittadino toscano il diritto di essere elettore, ai termini e coi requisiti della legge elettorale. Non il solo censo, adunque, porgerà titolo di elettore. Tanto promette lo Statuto; d'ogni rimanente provvederà la prossima legge. E ben fa lo Statuto a non preoccupare in gran parte la legge stessa, la quale versando sopra materie implicate e difficili, dee potere liberamente informarle e coordinarle. L'articolo, poi, 39 del paragrafo terzo del medesimo titolo, ne lascia intendere che la legge elettorale vorrà escludere tutti coloro il cui ufficio è salariato: altra ottima disposizione dello Statuto.

Nel titolo VII provvedesi alla Lista Civile. Molte cose attinenti verranno discusse e deliberate dai Corpi legislativi. [197] Durante il regno del Granduca attuale, è mantenuta alla R. Corte l'annua assegnazione della quale è ora dotata, non ostante l'accaduta reversione di Lucca al Granducato, e la conseguente perdita delle signorie di Boemia. È lodevole ed onorando vedere esso medesimo il Principe metter limite ai proprj assegni, e far sentire con modestia a' suoi popoli quel che ha perduto in lor beneficio.

Ma la parte nella quale lo Statuto toscano sopravanza oltremodo quello del Regno, risguarda le materie di culto, intorno alle quali poco cede alla Costituzione stessa francese. Il primo articolo del titolo primo decreta, che la religione cattolica-apostolica-romana è la sola religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono permessi conformemente alle leggi. Dal secondo articolo si decreta, i Toscani qualunque sia il culto al quale s'addicono, essere tutti uguali al cospetto della legge, e tutti venire ammessi egualmente ai civili uffici ed ai militari. Se non andiamo errati, ciò importa la emancipazione compiuta degl'Israeliti, e il poter essi sedere nelle assemblee ed esercitare ogni qualunque diritto politico. Nel qual giudicio siam confermati dai termini e dalle parole del giuramento, non introdotte a caso dal savio legislatore nello Statuto fondamentale. Infine, nell'art. 6 dichiarasi che le leggi sulle mani-morte sono conservate.

Da ultimo, non possiamo non avvertire con compiacenza, che tanto manca che il Governo toscano concepisca ombra e sospetto dell'armi cittadine, ch'egli conclude questa promulgazione del Patto costituzionale con affidarlo in modo espresso e particolare alla vigilanza e al coraggio della Guardia Civica, sua naturale tutela.

Per dire delle imperfezioni della grand'opera, noteremo, fra l'altre cose, le poco avvedute disposizioni del titolo VIII ne' primi suoi cinque articoli. La materia loro è il patriziato toscano e gli Ordini cavallereschi. A noi non par bello del sicuro, nè utile alla patria comune, abolire le tradizioni e gli onori delle grandi famiglie storiche. Ma si convien trovare alcun modo dicevole ai tempi e ai costumi per mantenere ad esse famiglie il lustro, l'autorità e la considerazione che loro competono: i soli stemmi e titoli baronali e le onorificenze [198] di corte non giovano, ed anzi operano effetto contrario. Similmente, noi non vorremmo annullare del tutto gli Ordini antichi cavallereschi, perchè ogni cosa la quale ha lunghissima pezza durato e mandato splendore di gloria, ha in sè un'efficienza di bene e un elemento di vita civile. Però, innanzi di sradicare e spiantare le istituzioni, deesi venir ricercando se non vi fosse guisa e spediente di trasformarle e di rinverdirle: ma chi le serba quali già furono e più non possono rimanere, egli per certo gitta l'opera e la fatica.

Osserveremo ancora, a rispetto dell'assemblea dei Pari, che se nella Carta napolitana le categorie entro le quali dee cadere la scelta del Re sembrano troppo anguste, quelle assegnate dallo Statuto toscano largheggiano tanto, che la legge viene a dire poco più di questo: non sceglierai persone volgari nè idiote.

Ma usciamo delle censure, e torni l'animo riconoscente a encomiare con orgoglio italiano la saviezza e larghezza legislatrice del Secondo Leopoldo.

(Dalla Lega Italiana.)

DELLA PROSSIMA LEGGE SULLA LIBERTÀ DELLA STAMPA.

19 febbrajo 1848.

I tempi e gli avvenimenti s'affrettano tanto, ed è così veloce, per non dire precipitato, il compilar delle leggi che fa ora l'Italia, che la stampa cotidiana non trova spazio da prevenirle nè la pubblica opinione da giovarle col suo consiglio. Ma non per tanto a noi si menoma punto il dovere di ciò tentare ed effettuare, come il possiamo, e per la tenue porzione che ci compete: ed ora che il re Carlo Alberto ha commesso ad uomini specchiatissimi, di presentargli tra breve la proposta d'una legge intorno alla stampa, noi ci facciamo debito rigoroso di subito manifestare la nostra mente intorno a quella gelosa materia, con l'usata sincerità e moderazione.

[199]

Ognun sa che l'Inghilterra è in Europa il paese classico della libertà della stampa. Nulla cosa, dunque, si può suggerire al legislatore tanto savia ed utile, quanto di accostare l'opera sua alle norme che son seguite in quell'isola. Se non che, egli dovrà convertire in decreto scritto e sancito gran parte di quello che in Inghilterra vennesi costituendo per virtù di consuetudine. Chi sparla della stampa (e sono moltissimi, e non d'ingegno mediocre) e ardisce accusarla dei mali di cui s'affligge la nostra età, guardi e mediti sull'Inghilterra, in cui, insieme con la libertà compiuta di stampa, crebbe, invece di affievolirsi, il rispetto alle leggi, la bontà dei costumi, la pietà inverso Dio e inverso gli uomini.

Non giudichiamo, poi, ad un tratto che l'Italia non sia capace di tanta larghezza. Ella n'è capace (lasciatemi dire) più forse della Francia medesima; perchè tutto quello che al presente veggo in Italia, mostrami un popolo risorto gigante, e a cui l'uso della libertà e della vita politica sembra non essere venuto meno pur mai, e che gli torni a mente siccome cosa dimenticata, ma non ignorata. V'ha nell'indole degli Italiani alcun che di grave e di positivo che salvali dalla furia e dall'esagerazione: il buon senso pratico similmente li ajuta a non abusare del dritto; e il sentimento vivo del bello e del grande, li fa inclinevoli a rispettare ciò che è santo e ciò che è degno. Nel 1820 durò appresso i Napolitani per nove mesi la libertà della stampa; e fra gente tanto impetuosa, in tempi così infiammativi, a vista di palpabili tradimenti e spergiuri, la stampa non traboccò e non fece scandalo.

Comunque ciò sia, si consideri almeno accuratamente il principio che in Inghilterra fa largheggiar tanto sul fatto della pubblicità: e il principio è questo, che non solo il manifestare la propria opinione è diritto naturale ed incancellabile, ma che è la prima e più vigorosa e feconda efficienza del bene comune. Onde compete al legislatore, a stretta ragione di debito, di agevolare al possibile e in tutte maniere la piena e libera significazione del pensiero. Da ciò procede che in Inghilterra non si domandano ai giornalisti depositi di gravi somme, e in quella vece studiano i legislatori [200] di sminuire, quanto è fattibile, le spese del bollo. Da ciò procede che non è posto quivi in arbitrio di alcun ministro il ripigliare agli impressori le lor patenti e chiudere le loro oficine.

Da ciò procede che non pure son tollerate colà le stampe le quali toccano gli ultimi termini del diritto, ma eziandio quelle che li oltrepassano: e però i processi per delitti di stampa sono radissimi, poichè la Nazione e il Governo serbano fede nelle forze del vero e nell'universale buon senso; e conoscono per lunga prova, che la stampa esercitando la sua medesima libertà, imbriglia e corregge a grado a grado sè stessa; e ciò non facendo, perde di autorità e di credito.

Ad ogni modo, se ancora in tale materia gradisce al Governo Sardo di calcar le orme della legislazione francese, piacciagli almeno di non mozzarla nella parte sua più vitale e che inchiude la massima delle guarentigie: noi vogliam dire, il condurre i giudicj dei delitti di stampa con l'intervenimento e partecipazione dei cittadini giurati.

Sieno pure i giudici inamovibili e de' più integri. Da chi mai dipende il lor tardo o spedito salire alle superiori dignità? dal Governo. Chi dà loro segni cospicui di parzialità, ovvero indizj e prove di malumore e allontanamento? il Governo. D'altra parte, da chi move l'accusa contro gli scrittori imputati? dal Governo. Chi s'offende quasi sempre, di chi si sparla, contro chi s'imperversa dagli scrittori nelle stampe incolpate? contro il Governo. Troppo, adunque, è difficile la imparzialità dal lato de' giudici, e molto manca perchè essi intendano al punto la ragione e i diritti dell'opinione, e sappiano, per così dire, trasfondersi appieno ne' sentimenti e ne' pensieri del popolo. Ma oltre di ciò, non v'ha nulla sotto il cielo, nulla nella vita degli uomini di così indefinito ed indefinibile quanto il pensiero; e però l'espressione sua non mai verrà sottoposta con esattezza e con dirittura alle fredde disposizioni e circoscrizioni di qual legge si voglia. Di quindi sorge la massima nostra, che l'opinione soltanto può dar giudicio delle incolpate opinioni.

Noi speriamo pertanto, che alla saggezza dei consiglieri del Re non isfugga quest'alta e vera necessità di concedere, pei delitti almeno di stampa, la guarentigia preziosa dell'intervenimento [201] de' cittadini siccome apprezzatori e giudici del valor morale del fatto.

Ma per sola una cosa noi supplichiamo ed esortiamo, più che per qualunque altra, i degnissimi compilatori della Legge reprimente gli abusi di stampa; e ciò è di rimovere affatto dalla proposta di essa legge qualunque determinazione e parola la qual sembrasse voler prendere a sindacato e porre a materia di giudicio, non che i fatti patenti e già consumati, ma eziandio le tendenze e le propensioni degli scrittori. Conciossiachè, appresso dei tribunali cotesta voce tendenza piglia un sentimento e un significato così incerto e così inquisitorio nell'esercizio e nell'uso, e tanto nelle applicazioni divien vessatrice ed arbitraria, da movere a indignazione giustissima chi medita un poco i misteri e la natura profonda e inviolabile della coscienza umana. Applicata poi quella voce a delitti di stampa, tanto cresce e moltiplica maggiormente la sua tristizia, quanto son più nascoste e difficili ad affermare e determinare le cupe e tacite macchinazioni del pensiere e della parola.

(Dalla Lega Italiana.)

D'UNA CROCIATA DEI RUSSI.

21 febbrajo 1848.

I giornali tedeschi, hanno questi giorni passati, profuso nuove un po' troppo nuove, cioè strane e non molto credibili. Una di esse annunziava, che i Russi domandano il passo per 60 mila uomini, i quali calerebbero giù a furia a soccorrere il re di Napoli e l'ex-ministro Del Carretto. Gl'Inglesi questa sorta di novelle domandano un puff: noi, pensando alla gran nazione a cui riferiscesi quella notizia, non la chiameremo una sparata, ma una spiritosa invenzione, che accenna forse scherzando al malumore d'un monarca assoluto. Più volte ho veduto in Parigi quell'orso badiale che ha nome Martino, e d'intorno al quale scherzano e ruzzano di continuo e alla spensierata una gran turba di monelli, perchè [202] l'orso che è giù in una larga lustra murata, non può loro far danno alcuno. Parecchi potentati europei operano qualcosa di simile intorno alla grande orsa del Norte. Ben l'accarezzano volentieri finchè passeggia dentro il circuito vastissimo del suo impero; ma se le tenta il cuore la voglia di uscirne, tirata dalla dolcezza de' nostri climi, e' se ne adombrano forte, e si pentono de' troppi vezzi. E benchè quella proferiscasi ad ajutarli senza interesse alcuno, e prometta loro di aggiustar le faccende proprio secondo il gusto comune, cioè tutte a norma e a talento del potere assoluto; ciò nondimeno ei si spaurano molto in pensando la dura fatica e il fiero impaccio che avranno per ricondurla poi con le buone dentro alle sue gelide abitazioni.

I Russi, adunque, non moverannosi per al presente, e Nicolò non è uomo da ritrovare le temerarie pedate di Suvaroff. Ma che lo Czar esibisca denari agli Austriaci, e questi si lascino prendere ed invescare alla dolce offerta, ciò mi par naturale e molto probabile. L'Austria è bruciata di danari e cercali da ogni banda, come fa il prodigo che vuol levarsi un capriccio e va e picchia a tutti gli usci degli usurai. Alla Russia, invece, le miniere nuove d'argento colmano, a quel che si dice, tutti gli scrigni; e se l'Austria nel pagare sarà morosa, pagherà largamente d'altra moneta sulle bocche del Danubio e lungo l'Eusino.

A questo pensano i Russi, e non a mischiarsi per via di fatto nelle cose d'Italia. Però, noi replichiam volentieri quello che il nostro Giornale affermava, son pochi giorni: che, cioè, in caso di qualche grave conflitto fra l'Austria ed i nostri Principi, l'Europa starebbesi ansiosa a riguardare le due parti contendenti, ma niuno de' suoi potentati darebbe nell'armi, a cagione principalmente, che, movendosi l'uno, subito tutti gli altri verrebbero in campo, e una guerra generale e terribile ne scoppierebbe. Ora, una simigliante guerra a tutti fa gran paura, e quasi niuno può sostenerla senza pericolo di ruina; e l'Europa intera uscirebbene così mutata e scompaginata, che il sol pensarlo fa sudar freddo ai sovrani ed ai diplomatici. Armiamoci dunque speditamente, e non confidiamo che in noi medesimi; e ogni buon cittadino ripeta [203] infinite volte quelle benedette parole: l'Italia farà da sè.

Ma, infine (osserverà qui taluno), se un terzo entrasse nello steccato e l'Europa isse tutta sossopra, come certo avverrebbe movendosi un esercito russo, o d'altra nazione, che sarà dell'Italia? Sarà dell'Italia tutto quel maggior bene che le avremo ammannito, armandoci ora con diligenza, ed affratellandoci di più in più, e collegandosi i nostri Principi in santa confederazione. Dacchè fra i regni forestieri gl'interessi sono divisi e sovente opposti, niuno di loro può passarsi di buoni compagni: e però il coraggio, l'unione e la prudenza trovano del sicuro poderosi alleati. Li trovarono gli Olandesi, picciola gente, ma generosa; li trovò l'America divisa e lontana; la Grecia di questi dì gli ha trovati: al coraggio e all'unione italiana neppur mancheranno. Armiamoci, su, ed affratelliamoci tuttavia: all'uscir della lotta, quella nazione starà a galla che avrà tra i guerreggianti stranieri frapposta con ardire e prodezza la spada propria, e combattuto con dirittura e magnanimità, così per li suoi sacri diritti, come per quelli della ragione e della giustizia comune.

(Dalla Lega Italiana.)

DEL POPOLO.

22 febbrajo 1848.

Si affermò nel Programma di questo Giornale, che nessuna gran cosa nel mondo viene operata e condotta a buon termine senza la immediata partecipazione della parte più numerosa del Popolo. Or, quanto deesi pensare che ciò sia più vero, trattandosi del nostro risorgere dopo tre secoli luttuosi e pieni di servitù e di vizj, che è l'impresa maggiore a cui si possa applicare qualunque nazione del mondo? A noi liberali importa, quindi, assaissimo avere dal lato nostro piena d'ardore e operosa cooperatrice la moltitudine. Due modi furono sempre considerati come i più efficaci e diretti per affezionarsi durevolmente l'animo della plebe; ciò sono istruirla e beneficarla. E però, a tali due istrumenti del bene speciale [204] di cui ragioniamo, s'addirizzeranno del continuo le nostre parole, e le pratiche che verrem suggerendo.

La istruzione, a rispetto della vita politica, ha per materia sua propria l'imprimere nelle menti e ne' cuori delle classi povere quel senso di dignità che lor manca, e quel concetto de' proprj doveri e diritti che sempre ànno avuto annebbiato dall'ignoranza, guasto dall'abito del servire e dagli incitamenti ciechi dell'indigenza, e viziato persino dal sentimento (per sè ottimo e santo, ma non ben diretto e non ben purgato) della pietà religiosa. La istruzione accenderà eziandio nelle lor menti il vero amore di Patria, non ristretto nel palmo di terra ove nascesi, ma dilatato a tutta quanta la sacra Terra Italiana.

Nella plebe stanno riposti (si creda pure) i germi vigorosi de' più nobili istinti e degli affetti profondi ed eroici, appunto perchè più prossima alla natura, e meno lisciata e forbita dalle molli e artificiose consuetudini del vivere signorile. Deesi perciò incolpare l'inerzia e l'incuria (per non dir l'egoismo) delle classi culte ed agiate, se quei germi salutari e veramente divini imbozzachiscono e muojono; imperocchè in tali classi risiede il debito naturale e incessante di tutelare la plebe, educarla e sovvenirla. E il primo benefizio e l'educazione prima sarebbero (a parlar sincero) mostrarle ne' portamenti nostri l'esempio del vivere corretto e severo; laddove è necessità il riconoscere che nella plebe v'à parecchie virtù che ella può attribuire solo a sè stessa, e v'à moltissimi vizj che imita e copia dai facoltosi e ben nati: e noi che scriviamo, vedemmo in Francia coi proprj nostri occhi riconfermarsi questo vero ogni giorno più.

Ma non è da pensare che il solo amor di nazione, e il desiderio solo di libertà e delle altre perfezioni politiche basti a condurre sollecitamente le moltitudini dal lato nostro, e a farle infiammate e perseveranti; poichè, per giungere a tanto effetto, occorre di aspettare che il tempo e i metodi nuovi d'educazione e l'uso protratto delle franchigie pubbliche convertano que' sentimenti e que' desiderj, come a dire, in carne ed in sangue, e li rendano parte sostanzialissima e abituale della vita comune. Ei conviensi, pertanto, supplire [205] a ciò con l'opera dei beneficj (comandata d'altra parte dalla pietà cristiana), mostrando in effetto alla plebe che noi liberali siamo veri e parziali amici di lei e d'ogni suo bene, e provandole altresì, con saggi e fruttuosi provvedimenti, che il nuovo stato di cose le torna senza confronto e più profittevole e migliore del già passato.

In tal guisa, l'interesse ed il sentimento cospirando insieme ad un fine, avremo, ripeto io, nelle mani il più poderoso strumento dell'opere grandi e forti, la plebe. In Francia, l'amor di nazione che pure da secoli era fondatissimo, e il desiderio delle pubbliche guarentigie nudrito per cinquant'anni da ogni ragione scrittori, non sarebbero tornati sufficienti ad accendere le moltitudini e persuader loro le azioni più coraggiose e più disperate, qualora non vi si fosse aggiunto il pungolo dell'interesse: tanto che, la paura vivissima di ricadere sotto il giogo dei baroni e sotto il reggimento dei privilegi, dei balzelli e delle avanie, le tenne forti più che ogni altra cosa alle difese e alle lotte; e volentieri detter la vita per una causa che stimarono la santa causa delle plebi angariate ed oppresse.

In Italia, noi non abbiamo al presente (e siane ringraziato Dio) i fieri motivi che infiammavano e inviperivano quel popolo minuto. Di tutte le mutazioni che la rivoluzione francese recò allo Stato e alle forme propriamente sociali, noi già raccogliemmo il frutto migliore; e perfetta è oggimai nella nostra patria l'eguaglianza civile e l'estinzione dei privilegi; e sino nell'isole, rimaste più separate dal moto universale politico, gli avanzi e gli effetti della lunga feudalità sono in procinto di scomparire. A noi, dunque, manca da questo lato una leva molto gagliarda per sommovere le moltitudini, e un incentivo assai efficace ed acuto per animarle a gran fatti e tenerle salde ad ogni durissima prova. Ma qui accade considerare come il presente moto italiano proceda diversissimo dal francese. Chè quello fu tutto disordinato e violento: nudrivasi d'ira e d'orgoglio, scuoteva gli ordini dello Stato dall'ultime fondamenta, provocava da ogni banda nimicizie mortali, salir voleva di balzo all'acquisto d'ogni libertà e d'ogni ideal perfezione, e affrettavasi al lume incerto [206] di dottrine fantastiche, e senza tener conto alcuno degli ostacoli e dell'inopportunità. In quel cambio, il nostro moto presente è tutto civile e pratico, e molto tende ad edificare, e poco o nulla distrugge. E però, noi possiamo invitare ogni varietà di gente e ogni condizione d'uomini all'impresa, universalmente proficua e nociva a nessuno, di costituire l'Italia in essere di nazione, e di rialzarla a quel grado di perfezionamento e splendore sociale e politico che la natura e i cieli le destinarono.

Non occorre, adunque, alla nostra impresa la rabbia cieca, impetuosa e infrenabile delle moltitudini, ma sibbene occorre il sentir loro generoso, il buon senso ravviato e schiarito, e il saldo e intimo convincimento che gli amici della libertà e della indipendenza italiana sono gli amici loro costanti ed attivi; e in fine, che dessa libertà e indipendenza, oltre all'essere cosa bellissima e nobilissima rispetto a sè, soccorre e giova fruttuosamente le classi inferiori, ne inizia e fomenta la educazione, ne tronca o mitiga i mali, e le introduce di mano in mano a gustare il dolce della scienza, e godere il bello e il maraviglioso della gloria e grandezza umana.

Ai quali termini tutti noi giungeremo assai prestamente, se il massimo de' beneficj che usar vorremo nel popol minuto consisterà in una industria ingegnosa e continua di convertire in qualche profitto certo e immediato di lui quelle nuove franchigie e diritti, e quelle larghe istituzioni di cui buona parte degli Italiani è ora dotata. Pur troppo, ciò non vedesi praticare con molto zelo o perduranza neppure appresso le nazioni più libere e più civili d'Europa. Nè noi ci ricordiamo dal 1830 in poi, d'aver sentito in Francia nei Parlamenti proporsi, più di una o due volte, leggi e provvedimenti giovevoli in guisa immediata e visibile alla porzione più numerosa e infelice del popolo. Noi facciam voti perchè la sapienza civile italiana sappia calcare una miglior via.

(Dalla Lega Italiana.)

[207]

DEI DAZJ DANNOSI AL POPOLO.

22 febbrajo 1848.

Non è facile a dire quanto ci rallegriamo di vedere il Governo Sardo entrare innanzi ai privati, e dar loro splendido esempio in questo fatto rilevantissimo del beneficare la plebe. Nell'articolo quartodecimo del memorabil Decreto degli otto, fra le altre gravissime disposizioni è registrato e promulgato, che dal primo di luglio in poi la gabella del sale non eccederà il prezzo di 30 centesimi per chilogrammo. Di tal benefizio a noi corre obbligo di ringraziare particolarmente il Principe, così in nome nostro come della gente minuta e più bisognosa, alla quale non dee sgradire che pure questo Periodico si faccia interprete e testimonio dei sentimenti di lei.

Ognun sa che tra le tasse più dure e gravose per l'infimo popolo, era da computarsi quella del sale, e segnatamente per gli uomini di contado, a cui tornava costosissimo il quasichè solo condimento del suo vitto più che frugale. E oltre ciò, difettava d'un mezzo efficace (per quello che affermano parecchi pratici) di ben ristorare e ben nudrire il bestiame: e chi considera che dal bestiame, e per conseguente dal concime che dà, si origina ogni altro miglioramento agrario, dee confessare che la gabella del sale, quando non sia tenuissima, prende luogo fra quelle tasse perniciose ed improvvide che offendono la prosperità e ricchezza comune nelle sue medesime scaturigini. Senza dire quel che da taluni agronomi si va ripetendo; il sale, cioè, poter servire da buon letame per praterie, e che non isconverrebbe punto l'adoperarlo per succedaneo del guano, e d'alcuni altri concimi artefatti. Ma di ciò veggano gl'intendenti.

Noi pigliamo fiducia, che da ora in poi il Governo Sardo cercherà e studierà ogni guisa per iscemare notabilmente tutti quei dazj che per diretto o per indiretto incarano le cose più necessarie alla sussistenza. E il Tesoro ne riceverà molto minor danno che non si stima; poichè il calo delle gabelle verrà riparato in gran parte, se non in tutto, dall'aumentarsi il consumo, appunto come va succedendo appresso [208] gl'Inglesi. E quanto è al grave sbilancio che può accadere ne' primi tempi, il Governo Sardo è in grado di non se ne sgomentare, perchè i buoni risparmj fatti e l'ottimo assetto ministrativo gli rendono agevoli molti compensi e molti partiti, di parecchi de' quali faremo speciale ragionamento tra breve. Egli sarà in tal guisa lodato da tutti i buoni, ammirato dagli Statisti ed Economisti d'ogni paese, e, quel che più monta, verrà benedetto ogni giorno dalle famiglie de' poveri; e la plebe, cogliendo larghi profitti dall'ordinamento nuovo dello Stato, conoscerà con diletto quanto sia dolce cosa la libertà, quanto giusto ed utile l'impero dell'opinione, quanto dignitoso l'obbedire a un Principe liberale, e far parte di una Nazione che risorge e grandeggia. E per tutti questi beni (siamone certi) la plebe darà volentieri, occorrendo, il sangue e la vita; perchè nel cuore di lei la gratitudine, per ordinario, è somma ed eroica, e la devozione per ciò che ama ed ammira non ha misura nè termine. A vero dire, il Governo procaccia dal lato suo di condurla a simili sentimenti, e di ciò pure gli professiamo specialissima riconoscenza. Per fermo, un pensier gentile e generoso fu quello di promettere al popolo lo scemamento della gabella del sale in quel Decreto medesimo che promulgava solennemente lo Statuto rappresentativo. Così vollero i reggitori, che nell'animo della plebe stessero congiunte insieme e annodate queste due cose: un suo profitto speciale, e le pubbliche libertà e guarentigie. Questa è bontà sapiente e fruttifera, e annunzia il disegno di grandi e malagevoli imprese, per le quali ricercasi non pure la fedeltà e l'obbedienza, ma lo zelo animoso ed inestinguibile delle moltitudini.

(Dalla Lega Italiana.)

DI ROMA COSTITUZIONALE.

23 febbrajo 1848.

Da qualche giorno i fogli italiani discutono del potere o non potere il Pontefice costituire un governo rappresentativo. [209] A noi, tutte le ragioni che vorrebbero provare il no, sembrano tanto invalide e frivole, che non concepiam bene come qualche ingegno elettissimo abbia speso non poche parole per confutarle. Noi nel Papa, come custode santo de' dommi, vediamo bene certi confini di facoltà, e ch'egli possa le tali cose e le tali altre non possa; ma come principe temporale e governatore di popoli, non conosciamo divario nessuno da lui agli altri. Per fermo, noi vorremmo che gli avversarj, quali che sieno, si compiacessero di dichiarare sopra qual passo del Vangelo, o sopra qual massima universale e perpetua di Santa Chiesa, è fondato il governo assoluto e arbitrario delle province romane. Però, se nulla v'ha in ciò di dogmatico e nulla d'inconcusso e d'irrevocabile, il Papa rimane libero e sciolto al pari d'ogni altro monarca, non potendo le cose spirituali e temporali cambiar natura per l'adagiarsi che fanno in una sola persona, e come il poter temporale non dee trasformare e alterare l'indole e la sostanza del potere spirituale, così questo non dee travolgere l'autorità principesca, e volerla serbare arbitraria contro la ragion delle genti e le esigenze estreme del secolo. E quando pur si volesse, che la potestà temporale cedendo infinitamente di dignità all'altra spirituale, fosse in debito d'imitarla, e di porsela innanzi agli occhi come modello; ei ne seguirebbe una forma d'impero oppostissima all'arbitraria, e prossima quanto mai al governo che domandasi rappresentativo. Tutti conoscono risiedere la facoltà legislativa ecclesiastica ne' concilj, congiunti nel debito modo all'augusto lor capo: e similmente, a chi non è noto la facoltà pontificia essere, per primo e proprio istituto, esecutrice fedele delle sentenze conciliari; ed anche nelle materie di disciplina, solersi sempre governare a norma dei canoni, e delle antiche e più venerabili consuetudini? Il regno, adunque, temporale dei Papi, per accostarsi come può al divino modello del reggimento ecclesiastico, debbe porre da banda gli arbitrj ed i motupropri, e vestire le forme costituzionali. Chè se queste son necessarie alla prosperità e grandezza di qualunque mai popolo, noi reputiamo che il sono molto di più alla salute e prosperità delle province romane. Per fermo, che è il governo assoluto, salvo che una perpetua [210] dittatura e tutela, la qual presume di fare e maneggiare da sè sola ogni cosa, e reggere i popoli come minori e pupilli? Ma per ciò adempiere, appena è sufficiente ad un Principe lo spendere tutto il tempo che ha, e tutte le cure, fatiche, ingegno, accorgimento ed ostinazione di cui è capace. Ora, come si può adunar tanto carico sulle spalle al Pontefice, il quale e trema e suda continuo sotto il peso del gran manto, e al cui ministero sono affidati i religiosi negozj di tutto l'orbe cattolico?

Ma più: la dittatura perpetua agli occhi della ragione è contradittoria; perchè ogni specie di dittatura vale come rimedio, non come regola permanente; sospende le pubbliche libertà, ma non può annullarle; compie la educazione dei popoli affine di farli uscir di pupillo, non per serbarveli senza termine. Adoperata eziandio da uomini sommi e santissimi, spegne a poco a poco dintorno a sè l'amore alla causa pubblica, e l'abito delle virtù cittadine; e agli affetti forti, generosi e magnanimi, fa succeder gl'inetti e i volgari. E che? l'impero temporale dei Papi che far dovrebbesi specchio lucente e norma sicura e inerrante di tutti gli altri, verrà condannato alla indeclinabile necessità di non poter esser buono, e d'infiacchire e abbassare l'umana natura?

Ma più ancora: nel comando assoluto è gran pericolo di mal fare, e d'imbattersi in gravi e funestissimi errori; conciossiachè, quanto maggiore è l'arbitrio, tanto cresce la facoltà di abusarne; e quando un solo consiglio move ogni cosa, falso ed errato che sia, nessuna forza il corregge e radduce al bene. Ma, a qual monarchia fa più bisogno di non ingannarsi, a quale di non uscire dal buon sentiero, se non alla pontificia? Evvi cosa al mondo così deplorevole, disordine così tristo a vedersi, sconcezza tanto deforme, quanto che il Vicario di Cristo, la persona più veneranda fra gli uomini, e guardiana e rappresentatrice dell'essenza medesima della saggezza eterna, inciampi in isbagli gravissimi, e pongasi a rischio di governare e imperare in modo che tutto il mondo civile ne rida e si scandolezzi? Pur troppo, non son queste supposizioni assai temerarie; e l'Italia il sa, e ne piange tuttora. Invece, cambiata la dittatura in reggimento costituzionale, [211] nessuna imputabilità può salire fino alla seggia di S. Pietro; e il Principe sacerdote può solo operare il bene e non mai il male: principio, come è noto ad ognuno, e massima direttiva di quel reggimento, e la quale sembra appunto pensata per dignità e decoro del regno pontificale.

Potremmo senza fine moltiplicar le ragioni; ma le più sono state messe in buona considerazione da egregi scrittori, e però ci asteniamo dal ricordarle. Solo qui aggiungiamo, che se all'immortale Pio IX sta veramente in cuore di tramandare intera la potestà regia a' suoi successori, debbesi affrettare di darle per fondamento la libertà, che è oggimai la sola e abbondevole scaturigine d'ogni potere e d'ogni forza.

Certo è, che se il conculcare i popoli con le alabarde svizzere e le bajonette tedesche domandasi pienezza di regno, Pio IX la rifiuta e l'abbomina, e piglierassi piuttosto la parte che il tutto; e se colmar le prigioni, sbandeggiare i migliori, erigere tribunali soldateschi e feroci, armare i centurioni, e tinger di sangue le città di Romagna, sono i soli mezzi rimasti per tramandare a' successori l'integrità del potere, a Pio IX fa ribrezzo e dolore pur di pensarlo; e niuno s'aspetti dalle sue mani innocenti un'eredità cotanto misera ed abborrita. Il sentir dire, poi, e obiettare che, molti secoli fa, giurarono i cardinali per sè e per gli ultimi lor successori di conservare cotal plenitudine di diritti, e che in niuna guisa si può derogare a quel giuramento antichissimo, ciò suona agli orecchi nostri quasi come bestemmia. Questo non giurarono del sicuro i cardinali in lor cuore e pensiero, e se il fecero, malissimo adoperarono, e il peggiore sarebbe mantenere quel sacramento. Eh via, lasciamo una volta i sofismi e i cavilli, che a ogni specie di prepotenza e di tirannia servito hanno di velo e di scusa; e non si meschii, soprattutto, alle faccende laicali la santità inviolabile della teologia. Il padre Boerio e il padre Perrone pensino ad altro: qui non fa duopo il lor magistero. Profani e materialissimi sono coloro che la spiritualità della Chiesa e le condizioni sue eterne e immutabili involgono, in qualsiasi maniera, con le contingenze, le varietà e i casi del potere temporale. La Chiesa di Roma ha esistito e con l'autorità principesca e senza, e ha provveduto a' suoi [212] fini dallato a ogni forma sociale e politica, compresavi eziandio la repubblicana, essendo Roma più d'una volta nel medio evo stata repubblica e affatto signora di sè. A noi fa sdegno veramente il vedere, che uomini i quali pur jeri l'altro riconoscevano nel Pontefice ogni possibile latitudine di facoltà e di arbitrio, sieno disposti a provare la sua impotenza unicamente quando si tratta di largire ai popoli la libertà, e rivocare l'Italia alla grandezza e gloria perduta.[10]

(Dalla Lega Italiana.)

CARTEGGIO TRA METTERNICH E PALMERSTON.

23 febbrajo 1848.

Jeri e jer l'altro la Lega ha riferito e tradotto un carteggio ufficiale e di molta importanza tra il visconte Palmerston e il principe di Metternich intorno ai casi d'Italia. Nel primo dispaccio, dato alli due d'agosto dell'anno scorso, il gran Cancelliere di Vienna comincia, secondo suo stile, a chiamare sconvolgimenti vertiginosi le quiete e ordinate riforme che i Principi nostri han praticato nell'Italia media. Per l'Austria ogni moto è sconvolgimento, perchè simbolo del suo governo è il serpente a sonagli in torpore, e perchè ella si fa gloria di traslatare la Cina in Europa: quindi a Vienna, come a Pechino, ogni mutazione vien riputata sedizione. Dice poi Metternich, che di tali scombujamenti le conseguenze si lasciano indovinare anche troppo. Io non so degli altri, ma se le indovina egli davvero quel gran Tiresia dei diplomatici, e vedele tutte e ben chiare, il buon tempo è finito per lui, e nemmeno può confortarsi col motto di Tiberio che molti pongono sulla sua bocca, dopo me il finimondo. Insomma, avea gran ragione quel Greco di dire a Creso: «Scusami, ma s'io non ti veggio innanzi morire, io non ti [213] posso chiamar felice.» Principe di Metternich, le glorie e i trionfi di Lubiana e di Verona son mezzo affogati, e aspettatevi di vederli ridotti al niente. Oh bel morire, sono già ventisei o ventisette anni, accosto al tappeto verde, in su quel seggiolone a bracciuoli ove con maestà e grazia vi sdrajavate, e l'Europa intera pendeva dal vostro labbro. Ma torniamo al dispaccio. Metternich vuol tastare e sapere come la pensi l'Inghilterra intorno al possesso e all'indipendenza reciproca degli Stati Italiani, e se basti ad essi per piena ed intera malleveria il Trattato di Vienna. Ogni frase ha senso lato e generalissimo, e conoscesi aperto, che il fine di quello scritto è soltanto di scoprir terreno, ed esigere una dichiarazione ex officio. In tal dispaccio stanno pure le famose parole: Italia è una espressione geografica. Metternich pronunzia il vero. Il Congresso di Vienna tolse alla povera Italia qualunque altra significazione, fuor quella d'essere un pezzo di terra europea configurato d'un certo modo, e al quale i geografi impongono per abitudine un nome solo. A ciò non si risponde con le parole, ma sibbene coi fatti; e finchè questi non parleranno, taci, popolo Italiano, taci, ed infrattanto

Fa dolce l'ira tua nel tuo secreto.

La seconda lettera del gran Cancelliere va ripetendo, quanto al costrutto, il medesimo che nella prima; salvo che aggiugnevi una pittura nerissima, ed oso dire grottesca dei moti d'Italia: e badisi che al dispaccio è apposta una data anteriore di molti mesi ai fatti di Sicilia e alle promulgate Costituzioni. Che vogliono gli agitatori d'Italia e que' settarj malvagi che la sommovono da sì lunghi anni? Metternich solo ha scoperto il secreto ed avvolto al dito il bandolo della matassa: ei vogliono fare d'Italia una gran repubblica federata, con un governo centrale de' più stretti e gagliardi. Scuotetevi dunque, o Monarchi, alla voce del vostro amico, e provvedete al pericolo che vi sovrasta. Così parla ed esorta il gran Cancelliere; e sono trent'anni che la cosa stessa ripete; e veramente, chordà obberrat eàdem, nè altro sa figurare il brav'uomo che sétte e pugnali, comitati e congreghe, rivoluzioni e repubbliche. Ciò prova che nelle fissazioni mentali [214] v'ha moltissimi gradi, e non tutti menano alla pazzia: senza di che, il decano degli Statisti d'Europa soggiacerebbe da lungo tempo alle docce fredde e agli altri calmanti.

Lord Palmerston fece da prima una sola risposta alle due lettere di Metternich, e poi mandò una seconda con data degli 11 di settembre, cioè in quel torno di tempo in che l'Austria avea sorpresa Ferrara; laonde v'è inserita questa frase osservabilissima: — L'integrità degli Stati Romani dee venir reputata siccome un elemento essenziale dell'indipendenza politica della Penisola italiana. E non può accadere alcuna invasione di quel territorio senza che ciò non meni gravissime e importantissime conseguenze. — Parole son queste molto significative; e la punta loro è sì acuta e pungente, che i soliti fiori segretarieschi la cuoprono a mala pena.

In generale, Lord Palmerston ristringesi a dire, che l'Austria richiamandosi, come fa, al trattato di Vienna per la conservazione delle province lombarde, ha buon dritto e ragione; e che non solo debbono venire adempite le determinazioni e le clausole di quel trattato, ma il debbono essere tutte; il che vuol dire, a Cracovia come in Italia. D'altra parte, prosiegue Palmerston, considerando che nel congresso di Vienna i Sovrani d'Italia furono riconosciuti liberi e indipendenti nel modo più formale ed esplicito che mai si possa, ne discende che non debbono essi venir turbati in qualunque esercizio di loro sovranità a rispetto del governo interiore; e però, qualunque atto di cotal genere non può fornire all'Austria buona ragione d'invadere con le armi veruno degli Stati italiani.

Questo parlare, nello stile sempre officioso e cortesemente dissimulato delle cancellerie, ha del risoluto e del vigoroso; e però Metternich, che squadernava e citava il trattato di Vienna, è stato benissimo redarguito; e i due dispacci di Palmerston sono, per nostro avviso, un molto leggiadro e continuo ritorcere d'argomenti, ove non manca neppure la grazia dell'ironia, e ricorda quel grave e maliziosetto sorriso de' gran signori, nel quale, eccetto la sincerità, si trova ogni cosa. Lord Palmerston affermando il diritto che l'Austria [215] possiede di proteggere i possedimenti suoi sul Po e sul Mincio, fa pur notare che niuno l'offende e il minaccia, e non si vede chiaro a che proposito sia ricordato con tanta solennità e premura: laddove, per lo contrario, il pericolo che non si rispetti l'indipendenza degli Stati d'Italia è visibile e soprastante.

Quanto poi al disegno dei caposchiera italiani di giungere a fondare o una repubblica sola o molte confederate, confessa il Palmerston, con vera e sentita modestia, che benchè dappertutto abbia consoli, e gente non poca che attende a ben informarlo, egli non ha avuto neppur sentore di tanta e sì grave macchinazione. Ma ciò invece che quel ministro ha da lunghissimo tempo saputo di certa scienza, e per mille vie e per mille organi, si è che l'Italia veniva retta e governata miserissimamente, e bisognavanle riforme pronte e larghissime, soprattutto in Roma ed in Napoli. Laonde, conclude il Palmerston, gli è da sperare che il ministero di Vienna, al quale più che a qualunque altro dee stare a cuore la salda pacificazione d'Italia, vorrà dar mano ai Principi della Penisola per condurre le riforme a termine fortunato, e caldeggerà ogni determinazione loro intesa a quel fine. Qui ognun vede che il velo della socratica ironia divien troppo sottile, e si squarcia. Oh come! il Principe stesso di Metternich dee con le sue proprie mani ajutare gli altri a scavargli la fossa? Questo nol chiediamo neanche noi Italiani, perchè le virtù eroiche non possono domandarsi a veruno. Noi nel servaggio abbiamo bensì perduto parecchie doti, ma non la discrezione e l'urbanità. Il Metternich invecchia assai, e gli sta bene, dopo enormi fatiche, un po' di riposo. E perchè ai molto attempati ogni divertimento si cangia in tedio, la gentilezza italiana preparagli uno spettacolo tanto vivo e patetico, che impossibile è non lo svaghi per qualche poco, e non gli riempia gli occhi e gli orecchi di straordinario e ricreativo diletto. Possa egli vivere tanto da vedere finito il dramma e calato il sipario.

(Dalla Lega Italiana.)

[216]

DI NUOVO, DI UNA LEGA POLITICA DIFENSIVA.

16 febbrajo 1848.

Tra la lega de' popoli e la lega de' Principi, qual dee riuscire più malagevole a praticarsi? certamente la prima; ed anzi, ella non può essere menata in atto, salvo che dall'azione lenta del tempo, e da un fortunato concorrere di avvenimenti e di circostanze. Eppure, scorgesi oggi in Italia questa singolare contrarietà e discrepanza, che la lega de' popoli tocca oramai la sua perfezione, laddove a quella de' Principi neppure dàssi cominciamento. Ma che sai tu? mi diranno alcuni; ella è forse molto innoltrata. Lavoransi ed apparecchiansi tali cose in piazza? Gelosi negozj son questi, e da tenersi più che celati. Vorresti tu provocare il nemico senza profitto ed innanzi al tempo? Gran maestri furono gl'Italiani del secreto di Stato; e se la fortuna li abbandonò, l'arte non li abbandona.

Rispondo ai contraddittori in tal guisa. V'ha due metodi, ciascuno de' quali ha sue convenienze e disconvenienze: ciò sono il maneggio occulto e diplomatico, e il pubblico e popolare. Quello da cui bisogna astenersi affatto, si è il confondere insieme od il perturbare l'uno con l'altro; imperocchè allora perdesi la maggior porzione dell'utile, e incontrasi la maggior porzione del danno che sta in ambedue. Ora, gettiamo le illusioni dopo le spalle: pretendere che a quattro Governi italiani sia mai fattibile d'intavolare un patto e un capitolato d'unione e confederazione politica senza che l'Austria nol sappia e non ne conosca le clausole principali, sono supposti troppo innocenti, e che disdicono alle commedie e ai romanzi medesimi, oltrepassando il segno d'ogni naturale verisimiglianza.

Se, dunque, il secreto non è possibile, giovi francamente attenersi al metodo opposto, e ritraendo tutto l'utile proprio della pubblicità, saperne tollerare gl'incomodi. Ma noi soggiungiamo assai fermamente, che quando anche fosse possibile di occultare il maneggio e il trattato, i Principi non lo [217] dovrebber volere. Conciossiachè i popoli nostri sono sovrammodo impazienti di vederli e saperli tutti confederati; e il giorno che ne correrà per Italia la certa notizia, a ciascheduno di essi Principi crescerà la forza, la dignità e la facilità dell'impero, come in ciascheduno de' popoli moltiplicherà la fiducia e il coraggio. In tal guisa, il patto confederativo sarà, al tempo medesimo, effetto immediato della fratellanza de' popoli, e cagione efficace di sopraccrescerla, solidarla ed inanimarla.

Ma si conviene considerare questo medesimo sotto altro aspetto. Ciò che al presente dà virtù e gagliardezza somma al moto italiano, e persuade e trascina seco tutte le intelligenze e acquista di giorno in giorno maggior momento nel giudicio di tutta Europa, si è quell'unione, quella unanimità e quel profondo spirito di nazione che da un capo all'altro d'Italia si manifesta in qualunque atto, in qualunque accidente, con mille variatissime forme e dimostrazioni. Or, che sarebbe un'aperta e solenne dichiarazione della lega de' nostri Principi, se non testificare al mondo intero civile quell'unione ed unanimità, sancirla ed avvalorarla con la importanza e la santità d'un gran patto, porgerle pregio e vigore di ordinamento e di disciplina, sottoporla a una legge costante, generale e uniforme, reggerne e governarne sapientemente il moto e la vita, e farla in tal guisa non che ragguardevole e poderosa a un potentato straniero, ma temuta ed inespugnabile a tutti? La lega politica difensiva di circa diciotto milioni d'Italiani, proclamata e fermata da un patto pubblico e indissolubile, costituirà issofatto la Nazione Italiana, e per la prima volta la farà comparire nel mondo unita, armata ed apparecchiata ad ogni qualunque accadimento.

La diplomazia de' popoli, ne' gran momenti di risurrezione e di ardore politico, procede differentissima dall'ordinaria de' ministri ed ambasciatori: questa è piena di sospetti e riguardi, quella di franchezza e generosità; questa è scaltra, quella è forte; questa intrecciatissima e involta, quella semplice e dispiegata. A noi non bisogna al presente l'arte vecchia italiana di Mazzarino e di Alberoni, ma le pratiche ardite e scoperte degli Olandesi e degli Americani nei bei giorni [218] dell'emancipazione loro. Conciossiachè, questo debbono avere tuttodì avanti agli occhi i Principi nostri, cioè che gl'Italiani conciliano oggi, con ammirazione di tutte le genti, due cose credute impossibili a ben accordare; l'ordine, la disciplina, la pronta e dignitosa obbedienza da un lato; e una profonda rivoluzione e innovazione dall'altro.

Ma coloro che per abito temono il popolo, e vogliono della politica fare un mistero, e d'ogni sala di consiglio un antro di Trofonio, insisteranno dicendo, non essere d'uopo il correre a tali estremi; imperocchè sembra, ed anzi par certo, e oramai non se ne ha più alcun dubbio (queste frasi costumano sempre), che l'Inghilterra e la Francia non consentiranno ad alcuno straniero d'impedire e turbare in nulla il reggimento nuovo costituzionale degli Stati sovrani d'Italia.

E che? dipenderà, dunque, la nostra salute dal consentire o non consentire di Guizot e di Palmerston? E a qual fine, adunque, uscirono di tutela i Principi nostri; a qual fine s'affrettano di dotare i lor popoli di larghi e liberali Statuti; a qual fine s'armano spacciatamente e ordinano da per tutto le Milizie Cittadine, se non sentono in cuore il legittimo orgoglio, anzi il debito sacro di difendersi da sè medesimi? Grazie a Dio, l'un di essi ha pur pronunziato quel detto, che a niuno è per cadere dalla memoria, L'Italia farà da sè. Noi confidiamo nella saggezza di chi mandò fuori quelle parole generose e profetiche. Di già, per togliere ai nemici d'Italia qualunque pretesto di risguardare le concessioni di lui come poco leali e spontanee, egli ha voluto innanzi al tempo, innanzi a qualunque grave dimostrazione, prima d'ogni necessità, attorniato dall'esercito fedelissimo, promulgare le nuove franchigie prontamente e compiutamente. In egual modo, per rimanere saldo nell'armi e d'ogni cosa ordinato ed apparecchiato, egli viene così ben temperando la libertà con la disciplina, la vita pubblica con la quiete, l'ardor nazionale con la prudenza, che ai nemici suoi e della causa italiana non resta speranza veruna nè di sorprenderlo nè di scompigliarlo. Noi di tanta saggezza lo ringraziamo con l'animo; ma, in pari tempo, gli addirizziamo preghiere instanti e caldissime di adoperar quella speditamente e con modi premurosi ed efficacissimi, [219] per porre in atto e proclamare in faccia all'Europa la lega politica difensiva dei quattro Stati sovrani d'Italia.

(Dalla Lega Italiana.)

DI NUOVO, E SEMPRE D'UNA LEGA DIFENSIVA ITALIANA.

26 febbrajo 1848.

Nel mondo politico, rado è che le cose mostrinsi da qualunque aspetto vantaggiose e favorevoli; onde quelle sono da scegliere il cui bene supera di lunga il male. Così diciamo, che della Lega costituita, fa qualche mese, tra l'Austria, Modena e Parma, e al presente pubblicata, è più assai il bene ritráttone dall'Italia, che il male. E primamente, nuocono meno i nemici manifesti, di quello che gli amici dubbj e dissimulati. In secondo luogo, dichiarati come oggi sono Modena e Parma contro l'Italia risorgente e costituzionale, più non hanno campo di richiamarsi agli antichi diritti. E qualora si venisse a spartir la lite col ferro, potrebbesi senza ingiustizia imporre ad esse la legge dei vinti, e far le acque della Parma e del Panaro scorrere tributarie o della Toscana o di Roma.

Ma il profitto maggiore che può l'Italia dedurre da tal lega odiosa ed ostile, gli è senza dubbio avere occasione, ed anzi necessità, di risolversi alla perfine a stringere una Lega Italiana tra i quattro Stati liberali ed amici. Grazie a Dio, le incertezze, i rispetti e l'esitazioni sono fatte impossibili, e ne dobbiam merito al patto delli 24 di dicembre. Oggi, a una lega difensiva dell'Austria, sono i Governi nostri, quanto al diritto, liberissimi di contrapporne una Italiana: e quanto all'interesse lor proprio, dico che sono in dovere e in necessità di farlo al più presto; conciossiachè ad apparecchi gagliardissimi di difesa risponder conviene con altrettanti; ed è poi debito insieme e necessità il soddisfare al voto comune, che è il più legittimo forse, il quale abbiano fino a qui espresso i cuori Italiani. Quanto più ci pensiamo, e tanto ci [220] cresce la maraviglia che una Confederazione strettissima e veramente fraterna non ancora sia pubblicata fra i quattro Principi riformatori: e però ci scusino coloro che leggono, se ci rifacciam sempre a parlare del tèma medesimo; chè qualunque replicazione in tal caso non è soverchia; e pur tornando infruttifera, soddisfa al debito ed alla coscienza dello scrittore. O come? que' Governi stessi che tanto sono solleciti a compiacere a' legittimi desiderj de' Popoli, si peritano e s'indugiano a contentare quest'uno solo, che forse supera tutti gli altri di utilità e ragionevolezza? Che cosa importa l'unione degli animi, la parità delle opinioni, la voglia intensa ed universale dell'operar di conserto, se a tali ottime disposizioni è impedito di giungere all'atto? A che giovano, in che ci avvantaggiono tante dimostrazioni d'amore e fiducia reciproca, e tante proteste di fratellanza e segni e prove di vita nazionale comune, quando tutto ciò si rimanga nel chiuso dei petti o nel suono delle voci, e non ne risulti alcuna notabile congiunzione di forze, nè alcuna bene avvisata cooperazione? Dubitano forse i Principi nostri della generalità e caldezza del desiderio? Ma per Dio, se il modesto pensiero delle moltitudini trasparisse di fuori, e quel che giace dentro dell'animo sonasse distinto sopra le bocche, null'altro udirebbesi replicar dappertutto e sempre, salvo che CONFEDERAZIONE, CONFEDERAZIONE. Nè altro grido noi pure vorremmo innalzare ed espandere, tutta volta che possedessimo quelle cento lingue d'acciaro e quei dieci petti di bronzo di cui parla Omero; e se fossero a nostra requisizione migliaia d'araldi, vorremmo che su dai pinacoli e dalle torri, seguendo l'uso del popolo ebreo, a mane, a mezzogiorno ed a sera, ei dessero fiato alle trombe d'oro, e non altro tramandassero a tutti gli orecchi fuor queste voci: CONFEDERATEVI, O PRINCIPI, CONFEDERATEVI.

Se utile poi si stima il silenzio, utili le cautele dei diplomatici, necessario il tenere occulte le pratiche e i negoziati, noi pensiamo aver dimostrato nel nostro Foglio del 16 l'errore e il danno di tale opinione. Ed ora una nuova ragione ci suggerisce intorno al proposito la Lega patteggiata e conclusa fra l'Austria, Modena e Parma. Di vero, molte ragioni e molti rispetti consigliavano quelli tre Stati [221] ad occultare la Lega loro quanto più tempo si fosse potuto; e pur nondimeno, maggior forza ha avuto sul lor consiglio questa sola considerazione: che, cioè, rimanendosi occulto il Trattato, rimanevano altresì impediti e sospesi in gran parte gli apparecchi e le difese comuni. Ora, il simile si debbe affermare de' Principi nostri, ai quali, infino a tanto che piacerà di tener celato il convegno (supponendosi che sussista), verrà impedita ogni preparazione comune di forte e bene ordinata difesa.

Ministri e ufficiali supremi de' quattro Stati, deh! risolvetevi una volta, e rompete il funesto indugio. Noi non pensiamo che il cuore vi manchi di adempiere il desiderio universale italiano con quell'ardore e sollecitudine che i casi ricercano: ma quando ciò fosse, a voi non dispiaccia che spiriti più coraggiosi e gagliardi suppliscano l'opera vostra. Imperocchè questo è necessario assolutamente, che i Principi nostri riformatori abbiano uomini intorno a sè, così pieni com'essi, di forte e generoso sentire, e così grandi e straordinarj, come i tempi, come l'Italia.

(Dalla Lega Italiana.)

AI LOMBARDI E VENEZIANI.

28 febbrajo 1848.

Quella angosciosa impotenza che sperimentano gli uomini in consolare o l'amico o il parente percosso da estremo infortunio, prova, noi crediamo, l'Italia intera in consolar voi, fratelli sfortunatissimi, e in provvedervi di pronto ajuto e di sicuro consiglio. Ma se può valere per conforto efficace, e per ajuto almeno dell'animo, la compagnia del dolore, sappiate, o carissimi compatrioti, che ogni città, ogni borgo, ogni casolare d'Italia partecipa al vostro lutto e alle vostre amarezze. Abbiamo disdette le mense rumorose, acchetati gl'inni, dato bando a qualunque dimostranza di pubblica contentezza. Nè questo nostro compianto e rammarico è quale si converrebbe ai fanciulli e alle femminelle. In noi lo sdegno [222] pareggia la compassione, e a tutti gli altri affetti prevale. Oltrechè, i tempi fatali maturano, gli apprestamenti moltiplicano da ogni parte, e ogni cosa è pieno d'armi, di sospetto e d'irrequieta preoccupazione. Un popolo intero e il qual somma ventiquattro milioni, freme d'ira giustissima, e a mala pena si può temperare. Poca favilla gran fiamma seconderà: e dove alcuna cosa non fa difetto, salvo che l'occasione, può tenersi per certo, che quella eziandio non è per mancare; tanto di sua natura ella è difficile a rimanere, e facilissima a giungere.

Fratelli, grande e straordinaria sventura v'incontra; e voi gemete veracemente sotto il giogo d'iniquissimi editti di polizia, i quali non altrimenti sapremmo chiamare, che capricci ed insanie di tirannide inferocita e ubbriaca di paura. Contuttociò, non vi dee recare poco e fuggevole alleviamento il conoscere la indignazione di tutti i popoli civili contro ai vostri oppressori, e l'ammirazione profonda inverso l'opere vostre. Certo, lungamente stupirà il mondo di quella costanza ed unanimità, e di quel coraggio ed accorgimento col quale costretto avete i satelliti del Governo o a ruinare e disfarsi, o a gettar dopo le spalle ogni verecondia e conculcare le proprie leggi; e uscendo d'ogni dritto e d'ogni equità, distruggendo ogni ordine di giustizia, adoperando la dittatura quale non si usa in regioni di barbari, e confidandola alle mani le più abborrite e insieme le più disprezzate, imperare a modo di masnadieri, e tener la spada di Damocle sospesa sul capo d'ogni innocente e leal cittadino. L'Europa vi loda e vi esalta; e la Polizia degli stranieri, per lo contrario, s'invelenisce e s'invipera: chè mentre stimava sulle Lagune e sul Po di premere con poco sforzo e di manomettere un popolo nelle ricchezze e ne' piaceri avvizzato e sepolto, e dalla dispotica dominazione depravato e inschiavito, trova in esso ad un tratto, e riconosce con ispavento i non degeneri discendenti degli eroi di Legnano e di Famagosta. Laonde, in lei è vera paura e sgomento, in lei è il rimordimento e l'obbrobrio; dal lato vostro è dolore con serenità, è strazio con intrepidezza, è oppressione con gloria.

Da tutte queste considerazioni, o carissimi, noi non dubitiamo [223] di vedervi raccogliere nuovo coraggio e nuova fermezza, e nelle accresciute miserie accrescere d'altrettanto la forza, la dignità e l'alterezza dell'animo. In coloro è una criminosa speranza di scombujarvi e atterrirvi; e la scelleraggine loro, ben succeduta in Gallizia, troppo li fa persuasi di conseguire il medesimo, e per qual sia mezzo, in Lombardia e in Venezia. Ma di ciò noi siamo al tutto sicuri che vanno ingannati, e del perfido tentamento rimarrà loro soltanto il vituperio perpetuo e l'abbominazione di tutte le genti.

Non del coraggio, adunque, non dell'intrepidezza vostra sappiam dubitare, o Veneziani e Lombardi, ma sì piuttosto della longanimità e della sofferenza. E certo, a noi manca il cuore di pur consigliarvela; perchè essendo noi liberi e armati, e sentendo forte nell'anima tutto il debito della fratellanza, vergogniamo di recarvi ajuto di solo pietose parole, e pregarvi di pazienza e rassegnazione. Ma gli è affatto impossibile che voi leggendo nel chiuso de' nostri animi, non ravvisiate chiarissimamente, che gl'indugi e i trattenimenti tornano per noi quasi quanto per voi amarissimi. Piaccia a Dio e alla fortuna d'Italia, o d'interromperli presto, o tanto più accrescere e assicurare la felicità e pienezza del buon successo, quanto più lungo e doloroso sarà l'aspettarlo.

A ogni modo, quello che mai dalla mente vostra non dee fuggire, si è che tra la quiete e le armi, tra l'eroica pazienza e l'eroico insorgere, non istà nulla per mezzo; e che il peggiore sarebbe confondere le due cose, e versar sangue infruttifero, e dar pascolo frequente alla rabbia de' vostri oppressori con parziali conflitti ed ammazzamenti.

In secondo luogo, desideriamo e preghiamo che vi sia sempre raccomandato il minuto popolo, massime quello sì numeroso e sì bisognevole del contado; e che non vi paja dura nessuna fatica, nessun dispendio, nessuna sollecitudine per obbligarvelo e affezionarvelo. Senza la plebe, tutte imprese grandi vacillano, e le politiche sono impossibili. Raccogliesi da indizj parecchi, che i vostri nemici si studiano di seminare zizzania e risentimento tra i poveri e i facoltosi, tra i signori e la plebe; e si fa verisimile molto, che [224] qualche nuovo editto di Polizia verrà promulgato, gravoso alli benestanti e lusinghevole alla gente minuta. Rispondete, o fratelli, alle arti malvage, con benefizj e larghezze maggiori inverso le moltitudini; ond'elle s'accorgano e si persuadano, che non già lo straniero, ma voi, e voi solamente siete gli amici loro operosi e sinceri, e il naturale presidio e la durevol tutela. Affrettisi ognuno a istruirle, affrettisi ognuno a beneficarle; e quando spunteranno giorni di grandi prove, e qualcuno di voi, sceso nelle piazze, griderà: Popolo, a me, questo, non mai ingrato nè tiepido, risponderà tostamente: Siam teco, menaci dove vuoi; tu sei il nostro amico e benefattore: teco ritroveremo o la salute o la morte.

(Dalla Lega Italiana.)

CENNI D'UNA LEGGE ELETTORALE.

1 marzo 1848.

Machiavello scrive, che dal fiero strazio e dalle frequenti battiture delle fazioni, Fiorenza in pochi anni di tregua e di pace risorgeva così vigorosa, che non solo rifacevasi largamente de' danni passati, ma lasciavasi addietro quasi ogni altra italiana in prosperità e in ricchezza. La qual cosa, aggiunge quel gran pensatore, procedeva singolarmente dalla partecipazione immediata d'ogni cittadino al Governo ed alla sovranità; il che promoveva in ciascuno un tal senso della dignità e importanza propria, che le facoltà e virtù della mente e dell'animo in supremo grado s'ingagliardivano. I nostri tempi avendo abolito i comizj e l'uso delle imborsazioni, e potendo le moltitudini partecipare al Governo solo indirettamente coi mandati che affida ai rappresentanti, a noi sembra, parlandosi in genere, che sia molto male ristringere il numero degli elettori, e molto bene allargarlo; perchè gli è un diffondere in tutto lo Stato il più importante esercizio e il più nobile della vita politica; e gli è, quindi, un accrescere ne' cittadini quell'alto sentire di sè, che nelle antiche nostre Repubbliche trovasi avere operato tanti prodigj.

[225]

Ciò poi s'accorda con la ragione e col dritto; perchè, a dir vero, la ragione non concede l'imperio se non ai sapienti ed agli ottimi, e questi debbono essere dall'universale riconosciuti e salutati: e però, sotto tale aspetto, quella legge di elezione dovrà reputarsi migliore, ch'esclude dall'atto di solenne e spontanea ricognizione coloro soltanto ne' quali difetta compiutamente la facoltà di ravvisare e stimare il pregio degli uomini.

Alle moltitudini accade talvolta d'ingannarsi intorno al proprio bene e profitto; ma più spesso accade che i facoltosi ed i maggiorenti scordino l'altrui bene, o non se ne curino. Da ciò è proceduto, che le moderne Costituzioni poco hanno giovato la parte più numerosa e più sfortunata del popolo. Sotto quest'altro aspetto, adunque, tanto la legge elettorale parrà più giusta, quanto farà giungere al Parlamento più numerosi patrocinatori del popolo minuto.

V'ha nello Stato due specie differentissime d'interessi; il privato de' Municipj, e il generale di tutta la Patria. Il perfetto temperamento consiste nel conciliarli, e non nel sottomettere affatto e senza misura il primo al secondo; come in Francia si fa sovente, ed altri paesi s'avviano a fare. Per tal riguardo, che è pure di gran momento, la legge elettorale migliore si dirà quella che faccia ne' Parlamenti rappresentare, con giusto equilibrio, ciò che vogliono le provincie e i Comuni, e ciò che lo Stato esige e desidera.

Due cose, poi, eccellenti (dicemmo noi, giorni addietro) sono nel mondo; l'istinto e il buon senso delle moltitudini non idiote, e la scienza fine e consumata dei pochi. Gli è, dunque, con ogni industria da procacciare che il consesso dei Deputati raccolga in sè quelle due eccellenze; e v'abbia da un lato chi sia pieno dello spirito popolare; e chi dall'altro partecipi alla sapienza dei pochi; e di questi ultimi v'abbia i pratici ed i teorici, i sommi speculatori e i sommi amministratori. Dove trionfa la sola democrazia e il numero fa la legge come in America, la plebe padroneggia troppo sovente ogni cosa, e sparge da per tutto le sue passioni e preoccupazioni. Quivi, così gli ambiziosi, come coloro a cui preme di servire e giovare la patria, fannosi a corteggiar la plebe, e [226] pensieri affettano ed usi ed eloquenza plebea. Debbesi pertanto studiare un modo, il quale senza togliere al popolo il dritto di concorrere all'elezione e farsi validamente patrocinare nei consessi legislativi, conservi agli uomini d'alto ingegno e d'animo indipendente la libertà d'opinione, e gli esenti affatto o dalla necessità o dall'utile di plebeizzare. Dee procurarsi altresì che le minoranze (come le chiamano) non siano più del convenevole sopraffatte dalle maggioranze; e perciò, dee lasciarsi aperta una qualche via onde alle persone di singolar merito che hanno ottenuto il suffragio di tale o tal municipio, ma non quello del generale scrutinio, si possa ciò nonpertanto ascrivere la dignità e l'ufficio di Deputato.

Infine, forza è consentire, che nelle città dominanti v'è più sapere e maggiore esperienza, e che i pensieri vi si compongono meno angusti, e il modo di giudicare è più franco, e procede con massime razionali ed universali.

Dopo queste considerazioni, osiamo trascrivere qui alcuni cenni d'una proposta di Legge Elettorale Italiana: e diciamo Italiana, non perchè molto diversa da tutte le forestiere, ma perchè pon sue radici nel municipio e negli istituti letterarj, i due più antichi e più peculiari elementi della civiltà italiana. Per mostrar come in rilievo, e quasichè a dire in concreto, il nostro concetto, noi l'applichiamo particolarmente allo Stato Romano, ove preparasi una legge municipale larghissima, e ove la forma attuale della Consulta di Stato ha suo fondamento ne' Consigli comunitativi e nei provinciali.

1. In ogni Comune di mille e più abitanti, chiunque partecipa all'elezione dei consiglieri municipali, partecipa similmente e con egual diritto a quella de' Deputati.

2. Tutti gli elettori sono eligibili.

3. In ogni Comune di mille e più abitanti, ai debiti tempi e con le forme prescritte, tutto il Corpo degli elettori municipali raccogliesi in Collegio elettivo per procedere alla scelta dei Deputati.

4. Son esclusi dal Collegio que' soli elettori che dànno voto nel Collegio elettivo della provincia, come più avanti dichiarerassi.

[227]

5. In ogni Collegio di municipio saranno eletti a pluralità di suffragi tre Deputati delli sei che manda ciascuna provincia. Ma gli eletti serbano nome di candidati fino allo spoglio degli scrutinj che adempie il Collegio elettivo della provincia, come dichiarerassi nel numero 9.

6. I nomi dei prescelti, il numero totale degli elettori, quello dei presenti allo scrutinio e il numero dei voti raccolti, saranno da ciascun Collegio inviati al presidente ordinario del consiglio provinciale.

7. Nel giorno stesso che avvengono le elezioni in ciascun Collegio di municipio, convocasi il Collegio elettivo della provincia nella città ove il Consiglio provinciale risiede. Tal Collegio è composto dei consiglieri di provincia ordinarj. Vi si aggiungono: 1º I rettori degl'istituti pubblici d'educazione; 2º I rettori de' Licei; 3º Il presidente e il segretario di ciascuna Accademia o dal Governo riconosciuta, o che sussiste da dieci anni e stampa gli atti delle adunanze; 4º I presidenti de' Tribunali di prima istanza e d'appello.

8. Il Consiglio provinciale, con gli elettori aggiunti, sceglie a pluralità di suffragi due deputati.

9. Due dì dopo l'elezione, il Presidente ordinario del Consiglio provinciale, il Gonfaloniere della città, il Legato della provincia, il primo Segretario di Legazione e due Assessori, rivedono l'atto di elezione di ciascun Collegio, e proclamano i nomi de' tre candidati sui quali cade il maggior numero di voti. Tal numero dee risultare dal paragone di tutti gli scrutinj onde sono usciti i nomi di tutti i candidati.

10. Lo Stato è spartito in due divisioni, meridionale e settentrionale: della prima è capo Roma, della seconda Bologna. Roma invia al Parlamento nove deputati, e Bologna sette: l'elezione si fa dal Corpo degli elettori municipali, eccettuati quelli che dànno voto nel Collegio provinciale. I Consigli provinciali di Roma e Bologna costituisconsi, come altrove, in Collegio elettivo, procedono alla scelta di due deputati; e quindi allo spoglio degli scrutinj di ciascun Collegio municipale, eccetto quello di Roma e Bologna.

11. Ma gli elettori aggiunti ai consiglieri ordinarii, sono il doppio di numero; e porzione è levata dalle categorie sopraddescritte; [228] porzione dalle maggiori dignità letterarie e forensi che porgono le due principali città dello Stato, e non sono nelle provincie, come i rettori dell'Università, il Presidente del Tribunale di ultimo appello, ec.

12. Al Collegio provinciale di Roma è inviata la nota dei candidati di tutte le elezioni dei Collegi municipali compresi nella divisione meridionale, e al Collegio provinciale di Bologna è inviata quella di tutti i Collegi municipali compresi nella sua divisione.

13. Dopo ciò, i due Collegi provinciali scelgono su quelle note di candidati o fuori di quelle, a pluralità di suffragi, un Deputato per ciascuna provincia. E così è pieno il novero dei Deputati e consumata l'opera dell'elezione.

Mancano a questo abbozzo di legge moltissimi particolari completivi ed esplicativi. Ma quando il concetto suo generale sia falso, non gioverebbono quelli per raddrizzarlo; e dove, per lo contrario, ei si combaci in buona parte col vero, il pronto ingegno de' lettori supplirà al rimanente.

(Dalla Lega Italiana.)

[229]

Fu dettata questa Lettera appena giungeva notizia della sollevazione parigina del 48, e venne qualche dì dopo mandata fuori in Firenze dal Le Monnier. Ciò non pertanto, ella sembra in molte sue parti piuttosto narrazione che previsione; effetto questo del diligente ed assiduo studio che l'Autore à posto a conoscere le condizioni morali e civili della nazione appresso la quale trovò rifugio e ospitalità cordialissima per lunghi anni.

[231]

LETTERA AD ANTONIO CROCCO, INTORNO AGLI ULTIMI CASI DI FRANCIA.[11]

Di Firenze, li 10 di marzo del 48.

Questi giorni addietro, essendo io in procinto di lasciar Genova e venirmene giù in Romagna per provvedere alle cose mie, cessai del tutto di scrivere nella gazzetta La Lega, non mi bastando il tempo nè il capo di attendere a parecchie private faccende e di dettar fogli sopra materie gravissime come le dà ora il mutamento avvenuto di là dall'Alpi. Ciò à sembrato a qualcuno una specie d'artifizio per non dichiarar la mia mente e le mie previsioni in subbietto incerto e rischioso. Io m'affretto, pertanto, a manifestare e spiegare al pubblico quel che io ne penso, il più distintamente che io posso e per quanto me ne dà arbitrio la legge;[12] stimando assai minor male il prendere errore nel giudicare gli eventi umani, che l'incorrere taccia d'artificioso e dissimulato: benchè, a dir vero, il silenzio mai stato non sia reputato nè arte nè dissimulazione; ma in tempi difficili, gli animi sono inchinati al sospettare, e i giudicj hanno qualcosa d'immoderato, come gli avvenimenti. Però io studio di difendere la reputazione mia; ed a voi singolarmente la raccomando, amico caro ed egregio, siccome a colui che vincendo tutti di bontà e rettitudine, dovete della lealtà e schiettezza delle intenzioni intendervene più che bene. Quanto è poi al valore di questi miei pareri, se mai in veruna cosa non può esser grande la importanza delle mie opinioni, impedendolo la scarsità dell'ingegno e dell'esperienza, ne' nostri giorni elle debbono assomigliare ai sogni ed ai vaniloquj: [232] perchè ora la scienza stessa consumatissima de' più prudenti sembra divenire inutile; e da un lato, ogni paradosso piglia baldanza di apporsi alla verità; come dall'altro, non v'à raziocinio fondatissimo ed evidente che non pericoli di mentire.

L'ultima rivoluzione di Francia è di sì gran momento per tutta l'Europa, che vi si possono ordir sopra infinite questioni e in infinite parole condurle. Ma io voglio esser breve, secondo mio istituto e come porta una semplice lettera. Senza che, le menti sono a questi dì in sì fatta guisa distratte e preoccupate, che il lungo sermonatore non trova uditorio. Io risolvo, quindi, di far parola unicamente di quelle domande che ricorrono sulla bocca di tutti, ed ànno riferenza maggiore con le cose d'Italia. E per produrre un discorso alquanto metodico, mi torna bene dividerlo per paragrafi, ed a ciascuno apporre la sua rubrica.

§ I.
Se la rivoluzione ultima di Parigi sia pel progresso civile un bene od un male.

Per definir la quistione, accade prima guardare se nel governo repubblicano uscito della rivoluzione s'incontrino le qualità e disposizioni dalle quali s'argomenta la fermezza e stabilità delle cose, ovvero il contrario. E per certo, se la repubblica non durasse, come la rivoluzione fallito avrebbe il fine suo, mancherebbe la principal cagione di lodarla e chiamarla un bene e un profitto. Secondamente, occorre considerare, se la repubblica potrà tenere inverso del popolo le promesse singolarissime che gli fa; perchè, quando a lei non fosse fattibile di tenerle nemmanco mediocremente, le opinioni repubblicane scapiterebbero forte, e gli animi in generale perderebbono molto della fiducia e speranza in quel progresso civile che la Francia presume di maturare così prontamente. In fine, egli è lecito agl'Italiani di valutare il male ed il bene dell'ultime mutazioni a rispetto di sè medesimi, e pel vantaggio o il danno che sta per procederne ad [233] essi in particolar guisa. Ciascuna di tali cose noi metteremo in distinta considerazione: ora qui notiamo soltanto alcuni pregi ed utilità, e d'altra parte alcuni demeriti e danni parziali dell'avvenimento straordinario e impensato del quale Parigi medesima sbalordisce.

Io dico, pertanto, che ogni accadimento di simil genere è di gran profitto ed insegnamento agli uomini; ed anzi, è di tanto maggiore, quanto quello arrivò inopinato e contra l'aspettazione e il giudicio dell'universale. Un volume intero non capirebbe forse tutte le dottrinali sentenze e i documenti e precetti politici che scaturiscono dall'ultimo moto francese: ma, per toccare un poco d'alcuni, e di quelli segnatamente che ànno più spessa e facile applicazione, vedesi, per primo, riconfermata con terribil suggello la massima del Segretario Fiorentino, che, cioè, nessun nuovo re dee rischiarsi a combattere quel principio in virtù del quale salì al trono. Ma, certo, Luigi Filippo salito in seggio a nome della libertà e per odio della Santa Alleanza, tanto ristrinse le libertà quanto n'ebbe agio, e carezzò poi fuor di modo e senza pudore i governi assoluti e nemici di Francia. Oltre a ciò, regnando egli principalmente per lo sostegno e i suffragi del ceto[13] mezzano, mai non dovea nè poco nè molto alienarsene l'animo e disamorarlo del suo governo. Per fermo, quello sopratutto che nella giornata memorabile del 24 di febbrajo fece traboccar la bilancia e dar la vittoria alla plebe, fu l'inerzia e lo scontentamento della Guardia Cittadina, composta quasichè per intero del ceto mezzano. Ma re Luigi Filippo è stato da tre principali cagioni indotto in inganno: dall'adulazione crescente ed ipocrita dei governi assoluti; dalla pienezza e facilità dei primi successi; e, in fine, dal troppo basso concetto ch'ei s'era formato degli uomini in generale, e più specialmente de' mezzani cittadini suoi difensori, i quali a lui comparivano non altra cosa salvo che una turba di trafficanti, desiderosi di guadagnare e di spendere e di menar vita grassa e tranquilla. Il perchè, stimava [234] egli con la pace e il riposo a qualunque costo serbati, e con la frequenza e moltiplicazione dei traffichi e delle industrie, tenerseli sempre amici; dimenticando così, che gli uomini, e massimamente i Francesi, mai non sono una cosa intera e omogenea, ma un misto di molte e diverse: senza dire che per resistere alla plebe ardita e scontenta, non basta la pura indolenza degli altri ceti, ma bisogna la vigilanza e lo zelo; e questo non vive se non con l'affetto profondo, o con lo stimolo acuto e incessante degli interessi. Negli uomini è in generale molta fiacchezza, ed ella degenera non radamente in viltà; ma la natura nemmanco permette loro di scordarsi del tutto la parte gentile e generosa dell'animo dalle sue mani medesime fabbricata. Di quindi avviene che i principi i quali si fidano e fan capitale della sola porzione volgare ed interessata del cuore umano, trovansi un bel giorno ingannati: il che molte volte accadde, e moltissime succederà per l'innanzi, conciossiachè i principi per isventura non veggon sovente daccosto a loro risplendere l'alterezza, la dignità e la grandezza umana; e benchè non dovessero misurare il rimanente del mondo dai cortigiani, pure per abito naturale il fanno, e ruinano. Insomma, nessun impero è saldo nel mondo se non à fondamento in alcuna forza morale; nè si dà forza morale durabile veramente, se non concilia con gli interessi la coscienza del bene. Ma troppo era vecchio Luigi Filippo a mutar metodo ed opinione: e così riman vera eziandio l'altra sentenza del Machiavello, che gli uomini pajono grandi e sapienti il più delle volte perchè l'indole loro si conforma affatto coi tempi; ma se questi o mutano o si alterano profondamente, non sapendo quelli fare altrettanto perchè la natura e l'abito non lo concedono, debbono guastare la propria fortuna, e cadere.

Tali e inumerabili altri avvisi ed ammonimenti porge a pensare l'ultima rivoluzione di Francia, ed è questo per sè un profitto molto notabile a tutti i popoli. In essa è altresì un pregio comune con quella del 1830, e che merita singolar lode. Io vo' dire che ambedue sonosi unicamente imprese e compiute per dar ragione e sicurezza al diritto, e per allargare e riconfermare [235] le pubbliche libertà. Per lo certo, nel 30 il ceto mezzano non combatteva dallato al popol minuto per questo fine speciale di conquistare predominio ed autorità; come, parimente nel 48, la plebe non à creduto di vincere per solo difendere e migliorare le condizioni sue proprie. In ambidue i tempi si corse all'armi e si versò molto sangue a nome di alcuni generali principj di giustizia e di libertà, e per ardore di sentimenti generosi e magnanimi: la qual cosa torna ad onore particolare di Francia e della sua civiltà; e a tutte le culte nazioni dee recare conforto e coraggio il sapere che v'à un popolo nel bel mezzo d'Europa il quale fia sempre prodigo del suo sangue per rivendicare alcun diritto comune, e aprir nuove vie al perfezionamento sociale e politico.

Ma d'altra parte, e quantunque io sappia affermando ciò di sgradire e contraddire a moltissimi, pure non tacerò ch'ei non si dee reputare assai ferma e savia l'indole d'una nazione, nè assai progredita e matura la sua vita politica, quando per abolire alcune pessime leggi e impossessarsi d'alcune franchigie, noi la scorgiamo non saper ritrovare altro mezzo che la via del ferro e del sangue: e questo dico in ispecial modo per la rivoluzione ultima del 24 febbrajo; conciossiachè, nell'altra del 1830 fu dura necessità di resistere a un improvviso e violento assalto di tirannide armata. Io pertanto mantengo che in quell'intervallo di diciassette anni compiuti, qualora ai Francesi meglio educati e più autorevoli e savj non avesse fallito il coraggio civile, la perseveranza e l'unione, e quando elli avessero voluto e saputo por mano a tutti i mezzi efficaci e legali che lor porgeva la Carta per conseguire o ricuperare tale franchigia e tal'altra, niuna forza, niuna abilità, niuna scaltrezza, niuna corruttela di governo e di deputati potea frodarli del lor desiderio. Ben è vero che non è da imputarsi cotale errore alla plebe, la quale scorgendo da un lato la pervicacia del principe e dall'altra la inettitudine d'ogni ordine dello Stato a spezzarla e domarla, ebbe ricorso al vigore delle sue braccia, e da sè medesima ricomperossi dell'umiliazione soverchia in cui governo e governati lasciavano lei e la Francia intera in faccia alle [236] culte nazioni che la circondano. Ma perchè la vittoria sembra magnificare ogni cosa e persino gli eccessi, e l'Italia precipita sempre ad imitare ogni fatto straniero, però giova di ricordare, che se la plebe à in Francia compiuto il suo debito in modo maraviglioso ed eroico, avevano innanzi mancato al debito loro tutte le altre parti della nazione: e ciò è quivi accaduto troppo sovente, e non per mera accidenza; il perchè quel popolo vanta infinite e strepitosissime vittorie d'armi, ma vittorie civili assai poche: e pur queste sono le sole desiderabili, e dovrebbero esser le sole del nostro secolo.

§ II.
Se la repubblica nuova francese mostri di potersi reggere lungo tempo.

I Francesi di maggior conto, e d'ingegno e studio più consumato, tenevano per impossibile il buttare a terra Luigi Filippo, propriamente per questo, che tra la repubblica e lui non rimaneva altro termine a cui appigliarsi. Ora, quella impossibilità stessa di mettere alcuna cosa in mezzo fra il governo presente e la discendenza di Luigi Filippo o di Carlo decimo, terrà in piedi la repubblica. Conciossiachè il frutto più naturale della vittoria ottenuta, si è di volere sperimentare il governo nuovo che n'è uscito, e che è il solo espediente non messo in uso da lungo tempo e non caduto di credito: però, niuna forza può ora subito ricondurre i Francesi a rifar quello di cui a gran pena si sono disfatti. E per questa necessità che sente ciascuno, vedete come tutti riconoscono a gara il governo temporaneo repubblicano, maravigliati insieme e orgogliosi di possederlo. Ma esaminando la cosa alquanto più addentro, io porrò prima in ricordazione, che la plebe parigina non professava da sedici anni a questa parte altre opinioni politiche, salvo le schiette repubblicane. Ben si potea giudicare che non isperasse di condurle ad effetto; e come viveasi fuor modo scontenta ed amareggiata di tutto quello che intorno di lei si operava, così facea mostra, massime negli ultimi anni, di poco o nulla attendere alla [237] politica. Ma non però cangiava, o temperava le opinioni ed i desiderj. Al presente, avendola il coraggio suo proprio e l'altrui cieca ed inesplicabile improvedenza fatta signora ed arbitra dello Stato, e posseditrice di quella forma di governo che secretamente agognava, noi non iscorgiamo cagione e potenza alcuna capace di prontamente dispossessarla della conquista: e a quel che pare, ne vive non poco gelosa; e nulla varrebbero appresso di lei i nomi, le lusinghe, le promissioni, le vie mezzane e i termini conciliativi che altra volta la sedussero; imperocchè l'esperienza è tanto vicina, la memoria tanto viva, e l'illusione così poco durata, da non lasciare speranza veruna di ritessere le arti medesime. Oltre che, la repubblica in Francia è l'ultimo effetto e il termine ultimo di quel corso preordinato e fatale che ivi ànno proseguito le cose. Perchè in antico vi fu spiantata col ferro la grossa feudalità; poi col ferro, con l'arte e col dirozzare le moltitudini, caddero l'uno vicino all'altro i corpi privilegiati. Nel 30, il terzo stato (come il domandano) raggiunse il colmo delle sue libertà e del suo predominio. Nel 48, infine, comparisce la plebe, e segna l'ultima evoluzione di quel riscuotersi ed affrancarsi di tutte le classi, il quale è testimoniato da ogni pagina della storia moderna, e in cui forse si adunano e si sustanziano i fatti più eminenti e cospicui dell'èra presente. Ora, perchè la plebe trovi suo luogo allato agli altri ordini e le sia conservata una qualche balía, fa duopo imprimere nello Stato la forma più popolare che dar gli si possa; e questa o risolvesi nella dittatura, la qual carezza la gente inferiore per combattere chi sta sopra; ovvero risolvesi in pretta democrazia. Ma uscendo di tali generalità, e riducendo il discorso al fatto della sussistenza della repubblica nuova francese, a me non si lasciano immaginare se non quattro cagioni per virtù delle quali potria essa repubblica venire atterrata: e sono, il volere della plebe e della nazione mutato; il volere e la forza d'alcuna classe speciale di cittadini ovvero di tutte, levatane solo la plebe; la stanchezza delle continue mutazioni e dell'anarchia; la violenza delle armi straniere. Il primo supposto per niente non è probabile, perchè un desiderio sì vivo e ostinato di [238] sì gran moltitudine non può cangiare per lievi cagioni, ma per molto straordinarie ed inopinabili; e tuttochè le provincie si differenzino alquanto dalla metropoli, e in alcune parti della Bretagna e in alcune del mezzogiorno i campagnoli favoreggino tuttora in cuore la causa regia, io non dubito che dalle assemblee primarie non esca una pluralità più che grande di voti per la repubblica. Nessuna probabilità si accompagna neppure col secondo supposto, cioè che le classi agiate insorgessero contro la plebe per ristorare la monarchia; conciossiachè, o non sarieno tanto ardite, o venendo pure alle armi ed al sangue, del sicuro, soccomberebbono. Nel terzo supposto ci è molto minore inverisimiglianza; ma solo il tempo vale a condurre la sazietà e la stanchezza; e innanzi di giungere all'ultimo effetto di queste, ricercasi una lunga serie di prove e di tentamenti sfortunatissimi. Il quarto supposto, poi, dell'intervenimento della forza straniera, troppo è difficile ad avverarsi e a mettersi in atto nel presente stato d'Europa, come presto discorreremo. Seguita da tutto ciò, che, per mio avviso, cagione molto prossima ed efficiente della caduta della repubblica, non appare e non si conosce. Forse taluno vorrà tra esse annoverare lo sgomento e il ribrezzo che à lasciato di sè la repubblica sanguinosa del 93. Ma ciò potea valere a non farla nascere, ma è insufficiente a distruggerla; perchè i mansueti ed i timidi non oseranno affrontare il pericolo che va insieme con quella caduta, ed invece si volteranno a sperare che la repubblica d'oggidì dissomigli al tutto dalla passata; e al governo provvisorio si scorge che sta molto a cuore di insinuare negli animi cotal concetto, e però ha decretato l'abolizione della pena capitale per le incolpazioni politiche. Insomma, il volgo che sempre è credulo e speranzoso, e scambia di leggieri il fatto col desiderio, mostra di rinnovare sotto a' nostri occhi la favola della volpe, la quale la prima volta che s'imbattè nel lione, ebbe a morir di paura, ma la seconda si fece un po' animo, e la terza gli stiè discosto sol dieci passi ed entrò seco in parole. A me poi sembrano alquanto curiose eziandio le nostre gazzette, le quali si sbracciano a dimostrare che le stragi e i supplizj della passata repubblica non possono ricomparire, [239] unicamente per questa ragione, che i tempi nostri sono umanissimi e vincono tutti gli altri di dolcezza, di tolleranza e magnanimità. Questa presunzione che à ogni secolo di soprapporsi agli antecedenti in ogni bel pregio della mente e dell'animo, a me si rappresenta come una gran vanità, e nessun vero filosofo la può menar buona. Oh non sanno costoro quanto era umano e benigno il secolo scorso, massime in sull'ultimo scorcio suo? Forse che non predicavasi contro la pena di morte dal Beccaria, con lode e compiacimento di tutta Europa; e Caterina II e Leopoldo I non la sbandivano da' loro codici? Per certo, nessuno avrà ingegno da vincere gli enciclopedisti in soavità di affetto e in mansuetudine di consigli; e con le parole sul labbro di fratellanza e d'amore iniziarono i democrati del secolo scorso le lor repubbliche transitorie e non innocenti.

Per buona ventura, ciò che rimuove da' nostri tempi il rischio e il sospetto di veder rinnovate le calamità e le stragi onde ancora si piange e si teme, non consiste meramente nella bontà e tenerezza dei cuori odierni, ma nell'essere dappertutto cessate le cagioni precipue degli odj profondi, e delle ostinate e risorgenti persecuzioni. Veramente, una caparra di lunga pace e di agevole conciliazione e concordia, fu data agli uomini il giorno che l'uguaglianza civile entrò nella ragion delle leggi e nella pratica della vita. Sembrano, adunque, mancare nel governo nuovo repubblicano le intestine provocazioni alle passate violenze ed atrocità; e mancherannogli poi le esteriori, se i regni circonvicini risolveranno di non minacciarlo e di non costringerlo a disperati partiti e difese.

§ III.
Se la repubblica può mantenere quel che promette.

Ciò che moltiplicar potrebbe in Francia i disordini, e produrre prestamente fastidio e stanchezza negli animi, e quindi preparare la lor soggezione a un governo dittatorio assoluto, sarebbe se la repubblica in niuna guisa potesse appagare ed affezionarsi la moltitudine ond'ella è sorta. E [240] però, noi dobbiamo con più diligenza riandar la materia da questo lato. Nel dì stesso della vittoria, la plebe mandava attorno un Programma ove son registrati i suoi desiderj, e ove s'accenna in qualche modo il nuovo diritto pubblico ch'ella intende di promulgare. Il qual Programma è da curarsi e da esaminarsi in ogni sua parte; perchè, quanto difetta di formole ministrative e di ordinamento scienziale, tanto mostra alla scoperta il moto primo dell'intelletto del popol minuto, e c'insegna con sicurezza i voti e l'esigenze più vive ed universali. Tre specie di enunciati son nel Programma: l'una discorre delle istituzioni interne politiche; l'altra delle corrispondenze esteriori; l'ultima di alcune novità ed istituzioni interne sociali, come si usa chiamarle al dì d'oggi.

Delle innovazioni politiche, non sarà troppo malagevole contentare la plebe; ma ne risulterà una tale democrazia, e sì fattamente pura e gelosa di sue potestà, che il popol minuto sempre farà prevalere la volontà propria su quella degli altri ceti, e l'impero del numero non avrà verun contrappeso. In America è tuttociò temperato dalle condizioni peculiarissime di quella contrada, che porgono modo di provveder sempre alla sussistenza dell'infimo popolo: un altro temperamento viene colà dalla forma confederativa, la qual reca meno impeto nei consigli e nelle opere, e lascia al congresso centrale il trattar solo i negozj effettivamente e universalmente comuni, e però più larghi e meno mischiati di passioni e preoccupazioni. Il Senato eletto a ragione di Stati e non di popolazione, e le franchigie comunitative estese e intangibili sono un terzo e validissimo temperamento. Ma in Francia, sino a che la plebe rimarrà sveglia e manterrà suo potere, le assemblee vestiranno un carattere tribunizio assoluto, e i deputati più ambiziosi vedrannosi astretti a plebeizzare, quanto in America e più. Non àvvi, al parer mio, buona e leale rappresentanza di tutto il popolo, e non è in questa potere e virtù efficace e fruttifera del bene comune, che allorquando nelle assemblee raccolgonsi i due elementi migliori dell'universale intelligenza: cioè a dire, l'istinto morale e il buon senso pratico delle moltitudini dirozzate; e la fina e meditata sapienza dei pochi, la qual dee [241] giungere al parlamento per la sua propria virtù e valentía, e non mendicando il suffragio di chi non sa e non può giudicarla. Egli è forte da dubitare che le assemblee sovrane e costitutrici in Francia trovino un ordine di elezione il quale risponda al nostro concetto.

Il Programma soprannotato, racchiude altresì alcuni enunciati, o, a dir meglio, alcuni voti e proposte delle dottrine sociali moderne. Esso vuole che tra i lavoranti da un lato e chi li adopera e paga dall'altro, intervenga un accordo tale, che il maggiore utile del secondo mai non si converta in iscapito o in profitto minore de' primi, ed, e converso, il profitto di questi torni eziandio a bene di quello. Vuole il Programma in secondo luogo, che l'educazione morale e intellettuale diffondasi nel popolo di maniera sì larga, imparziale e compiuta, da non impedire ad alcuno il franco e pieno esercizio d'ogni diritto civile e politico. Esso vuole, infine, che ai giornalieri e braccianti mai non sia per mancare il lavoro: e dove i privati non lo porgessero, provveda lo Stato, e il fornisca egli di continuo ed a tutti.

A rispetto della prima pretesa, che, cioè, il governo concilii ed unifichi gl'interessi de' lavoranti e di chi li adopera nelle officine e in altre bisogne, è follia di sperare che cotal fatta di accordi e di aggiustamenti possa procedere da una legge. V'à molte forme e guise d'associazione tra gli artigiani, e quella pure vi si conta la qual consiste a fare insieme le spese, insieme faticar il lavoro e insieme spartire il guadagno. Ma, tuttavolta che da una banda sarà il capitale e l'ingegno, e dall'altra la nuda opera delle braccia, nessuna legge e nessuno spediente varrà a rimuovere l'antagonia tra le due parti; e quello che finora fu speculato intorno al subbietto, o riuscì insufficiente, o illusorio e non praticabile affatto. Piacesse a Dio che si potesser levare da entro il consorzio umano le antagonie! ma ve n'à delle necessarie ed irremovibili, perchè pongon radice nell'intima costituzione dell'uomo: ed anzi, che è la natura senza contrasti? Ei pare che rimosse le contrarietà cesserebbe ogni moto, e i germogliamenti e gli effetti dell'universal vita s'ammortirebbono essi pure, e di mano in mano dileguerebbero.

[242]

Quanto alla seconda richiesta della pubblica educazione, a me non par dubbio che un governo popolare davvero, e caldo zelatore dell'utile dell'infime classi, propagar non possa e moltiplicare quel bene infinitamente di più e meglio che non s'è fatto fino al dì d'oggi in Europa. Ma due cose son da notare su tal proposito. L'una è che l'educazione è termine relativo, e relativa è la convenienza e proporzione di lei con l'esercizio di tutti i diritti civili e politici. Quindi, se vuolsi in Francia che la repubblica renda, a breve andare di tempo, ogni cittadino capace di entrare al parlamento e scrutarvi le leggi, non chiedonsi più fatti umani ma sovrumani, e d'altro pianeta che non è questo il quale abitiamo. Se vuolsi, invece, che la repubblica proceda con metodi tali, che la cultura dell'ingegno e dell'animo sempre più s'accresca e si spanda nel popol minuto, ciò non solamente è fattibile, ma sta segnato fra gli uffici e le obbligazioni primissime d'ogni virtuoso e illuminato reggimento. L'altra considerazione da compiere e da tener qui presente, si è, che per isventura tutto ciò che riferiscesi in diretto modo all'intelligenza ed al cuore, à natura tanto spontanea ed incoercibile, che mal si può domandare a un governo e ad una legislatura di porlo ad effetto per vie immediate e mezzi imperiosi. Possono i reggitori e i legislatori mettere in arme un esercito, costruire una flotta, decretare spedizioni e conquiste; non possono per via d'impero e con sicurezza di frutto costringere un sol villaggio a lasciar l'ignoranza ed addottrinarsi.

Per ultimo, ha domandato la plebe in Parigi, che ad ogni operajo venga cotidianamente e senza pericolo d'interruzione fornito il lavoro, e col lavoro accertata sussistenza. Ma di ciò, come di materia gravissima e ancora molto involuta, faremo discorso distinto e particolare.

§ IV.
Se la repubblica può fornir lavoro cotidiano agli operai che ne mancano.

Per prima cosa, chi entra a speculare su tali argomenti e non à grande uso, badi di non iscambiare le dispute e le [243] speranze de' comunisti con quelle de' socialisti. Ai primi sta fitto in capo di credere che possa il mondo civile pervenire alla comunanza dei beni, e quindi abolire affatto la povertà. Questa teorica è tanto disforme non pure dai fatti fin qui durati fra gli uomini, ma dall'essere intrinseco delle cose, che non diviene pericolosa se non fra genti di grosso ingegno e selvatiche, o pel soverchio dei mali e dell'oppressione accecate e infreneticate. Non vive a questi dì in veruna città d'Europa una plebe così pronta d'ingegno, provveduta di cognizioni, accorta, sperimentata e di buon giudicio come la parigina: il che ha bastato per disseccare le barbe del comunismo in sul primo mettere che facevano; e tutto il lor succo è stillato nella repubblica Icaria, i cui cittadini, come s'impara dal nome, hanno l'ale appiccate con un poco di cera, e mai non esciranno del labirinto che sonosi compiaciuti d'architettare a lor posta.

Ma un'altra generazione di scrittori è in Francia, che ha per intento speciale di meditare su quelle forme comuni di vita socievole, e su quegli istituti generalissimi che appajono in ogni parte del mondo cristiano, rimangono quasichè inalterati per mezzo alle mutazioni e alle rivolture politiche, e compongono tutti insieme l'ordine e l'assetto primo ed elementare in che si riposa da secoli la parte più civile e più culta del genere umano. A tali scrittori suolsi dar nome di socialisti; e non ostante che parecchi di loro trasmodino e corrano a immaginare sistemi speciosi d'umana socialità, pur nondimeno il concetto che sveglia le lor fantasie è nobilissimo e fondatissimo; e in quello s'appuntano tutte le investigazioni della filosofia civile; in quello fermò la mente Platone, e gli altri insigni intelletti che guardano come da specola eccelsa i moti, i portamenti e le condizioni della intera famiglia umana. Ma da un lato, sonosi questi scrittori imbattuti in fieri problemi che sembrano chiusi e sepolti a qualunque intelletto; e dall'altro lato, l'indole peculiare degl'ingegni francesi mal si confà e si proporziona con essi: imperocchè l'acume non basta ove domandasi profondità; nè la perspicacia analitica, ove si desidera il sicuro sguardo sintetico; nè l'ordine, la lucidezza, il minuto distinguere, [244] il presto concludere, il facile concepire, ove bisogna per vie implicate e tortuose aggirarsi, ove la minutezza, la facilità e la speditezza non colgono e non abbracciano se non la buccia e le foglie. Da ciò è seguito, che i libri de' socialisti francesi con molte parole recano poca sostanza, e filosofano poetando, e fabbricano castelli incantati. Ma in Francia ove ogni cosa si volgarizza, e la scienza è trattata in modo assai piano e con favellare accessibile all'intendimento comune, quelle gran parole droit de travail, organisation du travail, solidarité de tous pour tous, e altrettali, non furono dette al sordo: raccolsele il popol minuto e ne fe capitale; ed oggi che à l'arme in pugno e sente l'aura della vittoria, volgesi non minaccioso, ma instante e autorevole a coloro medesimi dalla cui bocca uscivano quelle avviluppate sentenze, e lor dice con gran franchezza: — Cittadini e maestri, noi vi tenemmo fede; teneteci voi le fatte promesse, dappoichè la Francia è a vostra requisizione, e or potete quel che volete. Agli altri ceti à bastato la libertà e l'uguaglianza: a noi bisogna altra cosa; che la libertà sola non ci disfama e non ci disseta: noi domandiamo alla repubblica un pane in cambio del nostro sudore. — Così à discorso la plebe. Or che poteva il governo rispondere ai vincitori armati, se non quello che disse un officioso ministro ad una regina: — Vostra maestà stia certa che se la cosa è possibile, ella è fatta; e se impossibile, si farà? —

Ma esaminando il subbietto ne' suoi principj, ei vi si trova subito una dolorosa contraddizione. Che all'operajo voglioso della fatica non debba mancare la sussistenza, comparisce un diritto così patente e un debito così essenziale del consorzio civile, che vedendosi tuttogiorno accadere il contrario, l'animo se ne sdegna profondamente, e viene indotto a proferire quel medesimo che io scriveva, parecchi anni fa; cioè «che ogni comunanza di uomini la quale non sa trovar modo, o non vuole, di riparare dalle necessità estreme della vita gl'individui suoi innocenti e non istanchi mai del lavoro, non può dirsi con rigore nè sapiente nè civile, ma sotto sembianze molto contrarie è barbara tuttavia e insipiente.» D'altra parte, le difficoltà di ben soddisfare a [245] tali diritti ed esigenze degli operai diventano in pratica così sformate e quasi direi formidabili, che a pochi governi in sino al dì d'oggi è bastato l'animo di affrontarle, a nessuno di vincerle; essendo che noi intendiamo di ricordare i soli provvedimenti e i soli rimedj conciliati con gli altri diritti umani, e massime con la libertà; e non chiamiamo spedienti veri e legittimi quelle case di ricovero (a citar pure un esempio) in cui l'uomo perde sua libertà naturale, disciogliesi dalla famiglia e gli s'interdice di procrearla. Sta per compiere il terzo secolo da che sotto il regno di Elisabetta, l'Inghilterra udì pronunziare la sentenza medesima la quale oggi si va ripetendo dai socialisti; che, cioè, il povero à buon dritto e buona ragione di sempre poter barattare con un tozzo di pane il lavoro e la fatica delle sue braccia. Eppure, quella sentenza fu per addietro e tuttavia si rimane sì mal praticata e avverata nel suolo stesso ove fu proferita, che ne dovremmo ritrarre un troppo sinistro augurio, e disperare da questo lato del progresso del genere umano. Nel vero, assai poco giova che il governo provvisorio di Francia siasi tanto sollecitato a mandar decreti per costruire officine e iniziare i pubblici lavorii: qui, per lo certo, cade in acconcio il trito proverbio, che dal detto al fatto corre un gran tratto. Ciò non ostante, qualche notabile cosa è da credere che porranno in istato, perchè a loro fa gran bisogno di contentare le moltitudini. A noi rimane per al presente l'ufficio di spettatori; nè l'esempio, comunque riesca, fia mai perduto. Di questo, peraltro, io mi persuado e vivo certissimo, che quantunque tra i componenti medesimi del nuovo governo siedano alcuni filosofi socialisti, ad essi non va ora pel capo di mettere in atto la strana dottrina dell'organisation du travail quale la c'insegnano alcune loro stampe ed opericciuole, e che ad effettuarsi e compirsi non è più spedita e facile o più durabile e profittevole delle utopie de' sansimonisti e della repubblica Icaria. Niente ancora à trovato l'ingegno umano di positivo e di pratico in ordine all'economia pubblica, salvo i principj che si domandano della libera concorrenza; la qual verità non ci vieta di riconoscere i danni e gli stenti che ne procedono molte fiate al popolo degli operai. Ma rimane ad [246] indagare ancor più sottilmente, se la virtù medesima di quei principj sia capace o no di rimuovere in buona parte, o di sminuire e stremare quelle pregiudiciose e afflittive conseguenze; ovvero elle sieno tali da non potersi emendare, eccetto che da riforme ed innovazioni profonde ed isconosciute. Infrattanto, il senso morale e la intuizione immediata dei sommi veri ci persuadono, che la libertà e la spontaneità debbono pure in economia, come in qualunque altra disposizione sociale, essere il germe fecondo e l'efficienza prima ed inesauribile d'ogni progresso, d'ogni salute, d'ogni prosperità. Poco importa che il costringimento s'adempia in nome di pochi, o d'uno, o di tutti: nell'ultimo caso, è salva la dignità umana, non la spontaneità; e quindi l'energia, la copia, la varietà e la perduranza dell'opere di mano in mano decadono e si rallentano. Certo, fa gran maraviglia che quella nazione stessa a cui in fatto di politiche libertà sembra di mai conseguirle nè larghe nè sicure abbastanza, pretenda in fatto d'industria di procedere coi divieti, e con l'intervenimento importuno e dispotico della legge.

Ciò presupposto, e tornando più strettamente al subietto de' pubblici lavorii, noi diciamo che l'attuazione compiuta e perpetua di quelli o tornerà affatto impossibile, o sommamente diverrà perniciosa allo Stato, se non si conformi con le massime della libera concorrenza, e in troppa gran porzione impedisca e conturbi la operosità economica dei privati. Perchè ciò non accada, ricercansi principalmente le quattro condizioni infrascritte.

1º Le pubbliche officine debbono istituirsi universalmente, e poco meno che in qualunque grosso comune. Altrimenti, egli succederà molto presto un'accumulazione tragrande di popolo in quelle sole città ove saranno pubblici lavorii. Diciamo poi, che fatto anche che tali opificj e lavori sieno per ogni luogo moltiplicati, ciò nondimeno rischiasi forte di veder le campagne vuotarsi di gente e mancare le braccia all'agricoltura, massime nelle provincie più montagnose e più sterili; conciossiachè il trovare ne' luoghi murati ad ogni tempo e ad ogni qualità di persone apparecchiato il lavoro e accertato il salario, non può non accrescere [247] a dismisura la propensione de' contadini per ricoverarsi nelle città e lasciar la villa. Converrà, dunque, in sull'aprirsi le officine per tutto lo stato, cercare compensi e provvedimenti nuovi e gagliardi perchè le genti sparse per lo contado, vi si mantengano.

2º Necessità vuole che si decreti e si fermi, i pubblici lavorii venire costituiti per supplimento e riparo alla insufficienza delle industrie private, e però ricevere da queste limitazione e misura; cioè a dire, che nelle officine della repubblica sieno raccolti quegli operai solamente a' quali nessuna privata industria ha potuto fornir lavoro. E ciò si dovrà riconoscere dai commessarj, o in virtù di certificati de' capo-maestri, o con altri metodi e discipline, secondo si troverà più agevole e più sicuro. Chi si consigliasse altrimenti, vedrebbe in cortissimo tempo ogni sorta di lavoranti sgombrare le officine private; perchè, poste pari tutte le condizioni, ciò nondimeno la sola maggior sicurezza e stabilità del salario, e il non servire ad uomo particolare ma sì al pubblico, e non all'umore del principale ma sì agli ordini disciplinati prestabiliti, indurrebbe gli operai ad abbandonare a mano a mano il lavoro de' cittadini per quello del comune.

3º Se il governo non vuol menare a ruina di molte industrie private, dovrà procacciare che i lavori da lui condotti, sieno di qualità da non potersi dai particolari cittadini imprendere con profitto: la qual cosa importa che le pubbliche manifatture quanto più crescono, e tanto più costino e sieno a maggiore scapito del tesoro. Ogni altra specie di lavori condotti dal pubblico renderebbe impossibile la concorrenza privata in quella cotale specie. Ma, d'altra parte, al governo fa gran bisogno d'assai varietà di lavori, perchè dee dar salario ad ogni generazione di operai. Tutti questi nodi sono difficili a sciogliersi, ed esigono nuovi temperamenti e partiti.

4º Avviata la generale istituzione dei comuni opificj, mai non potrà il prezzo della mano d'opera (come usan chiamarla) sminuire tanto e sì presto, quanto si vede ne' paesi ove il numero delle braccia soverchia l'uopo che se ne à. Però, tutte quelle industrie le quali competono con gli stranieri, [248] mercè del buon mercato e del potere scemare fino all'ultimo estremo i salarj, cesseranno e s'annulleranno. Tanto più è comandato al governo di non recare perturbazione ed impaccio alle industrie che valgono ad avvantaggiarsi e a fiorire non ostante il prezzo più che mezzano della mano d'opera.

Segue dal fin qui ragionato, che più malagevole assai è per riuscire al governo repubblicano il soddisfare e piacere alle moltitudini, a rispetto delle nuove opinioni sociali, di quello che negli ordini della politica; delle quali opinioni sorgerà una copia e una varietà esorbitante, e così belle d'apparenza e lusinghevoli agli occhi del popolo, quanto poco fondate e lontanissime dalla pratica. Ma perchè le maggiori difficoltà della lor materia risiedono nelle viscere della cosa, e in certe impossibilità naturali e invincibili, l'ingegno molto svegliato e penetrativo della plebe francese non può non avvedersi, dopo le prove iterate della discussione ed esaminazione patente e comune, che il governo non à in pugno una verga da taumaturgo: e però io penso che tali malagevolezze ed ostacoli non basteranno a mettere giù la repubblica, ma sì basteranno a commuoverla ed agitarla continuo, e a crescere l'inquietezza ed il malumore degli operai, i quali per lungo tempo non poseranno, e correndo poi agli estremi, prepareranno (com'io diceva in principio) la lor soggezione a un governo dittatorio assoluto.

À la repubblica nuova tra mani le sue utopíe, come ebbe l'altra del secolo scorso. Ma in quella era più arbitrio e più facoltà di appagare il popol minuto. Conciossiachè, l'estinzione dei privilegi, lo spezzamento e ripartimento che ne seguiva dei beni stabili, e l'attuazione compiuta e súbita della libertà e uguaglianza civile, erano novità ed effetti visibili a tutti, e di presto e general giovamento. Ora, alla presente repubblica, per empiere i desiderj di tutta la plebe, occorre di affaticarsi in miglioramenti male studiati, mal definiti e poco o nulla operabili. Ma d'altra parte, la repubblica antecedente armava contro di sè profonde passioni e non placabili inimicizie: la presente fa male a pochi o a nessuno; del pari, che crescere molto la somma dei [249] beni, massime delle classi inferiori, s'accorgerà di non potere. Ma quello che non eccede le sue facoltà, ed entra innanzi a tutte le obbligazioni sue, si è l'ajutare per ogni guisa la purgazione degli animi e dei costumi; perchè della corruttela è tollerante la monarchia, intollerante la repubblica. E la plebe francese presente, non così bene à serbato la severità e la modestia come l'energia e il coraggio, e nella vita pubblica è assai migliore che nella domestica. Usanza generalissima degli operai di Parigi si è lo scialacquare in due dì della settimana il salario degli altri giorni. La santità del matrimonio conoscono poco o nulla, e in grossolani piaceri s'ingolfano senza misura e quanto i guadagni cotidiani il concedono. Della religione serbano un sentimento confuso e fugace, e mai non si affaccia loro il pensiere ed il desiderio di meditare intentivamente sulle ultime sorti dell'uomo. A queste male disposizioni ànno gli scrittori di là piuttosto aggiunto incentivo che recato rimedio. E per fermo, nella più parte de' libri loro, che altro s'incontra, salvo una pittura vivissima dei patimenti della plebe, e un'amplificazione continua delle oppressioni e delle avaníe ch'ella sostiene dai potenti e dai facoltosi? Quante parole spendono essi per dimostrare all'infimo volgo i suoi diritti e le doti e i pregi segnalatissimi che la fregiano, e quante poche per istruirla de' suoi doveri e ammonirla delle sue colpe! Indicassero almeno le vie dirette e pacifiche per condurre le moltitudini dalla povertà all'agiatezza, dalla miseria alla giocondità: ma in quella vece, dopo avere accresciuto alla plebe la cognizione e il sentimento de' proprj mali, o si tacciono affatto, o propongono tali compensi e partiti, ai quali essi medesimi non porgono fede. Medici veramente crudeli ed improvvidi, che si dilettano di palpar le piaghe del popolo e inasprirle e dilatarle, senza prima fornirsi di neppure una stilla di balsamo sedativo e salubre! Insomma, in questi ultimi quindici anni gli scrittori francesi ànno in troppa gran parte mancato all'ufficio loro; e la dignità delle lettere ne à scapitato assaissimo; e la repubblica nuova trovasi ora sulle braccia una plebe molto più adulata e guasta dai libri che illuminata e corretta, ed emmendar la quale non pensò nè punto nè poco [250] Luigi Filippo ed il suo ministro, benchè loro non mancasse tempo quieto ed accomodato.

§ V.
Massimo impaccio per la repubblica sono le corrispondenze esteriori.

Contro forse l'opinione di molti, noi reputiamo che tra gl'impacci maggiori del nuovo governo repubblicano sono da computarsi le corrispondenze esteriori. E prima, si voglia notare che a tutti i governi veduti sorgere in Francia, massime da cinquant'anni addietro, le malagevolezze maggiori e i pericoli più imminenti e più gravi sono provenuti dal di fuori; e ciò per l'intima connessione che i fatti e le disposizioni esterne acquistano in quella contrada con gl'interni fatti e disposizioni. La Francia tocca da ogni lato le più vitali parti d'Europa, e mai non è sorto conflitto in alcuna nazione circonvicina, che la spada del popolo francese non siasi snudata.

Ad ogni grandezza civile tengono dietro molti rischj e gravezze; e la Francia grandeggiando in Europa, segnatamente per certo imperio morale che esercita sugli animi e sugli intelletti, non può in niuna maniera ristringersi in sè medesima, e goder pace se gli altri non l'anno: e come ogni suo moto à consenso e ripercussione di fuori, così non possono i suoi vicini rimanere indifferenti e neutrali, ma o caldi amici o caldi nemici; e bisogna o ch'elli accettino i suoi principj e le forme del suo vivere sociale e politico, od ella i loro in massima parte.

Ora, venendo al caso presente, volentieri riconosciamo che una nuova colleganza europea contro la Francia repubblicana non par probabile, ma nemmeno scorgiamo su che fondamento saldo e durevole possa costituirsi la pace, e come annodare leali e amichevoli corrispondenze tra la repubblica e i regni circostanti. La diplomazia della plebe è differentissima da quella dei principati e delle aristocrazie. Per solito, non vuol secreti e non sopporta dissimulazioni; s'impazienta [251] agl'indugi, abborre i mezzani partiti, e (ciò torna a perpetua lode sua) sempre à nelle risoluzioni dell'ardito e del generoso: testimonj gli Ateniesi ed i Fiorentini. Aggiungasi a ciò il naturale de' Francesi audace e mal sofferente, e quello spirito d'antica cavalleria che mai non li fa quietare, e cacciali volentieri in difficilissime imprese. Ma oltre di questo, la Francia, avanti ogni cosa, è armigera e battagliera; à un esercito grosso, avidissimo di romper guerra, e a cui vengono meno al presente le fazioni dell'Affrica, le quali se abbastanza non l'occupavano e intrattenevano, pure gli ànno sempre tenuto vivo il gusto e il senso della vita guerresca, e acceso un desiderio smanioso di fatti grandi e di gloria un po' meno dispari e dissomiglievole dall'antica. Ora, come potrà il governo far languire nell'ozio delle caserme un esercito così fatto, e il cui ardore e la cui ambizione è di tanto accresciuta dagli ultimi avvenimenti!

Una cosa è inevitabile al governo nuovo repubblicano; il dovere, cioè, fare scelta fra due partiti in ugual modo pericolosi. A lui bisogna o non più riconoscere i trattati di Vienna, e con questo solo perturbare tutta l'Europa, e nimicarsi fin l'Inghilterra; o riconoscerli, e smentire nell'atto suo primo tutte le massime insino a qui predicate con solennità e veemenza da' suoi partigiani. Probabilmente, e malgrado degli animi fieri e audacissimi, il governo provvisorio manderà fuori un manifesto pieno d'ambigue parole e di mezzane opinioni, e dove negherà da un lato ciò che dall'altro verrà affermando; e sopra ogni cosa, protesterà fermamente di voler vivere non che in pace, ma in buona concordia e amicizia con tutti i governi.[14] Se ciò sopportasi dalla plebe, un grande frangente è tolto di mezzo, e può l'Europa serbarsi in pace per ancora buon tempo. L'Inghilterra, nelle cui mani sia ora la somma dei comuni destini, non dubiterà punto di mantener con la Francia amichevoli intelligenze, e avere per legittimo e rato il nuovo governo repubblicano. Conciossiachè [252] le sue immense armate, e le enormi ricchezze e l'animo coraggioso ed intrepido non le bastano a' nostri giorni per rinnovare e assoldare la lega Europea contro Francia: mancale altresì l'intensione e l'unità del volere, perchè sono mutati in gran parte i suoi pensamenti e consigli; ed anche appresso di lei le forme sono antiche ed intatte, ma la sostanza tutto dì si altera e si trasmuta. La Russia, non ispalleggiata dalla Germania, non può nulla di grave e di minaccioso intraprendere contro l'occidente europeo; e la Germania si quieterà, ed anzi farà ottima diversione chiedendo riforme e franchigie, qualora ne' Francesi stia tanta saviezza e prudenza da non fiatare nemmanco delle provincie del Reno: chè, quando accadesse altrimenti, i tre potentati del Norte possono ancora trovare obbedienti i popoli loro, e collegarli e moverli contro la nascente repubblica.

Tutto ciò, ripeto, va per li primi tempi ne' quali la sospensione stessa degli animi, la stravaganza dei casi, la preoccupazione e il timore reciproco, il non essere i governi apparecchiati nè consigliati a nessun gran cimento, ajuteranno il desiderio e il bisogno di conciliazione. Ma si fermi pure la pace tra Francia e i contermini potentati, rimangano in piedi i trattati di Vienna, dichiarisi l'Inghilterra amica del nuovo governo, si queti la Germania e riposi la Russia; pur nondimeno io manterrò sempre, che tal pace e buona amicizia è vacillante e inferma di sua natura, e che in questo dimorerà di continuo l'impaccio maggiore della repubblica. A' tempi che corrono, non può sussistere, massime in un vasto paese, autorevole e influentissimo, come è la Francia, un governo non pur differente da quello degli Stati finitimi, ma di natura così attrattivo, e così caro e invidiabile a tutte le moltitudini. Dico, non può sussistere molti anni; e chi pensa altrimenti, e crede tra le due forme governative di scorgere differenze poche e superficiali, fa visibile inganno a sè stesso; e scorda, fra l'altre cose, che la picciola Svizzera così divisa e disforme nei suoi elementi, e mista d'istituzioni moderne e di viete e proprie del medio evo, pur nonostante à dato sospetti gravi e durevol paura ai governi circonvicini. Come, dunque, non può l'Europa quetare tanto che dura la repubblica [253] appresso i Francesi, così a questi, pure ordinandosi e componendosi a casa loro, sempre giungeranno di fuori nuove perturbazioni, e pericolo instante di scompiglio e di guerra.

§ VI.
Conclusione di ciò che precede.

Ei si dee concludere primamente, che guardata e considerata parte per parte ogni condizione dello stato presente di Francia, non appare cagione alcuna per la quale si giudichi facile e molto vicina la caduta della repubblica. Questa poi fu fondata per la vittoria e il voto unanime della plebe; e però al nuovo governo dee stare a cuore principalmente di farsi a quella grazioso e accettevole, come ai passati reggitori era principale necessità di contentare e favorire i borghesi. Ogni cosa, pertanto, in Francia prenderà aspetto arci-democratico, e verserà intorno ai pensieri, ai sentimenti ed agli interessi del popol minuto.

Secondamente, si dee concludere, che al nuovo governo aprirannosi vie meno erte e scabrose per soddisfare i desiderj del popolo intorno alle riforme interiori politiche, di quello che a rispetto delle sociali ed economiche: e altrettanto spinoso e difficile gli sarà di condurre a pace e a concordia i negoziati e le intelligenze esteriori; ed anzi ciò gli tornerà impossibile affatto, quando dalla parte de' potentati del Norte non superi tutti gli altri rispetti il timore incessante di perdere e inabissare ogni cosa, e dalla parte dell'Inghilterra il bisogno grande e non transitorio di accrescere e dilatare i suoi traffichi.

Contuttociò, dall'alterazione continua delle attinenze esteriori può scoppiare una general guerra e un totale sconvolgimento d'Europa, nè alcuna di quelle alterazioni avrà luogo senza commuovere profondamente tutti gli ordini governativi di Francia.

Oltrechè, il governo repubblicano non può rimanersi solitario per lunghi anni; ma non cadendo per forza d'armi straniere, e non iscompaginandosi con l'anarchia, dee di necessità [254] propagarsi per tutto ove la materia sarà disposta. Quindi non può col tempo non inquietare e spiacer sommamente all'Inghilterra medesima; conciossiachè la perduranza d'una perfetta e vigorosa democrazia pone in gravissimo compromesso le aristocratiche istituzioni dell'isola.

Dalle questioni poi economiche, e più ancora dalle sociali agitate in seno di popolaresche assemblee, pericolo è di veder sorgere in Francia cagioni copiose di mutamenti e di rivolture, massime non si conoscendo nessuna via piana e nessun mezzo efficace per attuare certi concetti fantastici, e giungere a certi fini a cui la plebe si ostina di pervenire. Però, la salute della repubblica, nell'interior suo, sta tutta nell'illuminare le menti, evitare le sètte, e all'agitazione somma degli animi e alla discussione procellosa de' nuovi problemi trovare sfogo e andamento ordinato sì, che le mutazioni medesime non compajano eccessi, e non inducano l'anarchia.

Che poi la repubblica sia per ispiegare tanta virtù e saviezza di quanta è mestieri per tenere da una banda appagata la plebe, dall'altra fuggir la guerra e innovare i trattati, e ogni cosa adempiere con autorità di leggi e senza tirannide di fazioni, è cosa oltremodo ardua, e assai più da desiderare che da sperare. Contuttociò, mal si può affermarlo o negarlo assolutamente; imperocchè le storie non ci offrono esempio nessuno dello stato civile e politico in cui di presente è la Francia, e la più parte delle proposte che fa e degl'instituti che va disegnando, riescono nuovi e impensati, segnatamente in Europa; e quel simigliante che se ne vede in America, riesce, all'ultimo, dissimilissimo, a cagione della sostanzial differenza che corre tra i due continenti in ogni abito e forma di vita comune. Solo, non è temerario di sentenziare, che in tanta incertezza ed oscurità di dottrine, e in tanta esorbitanza di desiderj e improntitudine di domande, non è punto credibile che possa trovarsi alla prima e con quiete il meglio e il più praticabile, e ciò che mostri facoltà di durare e di solidarsi: impossibile è, poi, che questo s'adempia o con la guerra o con la perpetua sua minaccia o con l'imperversare delle fazioni.

[255]

In genere, la Francia, dal lato degli studj e delle teoriche, è mal preparata alla politica e sociale trasformazione in cui vuol entrare, e però non istimo che per gran tempo valga ad allargar molto il circolo delle cognizioni correspettive e ad approssimarle alle ultime soluzioni; e chiaro è che ella ondeggia fra due sistemi di ordinamento civile non pur diversi, ma opposti. Il primo produsse e governò la rivoluzione dell'età scorsa; l'altro risulta, benchè tuttora mal definito, dai pensamenti e dalle tendenze nuove della filosofia civile, e dai nuovi fatti che il natural-progresso delle nazioni compie e mette in considerazione. Il primo s'accorda troppo bene con l'indole e l'attività del popol francese; l'altro l'è troppo contrario. Il primo può dirsi consistere singolarmente in tre cose: nella rivoluzione entro casa; nella propagazione sua di fuori per via dell'armi; nella negazione ardita di tutto ciò che l'analisi acuta ma frettolosa e imperfetta non trova e non riconosce in ogni materia di scibile e nelle più chiuse parti del cuore. Certissimo è, che nelle gare politiche, quando bisogni venire alle ultime prove, nessun popolo s'agguaglia al francese in bravura e in ardore. Similmente, nessuno il pareggia in impeto bellicoso; e tutti i pregi di sua natura risplendono vivi e abbaglianti nelle fazioni di guerra. Nell'acume poi della critica, nella perspicacia e ordine dell'analisi, e nella baldanza del negare e del confutare, nessuno vince e neppur raggiunge l'ingegno francese. Ma d'altro lato, i costumi nuovi e la nuova filosofia vanno ognor da vantaggio persuadendo che le rivoluzioni violente distruggon sè stesse e più non sembrano necessarie; che la guerra abituale è mestiere da barbari, e affoga nel sangue la libertà; che le conquiste pesano come cappe di piombo addosso agli occupatori; che la critica à ormai compiuto il suo magistero, e vuolsi far debito luogo all'autorità delle tradizioni, e scandagliare giù nel profondo la scienza arcana che si raccoglie e si occulta nei suggerimenti mirabili dell'istinto: che le libertà individuali e municipali son fondamento a tutte le altre, e con esse dee misurarsi, ad esse adattarsi la potestà e l'arbitrio legislativo; che, infine, dai subitanei consigli, dai mezzi veementi e forzosi e dai metodi dittatorj mal [256] può germogliare la libertà vera, e che alla tirannide riesce non rade volte di mascherarsi col nome di Convenzione, di sovranità popolare, e d'altri titoli strepitosi.

Dal contrasto di tali due sistemi procedono le contraddizioni molte che appajono a questi giorni tra uno e altro atto del governo provvisorio, tra uno e altro enunciato del Programma popolare, e così in ogni parte e manifestazione della vita politica. Non può da simil conflitto non provenire assai confusione ed incoerenza nelle deliberazioni e nei fatti che sono per seguitare. Contuttociò, egli è da sperare e sembra probabile che mai non verranno al sangue e alla guerra intestina. Conciossiachè il pericolo maggiore da questo lato può stare nella porzione più rozza e più indocile della plebe; ma perchè ogni suo moto armato minaccerebbe l'avere così dei privati come del pubblico, ci par naturale che tutto il rimanente del popolo sia per essere pronto ed unito a resistere a quella furia. A tutti gli altri umori è credibile che la uguaglianza perfetta civile e l'uso interissimo d'ogni maniera di libertà dischiudano qualche sfogo, e impediscano che alcuna fazione signoreggi, ed opprima talmente le altre, e s'impadronisca in sì fatta guisa dell'imperio e dell'armi pubbliche, da ingaggiare battaglia con gli avversarj, e insanguinar Parigi e la Francia.

Con tal condizione soltanto di saper fuggire lo sdrucciolo dell'anarchia e fuggir la guerra civile, la repubblica nuova francese avrà porto a tutti un esempio imitabile, e adempiuto un grande e salutifero esperimento; e in solo quel caso potrà fermarsi ciò che in principio di questa Lettera molto dubbiosamente si proponeva: cioè, se l'ultima rivoluzione francese sia per riuscire al progresso civile d'Europa un bene od un male.

§ VII.
Quello che dee l'Italia pensare degli ultimi casi di Francia.

Lodi chi vuole ed esalti a cielo la vittoria fortunatissima del popolo parigino; e confidisi pure ch'ella tornerà fra non [257] molto a progresso grande e magnifico di tutta l'Europa: io, come Italiano, confesso che me ne dolgo, e la reputo, almeno, avvenuta pel nostro paese nel tempo più disacconcio ed inopportuno che dar si possa. Dopo tre secoli di silenzio e di sonno, e dopo aver toccato l'ultimo fondo delle umiliazioni, dell'ignavia e delle sventure, l'Italia risorgeva in modo sì bello e insperato, con portamenti sì ordinati e pacifici, con tale pienezza e coscienza della giustizia e del dritto, con un senso di virtù e di religione tanto istruttivo e tanto esemplare pel mondo, che forzava i popoli tutti a maravigliarsene. Risorgeva l'Italia e rigeneravasi per moto sì fattamente proprio e spontaneo, che in cambio di aspettare e ricevere come l'altre volte, ella dava altrui l'impulso e l'eccitazione; e tale impulso era tutto civile ed umano, pieno di moderazione, di prudenza, di longanimità. La nazione stata più afflitta dalle discordie e più tenuta divisa dalle arti di stato, dalla fortuna e dalle colpe sue stesse, quella nazione, dico, ritempravasi per prodigio nella fiamma d'amore, e in amplesso spirituale si unificava: di ventiquattro milioni d'uomini uno solo era l'animo, una la mente, uno il fine; e in tanto profondo rivolgimento e in così subita innovazione, tu non rinvenivi un sol uomo il quale avesse potuto chiamarsene offeso, e a cui il popolo, uscito appena di servaggio e inesperto di libertà, avesse torto un capello, recato il sopruso d'un obolo, fatto segno fugace di risentimento e vendetta. Spettacolo certamente insolito a tutte le genti, e onorevole non che per l'Italia, ma per l'intera famiglia umana. Quindi l'Europa e il mondo non potevano trattenersi dall'encomiarlo: e già riconoscevano in noi le discendenze e le propaggini auguste di Roma; già domandavano l'Italia la terra perpetua de' prodigi; e s'annunziava per mille segni, ch'era oggimai nostro ufficio introdurre le nazioni in nuovo corso di civiltà, e loro fare scòrta su per li gradi d'altissimo perfezionamento.

Ora, tanta speranza vien sopraffatta in un subito dagli avvenimenti di Francia, e siamo della nobile capitananza dispossessati: il mondo torna all'idolatria antica, e, tra pauroso ed attonito, tien fermo lo sguardo nella Francia repubblicana. [258] Sieno pure questi nostri lamenti non degni dell'uomo filosofo, e mantengasi pure con invitti argomenti, che il bene, dovunque venga e comunque, è sempre avventuroso e accettabile. Io fui Italiano molto prima di tentare d'esser filosofo, e sin dalla puerizia ò pianto con isconsolata amarezza le umiliazioni e li sfregi della mia patria: il perchè, della cara speranza che or balenava del suo primato esultarono tutti gli spiriti del cuor mio, e chiunque strappa di mano all'Italia quella sublime lusinga, mi fa dolore e non gioia; e se questo è colpa o gran debolezza, io sento una forza soave che rende amabile alli miei sguardi la colpa e invidiabile la debolezza.

Ma oltre di ciò, a nessuno è lecito di negare che la rivoluzione presente di Francia non ispanda per Italia un seme funesto di divisione, il quale, per occulto ed inerte che si rimanga, non perde facoltà di scoprirsi e di germogliare laddove i popoli sieno men giudiziosi o i governi meno prudenti: e questo accade per appunto quando abbisogniamo vie più dell'unione compita ed universale degli animi, e quando al misericordevole Iddio era pur piaciuto di prepararla per tutto, e disporre ogni cosa al finale conseguimento suo.

Ma perchè qualunque lamentazione non à virtù di cambiare i fatti e arretrare gli avvenimenti, meglio è di condurre i pensieri su quello che a noi importi di praticare e di fermamente volere dopo gli straordinarj casi di Francia.

§ VIII.
Stato presente d'Italia, e ciò che conviene di fare a' suoi popoli ed a' suoi principi.

E primamente diciamo, che intorno ai consigli, alle risoluzioni ed ai portamenti che agl'Italiani possono meglio convenire nelle congiunture nuovissime in cui la rivoluzione francese gli à collocati, è cosa di gran conforto vedere che l'opinione di tutte l'effemeridi nostre, variando assai nell'aspetto, non differisce guari nella sostanza, ed in tutte sembra spirare il senno e l'avvedutezza antica. [259] La quale opinione, a scioglierla dalle diversità dei modi e ridurla in brevi concetti e persuasibili ad ogni mente, ci pare dover essere così espressa. Sta il nerbo principale d'Italia in Piemonte, e l'esercito di colà è la nostra spada: esso à dirimpetto lo sforzo intero dell'Austria. Ma fino a che serbasi, come ora è, unito, disciplinato e volonteroso, non si fa luogo a serj timori. Per lo contrario, tutto quello che sconnettesse l'esercito e ne rompesse la disciplina, volterebbesi in danno estremo di tutta la Patria comune; perchè l'Austria profittando dello scompiglio, piomberebbegli addosso col fiore delle sue truppe, e vedremmo un disastro non molto dissimile da quello del 1821. Lo stesso caso, e con maggiore facilità e prontezza, si compirebbe nell'altre provincie Italiane confinanti con l'Austria. Nè dicasi che i Francesi repubblicani calerebbero in nostro ajuto. Conciossiachè (presupposta pure come certissima la loro pronta calata e la piena vittoria) io sostengo, che quello più non sarebbe ajuto d'amici e contribuzione di collegati, ma occupazione e conquista; e ciò che avverrebbe di noi tapini, tra la prepotenza e la ferocia degli uni, e l'orgoglio e l'ambizione degli altri, la storia medesima de' nostri tempi lo insegna, e ancora ne permangono i tristi effetti. Necessario è, dunque, che la Liguria, il Piemonte, la Toscana e gli Stati romani non tumultuino e non si scompongano, per infino a tanto che alle frontiere di ciascuna di tali Provincie italiane stanno grosse e minacciose le truppe austriache. Da ciò segue, che in esse Provincie chiunque pensi a mutar la natura degl'istituti e imitare le nuove forme politiche altrove comparse, fa opera pessima, e di turbolento e reo cittadino. Manifesto è, poi, che se le Provincie meridionali si sollevassero per mutar forma di reggimento, l'Italia media e la subalpina non posson quetare: però, a tutti gl'Italiani incombe oggi un medesimo debito; fuggire le novità che ci disordinano e ci disuniscono. Abbiam guadagnato pur tanto di libertà, quanto bisognava per dar dominio sicuro all'universale opinione, e proseguire ordinatamente di migliorazione in migliorazione, sino a vedere attuato appresso di noi tutto il più scelto, il più liberale ed il più proficuo delle odierne istituzioni. A [260] tre cose dobbiam ora voltar la mente con ardore di zelo e fermezza incrollabile di volontà. La prima è stringere ed afforzare l'unione; la seconda, armarci; la terza, consumare l'opera santa e solenne dell'indipendenza. Quelle mutazioni, pertanto, che a tali tre fini possono recare nocumento o ritardo, si abborrano e si respingano, qualunque nome e colore specioso e allettativo portino seco.

Quanto è a nostri Principi, a me sembra di scorgere chiaramente, che quel cammino che lor conviene di compiere, vada bensì per sentieri aspri e difficili ma non tortuosi ed oscuri, e dopo molte scoscese e sdrucciolevoli chine li meni in luogo ove potrebbe loro mancar la fortuna ma non la gloria, e ove non può abbandonarli l'amore e la riconoscenza eterna de' popoli.

A me va per l'animo, che a Vienna gli ultimi casi di Francia recato abbiano sommo terrore a parecchi; ad altri, apprensione assai, mista di molta speranza:[15] perchè coloro i quali s'ostinano negli antichi pensieri, e reputano ogni rivoluzione un delitto e un furore che presto passa, e debbe quindi espiarsi con servaggio nuovo e lunghissimo, entrano forse in qualche fiducia di veder rinsavire le menti sedotte, rannodar le vecchie colleganze, rifare le congreghe de' principi, la libertà diroccare per li medesimi suoi eccessi, e il mondo spaventato e sconvolto chiedere di riposarsi sotto lo scudo dei paternali governi. Primo di tutti il Metternich move forse, in questi giorni medesimi, tali o poco diverse parole ai Principi nostri: — Ecco, o Signori, avverate a lettera le mie previsioni, ed anzi troppo più che voi ed io non temevamo. A voi piacque, per eccessiva mansuetudine, di carezzare e scaldare nel vostro seno le sètte dei liberali, credendole assai temperate e pacifiche e ben corrette dall'infortunio. Vedetele ora che son cresciute ed ingagliardite coi vostri favori. Avvi egli concessione che li contenti, beneficio che li plachi, liberalità che li riempia e li sazii? Prima mostravano di non vi chiedere se non alquante riforme; poi vollero armi, poi licenza di scrivere ogni enormità ed ogni scempiezza; oggi gli Statuti più larghi, le guarentigie [261] più salde, le libertà più estese e compiute non sembrano loro abbastanza; oggi si tratta delle vostre corone medesime; si tratta dell'essere o del non essere. Or che aspettate, o Signori? Forse che la Francia espedisca di nuovo le fiere masnade de' suoi giacobini a sommuovere tutti i popoli, a rovesciare tutti i troni? Deh facciam senno una volta, e ricompriamoci, se egli è possibile e s'egli è ancor tempo, dal giogo vile delle cenciose democrazie. Quel che vuol dire scostarsi dall'amicizia dell'Austria, nudrire speranze inconsiderate d'ingrandimento, correre dietro agli applausi delle ingratissime moltitudini, stimo che apertamente il vediate. Ma l'Austria scorda tutti gli oltraggi passati, compiange gli errori comuni, e solo desidera e prega che il vostro pentirvi e ricredervi non sia tanto tardi, ch'ella medesima non conosca e non rinvenga spedienti opportuni e bastevoli per riscattarvi. Pensate che se i demagoghi si tacciono di presente, e sembrano ancora avervi in rispetto e in considerazione, ciò accadrà fino al giorno che le truppe imperiali ostinerannosi a custodire e fronteggiare la Lombardia. L'ora in che avranno sgombrato compiutamente l'Italia, sarà l'ultima del vostro regno. —

A me vien pensato che questi debbono essere gli ammonimenti e i consigli del Gran cancelliere di Vienna; e a me pare, dall'altro lato, udire rispondere così i nostri Principi: — Se d'una cosa noi ci pentiamo, si è di avere troppo indugiato a riconoscere la perfidia insieme e la vanità de' vostri documenti, pei quali rischiammo di perdere affatto l'amore de' popoli nostri, che è il solo patrimonio e la sola conquista degna d'un re. Voi procacciate di spaventarci mostrando la crescente smoderatezza e la necessaria incontentabilità delle moltitudini. Ma noi siam di credere, che l'opinione, qualora possa manifestarsi senza pericoli e incitamenti, e non le manchi agio nè tempo di esaminare, d'erudirsi e di avvisatamente concludere, mai non si scompagni dalla moderazione e dalla giustizia: ma come ciò sia, meglio ci sembra di ottemperare al desiderio eziandio indiscreto de' nostri concittadini, che al comando del superbo straniero. Insopportabile a noi s'era fatto il regnare come vostri luogotenenti, [262] e col puntello de' gesuiti; e ci è più dolce spartire col popolo l'autorità della legge, che veder cancellato il nome di lui dal libro delle nazioni, e l'Italia condotta ad essere non altra cosa fuorchè una espressione geografica, come voi testè la domandavate. Col restituire a' sudditi nostri la dignità d'uomo e di cittadino, abbiamo a noi medesimi restituito la monarcale dignità, e sentiamo che d'ora innanzi nella bilancia d'Europa li scettri nostri avranno pondo e valore. Ad accrescere l'uno e l'altro, noi deliberiamo di unirci in istretta e saldissima Confederazione; e presto bandiremo una Dieta Italiana, ove siederanno con buon accordo e amicizia così i nostri commessarj come i deputati delle assemblee. Voi dite che la Francia torna minaccevole per tutti i troni, e che noi saremo continuo tribolati, continuo sopraffatti dall'esorbitanze dei partiti. Ma non vi cada della memoria quel grande sfogo che dar possiamo all'eccesso dell'ardor giovanile e alle improntitudini della plebe. A ciò basteranno, ben vel sapete, queste sole parole: Si passi il Ticino. Ma sentiamo che replicate, che vinta la guerra, affrancata la Lombardia, e vuota l'Italia d'Austriaci, nessuno porrà più argini alle passioni e termine alle speranze e disegni dei democratici. Noi rispondiamo invece, che niuna cosa può aggiungere credito e forza ai nostri governi, quanto l'auge della vittoria, le armi avvezze a obbedire e onorare le nostre persone, il merito sommo acquistato appresso della nazione. O tutto questo può salvare le nostre corone e prerogative, o nessun'arte e spediente lo può. Ad ogni modo, la giustizia procede con noi, e i nostri nomi son consegnati alla fama, e staranno quanto la storia dell'italiano risorgimento. —

[263]

AI SIGNORI DIRETTORI DELL'EPOCA.[16]

11 aprile 1848.

Giovandomi della sincera e cortese amicizia vostra, piglio arbitrio di mandarvi alcune brevi considerazioni sui fatti di Lombardia, le quali nelle congiunture presenti mi pajono non pur vere ed utili, ma che il trascurarle torni troppo pregiudicioso alla causa italiana. Nè badate, signori, che sieno pensieri d'arme e di guerra; imperocchè, a questi tempi, qual buon cittadino non volge l'animo alle cose militari? Senza dire che la scienza dell'armi non è tutta chiusa ed inaccessibile a chi s'astiene dal maneggiarle, ma v'à alcune parti ove il naturale ingegno può penetrare assai dentro, e scorgere con sicurezza ciò che al buon capitano occorre d'imprendere e di provvedere. Quando, poi, questi miei brevi pareri ed accennamenti non pure si raffrontino coi disegni e le risoluzioni di coloro che al presente governano la guerra santa, ma nemmanco abbiano spazio di prevenirle, io ripeterò in cuor mio Hoc erat in votis, e coglierò grandissima contentezza dalla inutilità delle mie parole.

Io dico, pertanto, che considerandosi da un lato le mosse dei nostri e dall'altro quelle degli avversarj, s'intende assai chiaro, che gl'imperiali procacciano di rannodarsi e difendersi principalmente lungo l'Adige; e quivi, secondo che daranno i casi, o aprirsi una ritirata sicura sgombrando del tutto l'Italia, o ripararsi in Peschiera, in Mantova ed in Verona, aspettando quello che venga loro comandato da Vienna. Possono eziandio tentar la sorte d'una battaglia campale, con questo consiglio, che riuscendo vincitori, acquistino facoltà d'invadere nuovamente gran parte della Lombardia e del Veneto; e quando abbian la peggio, rimanga loro pur sempre un ricovero assai ben munito e ben proveduto nelle dette fortezze. Sperare in ajuti nuovi e gagliardi spediti loro di là dal Tirolo non sembra che possano per al presente, e poco numero di gente non basterebbe al fine di rappiccare le fila interrotte tra Verona e le terre austriache.

[264]

Dal lato nostro, conoscesi che Carlo Alberto è in pensiere principalmente di sconnettere in più d'un punto e spezzare quella continuazione di forze che gl'imperiali si studiano di mantenere fra l'Adige e il Mincio; e nel tempo stesso, à l'occhio ai passi meno difesi, e distribuisce sì fattamente le truppe dell'ala sua dritta, da impedire al nemico di rioccupare per soprassalto alcuna città o luogo importante. Con l'ala sinistra, poi, dell'esercito proprio spignesi, a quel che sembra, verso il Tirolo, per soccorrere le popolazioni insorte, minacciare il nemico alle spalle, e togliergli modo così di tenersi congiunto colle terre dell'impero di là da' monti, come di rinfrancarsi con qualche schiera che disegnasse di calare in Italia.

Ciò veduto, io sostengo, che è grandemente mestieri menar la guerra con celerità e vigore massimo nel Tirolo, e far quivi grossa testa di truppe, radunandovi altresì quanta più gente assoldata e disciplinata può fornire la Venezia. Questo fatto, un buon nerbo di milizie scendendo dal Cadorino e dal Friulano, dee spingersi con ardire e prestezza ad occupare Trieste, e porgere ajuto ai partigiani e fautori della causa italiana che sono pure colà. Sembra oggimai certo, che Napoli invia legni e soldati nell'Adriatico; ma nessuno sforzo dalla banda del mare conseguirà prontamente lo scopo della dedizione di Trieste, qualora dalla banda di terra non sia stretta ed assalita con istraordinaria gagliardia. In questa sollecita occupazione di tutta l'Istria raccogliesi, al parer mio, un punto principalissimo della liberazione d'Italia e un gran pegno della sicurezza avvenire; e però è necessità di ciò procurare innanzi che il governo nuovo viennese possa riaversi, e le sue provincie tedesche, paghe delle libertà e guarentigie ottenute, risolvano di sostenere con ogni mezzo la ruinante casa di Ausburgo. Fra poco si riordinerà eziandio la dieta Germanica, e sarà dieta leale di popoli liberi, e quindi tenera sopramodo dell'onor nazionale e gelosa dei vantaggi comuni degli Stati Alemanni. Tra tali vantaggi debb'ella per certo annoverare il porto di Trieste, che è per l'intera Germania il solo uscio aperto sulle acque dei nostri mari, e la sola diretta via e comunicazione con l'ultimo [265] Oriente.[17] Potrebbe, adunque, tutta Lamagna commoversi fortemente per serbar dominio sopra Trieste; la qual città, d'altra parte, rompe in mezzo le terre italiane poste fra l'Isonzo e il Quarnero. Sino dai tempi di Augusto, ànno l'Alpi Giulie e le Carniche segnato i confini d'Italia; e però, tutta l'Istria e il littorale che corre da Pola a Venezia è nostro, e niun vessillo vi dee sventolare salvo che l'italiano. In me, pertanto, è gran desiderio e speranza che le schiere piemontesi e le venete s'accampino presto in tutta quella regione, e chiudano allo straniero ogni passo fra il Tagliamento e la Sava, e dai Monti della Vena sino alle rive del mare. Per rispetto, poi, all'Illiria ed alla Dalmazia, basti per ora il notare, che abita in quelle provincie una gente nel cui arbitrio sta il dichiararsi o per la causa italiana o per quella dei popoli Slavi; imperocchè di schiatta nascono slavi; di costume, di lettere, di governo si sentono italiani. A noi importa sol questo, ch'elli non sieno e non vogliano essere austriaci, e non possa l'Austria nei porti di Dalmazia prepararci continue offese e molestie.

(Dall'Epoca.)

SULLA GUERRA ITALIANA.

14 aprile 1848.

Le operazioni della guerra a me pajono procedere più fortunate che preste e ben consigliate; e le spingono innanzi le popolazioni insorte, più assai che l'attività e l'ardire dei capitani. Dell'esercito di Carlo Alberto, l'ala destra à compiuto l'intento suo primo (difficilissimo per addietro, e divenuto oggidì poco faticoso) di snidare i Tedeschi da tutte le sponde del Po. Col marciare poi raccolta e diritta sopra Desenzano e Montechiaro, e col venir sempre di più spalleggiata da Bresciani, Bergamaschi, Cremonesi e altri popoli circostanti, à forzato gli Austriaci a passare il Chiese, e fermarsi sulla sponda sinistra del Mincio, e propriamente in quel largo triangolo che fanno insieme Peschiera, Mantova e Verona: elli abbandonano persino parecchi posti [266] da lor tenuti a mezzo il cammino tra Vicenza e Verona; e giusta gli ultimi rapporti, sembra potersi credere, che l'armi piemontesi (e questa era fazione men facile) siensi spinte col loro antiguardo tra Mantova e Verona.

Ma d'altra parte, dell'ala sinistra non si à nuova nessuna, e non compajono bollettini. Di quegli ottomila fanti inviati verso Salò e Gavarno, e nelle cui mani credesi caduto il forte di Rocca d'Anfo, neppure una voce. Ad essi spettava di dilatare e soccorrere con vigoría il sommovimento tirolese, e chiudere e impedire i passi. Certo è che gli Austriaci mantengono ancora disgombra affatto o con pochi interrompimenti la via da Bolzano a Trento e da Roveredo a Verona. Ma come va tal cosa? come non si tenta ogni sforzo e non si opera ogni bravura per insignorirsi di Trento, vera chiave del Tirolo italiano; mentre insorgono le campagne, il Bresciano ed il Bergamasco si muovono ad ajutare l'impresa, e l'ajuta d'altro lato con forte rincalzo la sollevazione del Friuli e di tutta l'alta Venezia, e possono accorrere al fine stesso i corpi franchi della Svizzera italiana e della Valtellina?

Al presente, gli è ben avverato che il general Zucchi padroneggia Palma Nova ed Osopo, e che que' montanari e segnatamente gli Udinesi ed i Trevigiani sono pieni di ardore, e si armano e si disciplinano. Ora, gran fatto sarebbe che il Zucchi non se ne giovasse quanto bisogna per varcare al più presto l'Isonzo e piombare su Gorizia e Gradisca; Gorizia città aperta in fondo a una valle, e Gradisca picciolo luogo munito di picciol castello. Quella mossa sola basterebbe forse a far succedere la dedizione di Trieste, tanto forte dal lato del mare, quanto debole e sprovveduta dal lato di terra. Nè sembra da temersi che il generale Zucchi e la gente che à seco non vi si potessero reggere; conciossiachè tra breve essi cresceranno delle schiere del generale Durando; e buona porzione delle soldatesche e dei corpi franchi, raccolti qua e là nella bassa Venezia, potrannovisi condurre sollecitamente; e infine, non mancheranno col tempo le truppe ed i volontarj quivi recati dai legni Sardi e Napoletani. Ma, pur troppo, tutto questo ricerca nei capi massima speditezza ed ardire; [267] e ricerca altresì un comune disegno, e una bene ordinata cooperazione. E però Dio provveda, perchè di comuni accordi e disegni vedo pochissime prove, e molte ne vedo contrarie. Certo è, poi, che l'Austria, quanto sentirà più difficile e più rischioso il resistere e mantenersi nelle interiori provincie lombarde, tanto radunerà ogni sua forza sulle sponde dell'Adriatico. L'Istria è tutta intera in sue mani, e Trieste s'acconcia all'antico giogo. Stando a quello che insegnano l'ultime nuove, ogni apparecchio che studia di fare il governo Viennese non è per soccorrere la sua causa in Tirolo, ma sì bene per fronteggiare gagliardamente i nemici sulla sinistra dell'Isonzo, e proteggere la Contea di Gorizia e le terre littorali. Mai non m'è rincresciuto così duramente com'oggi di non possedere autorità di parole nè arte infiammativa di stile; imperocchè io l'adopererei tuttaquanta a persuadere i giovani nostri crociati di accorrere sull'Isonzo e varcarlo coraggiosi, riconquistando a prezzo anche di molto sangue le antiche e naturali frontiere d'Italia. All'Alpi Giulie, griderei loro, all'Alpi Giulie, o militi! là su tutte le cime piantate il vessillo italiano; e non tollerate, per Dio, che attraverso alle nostre provincie, sulle nostre stesse marine, non diviso da monti e da fiumi, non impedito non trattenuto da fortezze e bastìe, possa dimorare il nemico eterno d'Italia, e con quiete e con agio ricominciare le offese e perpetuar le minacce.

(Dall'Epoca.)

DI NUOVO, SULLA GUERRA ITALIANA.

17 aprile 1848.

I combattimenti di Goito e di Monzambano recano alle nostre truppe onor singolare. Il varco del Mincio, qualora gli approcci e le rive del fiume sieno difese e munite secondo l'arte, non solo è aspra cosa e difficile, ma compiuta con tanta prestezza come i Piemontesi ànno fatto, porge prova bellissima di bravura e di abilità; perchè si computa generalmente dai buoni maestri di tattica, che sia mestieri di spendervi il triplo di tempo; e tanto ne spesero nelle guerre [268] ultime d'Italia i Francesi. In Goito s'erano gli Austriaci asserragliati in più strade, e da ogni casa sparavano addosso agli assalitori. Or, chi è pratico del guerreggiare, conosce troppo bene quali rischj e fatiche s'incontrino a smovere e scovare eziandio poca milizia da un luogo in cui ogni muro le serve di parapetto, e l'è il bersagliare e l'offendere così agevole, come difficile l'essere offesa.

Ei pare che tutta la schiera cacciata da Goito retroceda verso Mantova; e quella, invece, che contrastava il passo tra Monzambano e Valeggio, si ricoveri sotto Verona. Ma non più padroni della sinistra del Mincio, e rotta la congiunzione loro tra Mantova, Peschiera e Verona, forse gli Austriaci in cambio di tenere e difendere animosamente quest'ultima, s'apparecchiano di far sicura ritirata lungo il Tirolo, e salvar gente, artiglierie e bagagli. Se il Tirolo fosse tutto in fiamme, come al creder mio poteva essere, accorrendovi i Piemontesi, la ritirata de' nemici o verrebbe affatto impedita, o non accadrebbe loro senza molto sangue e senza perdite dolorose. Ma quando, poi, i Tedeschi indugiassero e dai nostri si trascurasse di proseguir la vittoria e di occupare le Alpi con buon nervo di truppe, certo, commetterebbesi errore assai grave e pregiudicioso. Marciano a quella volta alquanti volontarj comandati dal generale Alemandi; ma perchè marciano soli, e nessuna porzione dell'esercito li accompagna? a quella fazione non bisognano nè cavalli nè artiglierie, ma squadre di volteggiatori e di bersaglieri, che da molti giorni potevano essere in via. A ogni modo, raccomandiamo con somma istanza ciò che le presenti congiunture d'Italia ricercano sopra ogni cosa; vogliamo dire, prestezza, ardimento e buon accordo. Sono nel Veneto i volontarj Romani, Sardi, Napoletani, Veneziani, Lombardi. A chi obbediscono essi? ad uno o a più capi? Nessuno ancora l'à significato, nessuno lo sa. Alle operazioni loro è guida un disegno e un consiglio prestabilito e comune? Speriamo che sì, ma se ne ànno indizj e avvisi contrarj. Napoli manda truppe, delle quali certo non si scarseggia; e trattiene invece la flotta sua, che sarebbe ai Veneziani compiuto ristoro e salvezza.

Ricordiamoci che mai Dio non à mandato all'Italia [269] tempi più fortunati. Ogni giorno che spunta, reca opportunità di gran fatti, e serra nei suoi brevi confini l'efficacia di tutto un secolo. Ora, i trattati son rotti, la diplomazia è dispersa e muta; impaurano i gran potentati per li guai che ànno in casa; l'Inghilterra medesima vive in qualche apprensione delle sue cose; Lamagna non è concorde, e travaglia e suda a ben ricomporsi. In tali condizioni e pressure, l'Europa attende di ricevere nella sua stemperata materia quelle nuove forme che il senno e l'arbitrio delle nazioni stanno per imprimerle, giusta la naturale configurazione dei territorj, e l'indole ingenita e sostanziale dei popoli. Affrettiamoci pure noi, di stender l'armi e le insegne su tutte le nostre frontiere, e sieno per sempre ricuperate.

(Dall'Epoca.)

AL GENERALE CARLO ZUCCHI.

Roma, li 20 di aprile del 1848.

Io non temo, signor Generale, che a voi sembri temerario e importuno che io vi scriva; perchè la vostra cortese natura mi rende certo che il tempo non è bastato ad estinguere quella tanta benevolenza e parzialità che mi mostraste in Bologna nel 1831, quando faticavamo entrambi a ottenere che quel tentamento infelice di libertà e d'indipendenza, non potendo più reggere, cadesse almeno onoratamente. E prima, vi scrivo per dolce sfogo dell'animo; perchè in mezzo alle tante e insperate maraviglie del risorgimento italiano, certo non dee reputarsi l'ultima il veder voi padrone della città che la fredda e lunga vendetta degli stranieri aveavi assegnata per carcere. E non è senza gran mistero del providente consiglio di Dio, che voi per mezzo a infinite sventure e pericoli, e in modi così straordinarj e quasi direi favolosi, foste riserbato a questo giorno novissimo in cui s'adempie la redenzione finale di nostra Patria. Non è senza mistero eziandio, che a voi toccasse per ultimo campo del valore e del senno vostro guerriero cotesta città, e cotesti popoli situati ai confini d'Italia e naturali custodi dell'Alpi. Io non ò meco [270] una sì gran dose di vanità, perch'io presuma non dico di consigliarvi ma di parlare con esso voi di cose militari, e di quelle segnatamente che avete ora tra mani. Solo, ricordandomi dell'indole vostra lontana da ogni albagía, vorrei farvi intendere, che a voi si conviene al presente di porre in disparte la naturale ed abituale modestia, e sentire in modo compiuto il molto profitto ed il gran momento di quella parte della guerra nazionale italiana che a voi cadde in sorte. Chi non vede che l'Austria, ormai disperata di proseguire le sue difese negli aperti campi di Lombardia, e mal sicura altresì di Verona e di Mantova, volterà ogni sforzo dalla banda del Tirolo, e sulle terre frapposte tra l'Isonzo e la Sava? Ma voi ben premunito dentro le mura di Palmanova, e presto fatto capitano (come tutta Italia desidera) d'un giusto corpo di esercito, avrete arbitrio da un lato di soccorrere i Tirolesi insorti, e dall'altro di assaltar con vigore le truppe austriache le quali pretendessero di mantenersi di qua dall'Alpi, vogliamo in Trieste e nella contea di Gorizia, vogliamo nell'Istria e nella Dalmazia. Però, io non dubito che a voi non prema di sollecitamente istruire il re Carlo Alberto sulla molta necessità che vi stringe di venir subito provveduto di numerosa e scelta milizia, e che quanto maggior quantità di truppe italiane sarà schierata sull'Isonzo, tanto riuscirà più certa e compiuta la nostra vittoria adesso e nell'avvenire. E similmente, voi conoscete quello che in tal fazione potrebbe e varrebbe il soccorso del re di Napoli; il sol potentato italiano che sia fornito di molte navi a vapore ben costrutte e ben corredate, e quindi attissime a bloccare i porti, far mostra lungo tutte le rive dalmatiche della nostra bandiera, e trasportare e sbarcare speditamente e dovunque sia l'uopo notabil copia di armi e di armati. Ei bisogna che le Alpi segnino da tutte le bande i confini d'Italia, come volle natura quando primamente configurolla. Ma ei bisogna altresì, che questo s'adempia prestissimamente, e mentre l'Austria giace tutta scomposta e di consiglio sprovveduta, e avanti che la Germania intera non incominci a riordinarsi in forte e omogenea confederazione. A voi non rimane ignoto, che ne' Tedeschi è ora più che mai presente e vivissimo il desiderio di [271] far buona comparsa sui mari, a dispetto quasi della natura; accorgendosi essi, che il poco aver prevaluto sull'altre nazioni, e poco aggiunto di peso e d'efficacia infino al dì d'oggi ai gran casi dell'Occidente europeo, sia proceduto principalmente dal non avere marineria. Il possedere, pertanto, per via di Trieste, dell'Istria e della Dalmazia buoni porti sull'Adriatico, e mezzo di pronta e diretta comunicazione col Levante e con l'Indie, sembra ai Tedeschi un vantaggio notabilissimo, e circa il quale è impossibile che non si svegli fra breve molta sollecitudine in tutta quanta l'Allemagna.

Fa grandemente mestieri, adunque, che prima che ciò succeda, la vostra gloriosa spada cacci di là dai gioghi dell'Alpi Giulie quel che rimane di forze austriache, e i non abbondevoli sussidj che possono uscire in questi giorni da Vienna. Affrancato una volta quel territorio, e occupati e muniti i passaggi, tornerà più facile senza comparazione il difenderli, benchè dal lato degli stranieri moltiplicassero le armi e gli assalti. Quanto, poi, alle coste Dalmatiche, e a quelle popolazioni tanto fedeli un tempo a Venezia, ei si conviene adoperare più ancor della spada l'artificio dei negoziati, e subito entrare in pratiche di buon accordo non già con l'Austria ma sì coi Dalmati, con gli Ungaresi e i Croati. Quello che importa all'Italia supremamente, si è che Dalmazia e Illirio non sieno austriaci nè tedeschi. Pel resto, puossi trovar modo e via di accomodamento durevole; nè bisogna mai che la nazione Ungarese, fortissima e potentissima, divenga nostra inimica, ma invece compagna ed amica, siccome ai giorni per essa gloriosi di Mattia Corvino. Per tutto ciò, mi sembra doversi pregare con istanza e premura grande il re di Piemonte a mandar di presente uomini esperti e avveduti appresso i Dalmati, i Croati e gli Ungaresi, con ufficio espresso di dimostrare e persuadere a ciascuno dei tre, — come il nemico loro comune sia l'Austria, e come niun d'essi debba volere che quel potentato o per sè o in nome della Germania possa tener dominio sulle coste dell'Adriatico. L'Italia desiderare e pretendere unicamente ciò che natura le à dato, cioè le sue naturali frontiere dal Varo al Quarnero; del rimanente, non domandare se non buona vicinanza e amicizia. [272] Una lega commerciale e doganale perfetta fra Italia, Dalmazia, Ungaria, Transilvania e Croazia, poter mettere in continua e profittevolissima congiunzione di traffico il Mar Nero con l'Adriatico, il Levante col Ponente, le Indie col Baltico, il Po col Danubio. Nessuna ambizione e interesse avere l'Italia d'uscire de' suoi confini, nessuno di conquistare e predominare sulle popolazioni slave dell'Albania, della Boemia, della Servia, della Bulgaria; in quel mentre che l'Austria le va minacciando tuttavia, e da lungo tempo à in animo di possederle: nè contra l'ambizione di lei potrebbero essi popoli rinvenire altro collegato sincero e migliore fuorchè l'Italia; imperocchè il Russo ajuterebbeli per farli soggetti; il Turco è barbaro e inerme; la Francia troppo remota e incostante. —

Ma io mi stendo di soverchio a parlarvi di cose le quali, dove s'appongano al vero, a voi non son nuove, e meglio e più profondamente di me le scorgete e considerate. Nè il mio nome val nulla per aggiungere a queste opinioni alcun grado di autorità; ma sì vi prego che voi le pigliate a cuore, e Carlo Alberto insieme con voi le caldeggi e fomenti, onde poi l'effetto dell'opera segua sollecitamente alla ferma credenza di entrambi.

[273]

Seguitando a distribuire gli scritti del nostro Autore per ordine di tempo, collochiamo qui alcuni discorsi da lui pronunciati nel parlamento romano, detto con ispecial nome Consiglio di deputati; e scegliamo quelli che per la importanza dell'argomento o la caldezza dell'affetto o qualche lume maggiore recato alla storia degli ultimi anni, porgono pure al presente materia accetta e non disutile di lettura. Come poi l'Autore medesimo ne trascrisse più d'uno nell'opuscolo impresso da lui in Genova nel 1850, e ristampato in questo volume, noi ci asteniamo di qui registrarli. Invece, poniamo subito allato ai Discorsi qualche altro breve dettato che in que' giorni medesimi pubblicava il Mamiani nell'Epoca.

A ciascun discorso si premettono poche parole, per notificarne l'occasione e le circostanze. A sminuire la noja del ripeter la data comune a tutti, avvertiamo il lettore, ch'ei furono pronunziati nel corso del 1848. Dalle stesse parole loro, poi, si rileva quando l'Autore discorre secondo sua qualità di Ministro, ovvero da semplice deputato.

[275]

Discorso pronunziato nella tornata del 26 giugno, in occasione che alcuni Deputati proponevano di significare nell'Allocuzione al Principe il desiderio del Consiglio, che intendesse il Governo particolarmente a giovare ed educare il popol minuto.

Il voto col quale la tornata di jeri l'altro venne conclusa, riferivasi ad un argomento sì grave e solenne pei tempi nostri, che non si fa lecito al Ministero di non dichiarare sovr'esso la mente sua; e credo opportuno, come testè io diceva,[18] tale dichiarazione accadere innanzi che i commessarj sull'Allocuzione al Principe deliberino intorno al proposito, e trovino quelle espressioni che parranno loro più acconce e più rispondenti ai pensieri e alle massime del Consiglio dei deputati.

Io comincerò dal notare, che sfortunata ed impertinente riesce oggimai l'appellazione di riforme sociali e di questioni sociali, che molti dànno per vezzo e per uso a importantissimi studj e a utilissimi proponimenti. Simili nomi svegliano nella più gente un'apprensione ed una paura non del tutto irragionevole; perchè il pensier loro corre drittamente a quelle moderne utopie che non son lasciate spaziare nel libero campo ed innocuo delle astrazioni accademiche; ma le si fanno con foga e precipitazione discendere nell'ordine dei fatti civili, cagionando, come pur troppo si scorge oltr'alpe, fiere e minaccevoli perturbazioni. Pure, come ciò sia, noi qui non parliamo (od è questa per lo manco l'opinion mia e de' miei colleghi nel Ministero), non parliamo noi qui del mutare e rifare le fondamenta al sociale edifizio, ma del correggere e migliorare la sorte del popol minuto; la quale sarà sempre in cuore a tutti gli animi generosi e compassionevoli [276] e singolarmente al cristianissimo popolo di questa città, in cui, diceva quel nostro,

Giuste son l'alme e la pietade è antica.

Circa l'essere e le condizioni del popol minuto, due estremi debbonsi ugualmente fuggire. Il primo, di non gittarsi a tutt'uomo in quelle fantasie onde sono uscite con parto infelice le teoriche strane e avventate che menano sì gran rumore di sè, ma le quali condotte alle prime e più semplici applicazioni, subito ànno mostrato la vanità loro. No, concittadini, alle questioni, come sono pensate e proposte oggidì in Francia e che piglian nome di sociali, non trovasi, per isventura, risposta veruna assoluta ed affermativa. Certo, io non ficcherò la pupilla mia debolissima tra le ombre, anzi nella notte profonda del più remoto avvenire; ed io non so bene se nel lunghissimo corso dei secoli la provvidenza riserbi all'intelletto degli uomini qualche, dirò così, impensata divinazione, per cui giungano elli a risolvere quei problemi, e interpretare quegli enigmi che alla scienza moderna, e intendo la solida e verace scienza, permangono chiusi ed inesplicati. Pur troppo, considerandosi per ogni parte cotale materia delle questioni sociali, si riconosce apertissimo, che stannovi dentro nascoste certe disuguaglianze, o naturali ed ingenite, o necessarie ed inemendabili, e certe discrepanze e contrarietà d'interessi, di facoltà e di uffici, le quali niun mezzo, niun ritrovato, niuna forma d'istituzioni vale a rimovere compiutamente. Però, chi ben guarda negli spedienti e ne' partiti proposti, e medita i sistemi ambiziosi che i socialisti architettano a lor talento, scorgeli tutti offesi da un peccato medesimo; imperocchè tutti effettivamente rivolgonsi in un perpetuo paralogismo, come la ruota d'Issione. Vuoi tu scemare al possibile l'indigenza? noi siamo nel tuo desiderio. Ma se la vuoi sbarbicare affatto e per sempre, credi che senza arricchire l'universale diverrai povero tu. E se ben poni l'occhio alle tue vestimenta, alle supelletili di tua casa, a quelle minute opere che altri adempiono in tuo sostentamento e servigio ogni dì, affinechè tu possa vacare alli studj tuoi razionali: e [277] se quindi fai ragguaglio di tutto ciò con l'intera famiglia umana, e consideri l'immenso apparecchio di ordigni e manifatture, e il cumulo e la varietà infinita di materiali opere che occorre alla civiltà per sussistere, crescere e perfezionarsi, tu verrai nella nostra sentenza: la quale afferma che la porzione massima del genere umano nasce destinata alle meccaniche faccende, le quali d'altra parte senza fatica e travaglio grave e incessante non si compiscono, e però bisogna cotidianamente agli uomini il pungolo acuto ed amaro della povertà. Che se presumi, o socialista, di possedere l'arte di far soave e desideratissimo ogni lavoro il più ingrato e il più schifo, mediante certi compensi e armonie che dici avere scoperte nell'uomo e nella natura; io affermo assai risolutamente, che tu contempli un'altra natura ed un altro pianeta che questo dove abitiamo.

Io veggio bene che tali ubbie fra i nostri dotti non allignano e non recan pericolo. Ad esse fa ostacolo insuperabile una delle più comuni e più profittevoli doti che la natura à fornito alle menti italiane; l'ingegno pratico, io voglio dire, e lo squisito buon senso. Nè tampoco sono pericolose e attrattive per al presente all'infimo popolo. Conciossiachè le nostre plebi, la più parte, sono campagnole, e vivono frugali e modeste e così semplici nelle lor voglie e ne' loro costumi e pensieri, come la circostante natura, il cui nudo e schietto sembiante guardano e ammirano a tutte l'ore. Oltre di che, la religione vive ancora e trionfa con pura fede nelle moltitudini nostre; e per virtù di lei tollera ciascheduno que' gravissimi mali che crede dovere infallantemente venir riparati in un mondo migliore; e con serena e tranquilla pace di spirito non domanda insino a qui a Dio e agli uomini altra cosa, in compenso del tanto sudore, salvo che uno scarso e rozzo pane cotidiano.

Ma, signori, al dirimpetto dell'estremo di cui vi parlo, ne sorge un altro non meno pernicioso, e consiste nell'incuria e nella dimenticanza del vasto subbietto intorno al quale vi sto intrattenendo. Alcuni se ne spaurano a modo, che via il cacciano dalla mente come cosa nefaria e da porsi in tacere per tutti i tempi. Alcuni invece lo sprezzano e lo deridono, [278] e forse ciò fanno per cortezza d'ingegno e di scienza; altri viene nel medesimo effetto per secreto movimento d'egoismo e d'orgoglio, trattandosi della gente minuta, alla quale non appartiene e che desidera tener soggetta. Altri spera o finge che non badando alle questioni appellate sociali, si torrà loro importanza e rinomo, e stancandosi gli uomini di ragionarne, elle andranno in dileguo. Ma questo guanciale dell'incredulità e dell'accidia mai non à dato un buon dormire e un buon riposare a nessuno, e non si cambiano per esso le condizioni peculiari del secolo. Certissimamente, le questioni dette sociali sono il vero e proprio qualitativo della età in che c'imbattemmo a vivere; e non è lecito a un popolo da lunga mano educato e civile, e similmente a un governo provvido e illuminato, il non curarle quanto è mestieri. Debbe anzi egli cercarne per tempo e con diligenza la parte sincera e operabile, affine appunto di resistere e di combattere con pieno e facil successo ai copiosi e funesti errori che quelle accompagnano. Nè del presente ei si conviene tanto fidarsi da chiuder gli occhi sull'avvenire, forse poco discosto. In niuna parte d'Europa s'alza oggi un incendio che non mandi per tutto le sue faville: e se le materie, per gran ventura, non son qui disposte a contrarre l'ardore, teniamo bene in memoria potere l'esempio, le occasioni, le rivolture, la male usata libertà e gli errori nostri mutarle; e puossi replicatamente diffondere un seme, che in sino a quest'ora o non cadde sul nostro suolo, o vi rimase infecondo. Sopratutto, convien ricordare che quanto succede di là dall'Alpi non è solo da tribuirsi a cagioni locali ed accidentarie, ma sì a parecchie universali e durevoli, di cui vi prego di fare attenta considerazione.

La storia antica, e segnatamente quella di Grecia e di Roma, appena ci à tramandato il nome degl'infimi lavoranti e della più umile plebe, e fatto conoscere alla nostra curiosità che in quell'era vivessero poveri, e come fossero sovvenuti. Del qual silenzio voi ben sapete la cagione. I veri derelitti allora e indigenti erano i servi, cioè gregge umana e non cittadini, cose utili e non persone, enti animati, incapaci di possedere del proprio nemmanco sè stessi e la luce che loro mandava [279] il sole. Ma il cristianesimo à, la Dio mercè, rivendicato per sempre i titoli augusti e inviolabili di tutta l'umana famiglia. E posto ancora, che il proletario de' nostri tempi viva altrettanto o più disagiato dello schiavo greco e romano, la qual cosa in generale non reputo vera; ciò nonostante egli occupa oggi con sicurezza e gode a suo senno un tesoro eccelso ed inestimabile nel conoscere e praticare la dignità della propria natura, obbedire ed assoggettarsi per patto e secondo equità, e trovarsi con gli altri uomini in comunanza perfetta di diritti e di doveri. Ma, come agli altri ordini di cittadini bastava per affrancarsi compitamente e abilitarsi ad ogni vantaggio l'estinzione dei privilegi e l'uso della libertà e dell'uguaglianza civile e politica, comincia il proletario a discernere che ciò a lui non è sufficiente, bisognandogli una tutela assai più stretta e più soccorrevole, e desiderando ch'ella riceva a' dì nostri alcuna forma legislativa e giuridica, nè sia scontata o con qualche specie di servitudine e d'umiliazione, o col ritorno dei vecchi mali sott'altro colore e denominazione. Esce da ciò, come vedete, una condizione non men generale che nuova di tempi e costumi; e la lor ragione è riposta così nella progressiva emancipazione delle classi, e nel perfezionarsi a grado a grado i concetti e la pratica della universale equità e del comune diritto, come eziandio nell'efficacia secreta e incessante delle dottrine evangeliche, dentro le quali stanno veracemente inseriti e racchiusi tutti questi germi benefici di ugualità e di fraterna tutela a rispetto dell'infima plebe.

Ma, signori, cotali germi divini sono dalla provvidenza medesima consegnati alla nostra ragione, perchè gl'illumini e li fecondi. Fu il medio evo caldissimo tutto di carità verso i poveri; ma le tenebre della mente annullavano quasi l'effetto di tanto ardore. A noi s'appartiene col senno civile odierno di riparare l'esorbitanze e gli errori delle vecchie età; e s'ingannerebbero forte coloro i quali stimassero che la meditazione, l'uso e l'esperimento non abbiano altresì da cotesto lato raggiunta a' dì nostri molta perfezione di scienza, nè discoperti di mano in mano e insegnati parecchi progressi sostanzialissimi.

[280]

Distinguiamo (giova ripetere) la porzione fantastica e ne' fondamenti suoi mal ferma e cadevole delle teoriche odierne sociali, da quella che pur vi rimane salda, positiva e operabile. Tra i mali veri e presenti del popol minuto, e l'ultimo e inaccessibile punto di agiatezza e prosperità che accennano i socialisti, intervengono moltissimi termini e quasichè innumerevoli, ciascuno de' quali segna od una privazione cessata, od una miglioranza speciale ottenuta; quando un qualche incremento di ben essere materiale, e quando alcun progresso comune d'istruzione e d'educazione. E a questi termini intermedj (notabile cosa) mai non vedesi una piena impossibilità di aggiungerne altri ed altri. Tale, o Colleghi, è l'arringo alle presenti generazioni dischiuso: questo il campo della scienza moderna che tutti con isquisita cura e massima diligenza dobbiam coltivare.

Così e non altramente il Ministero avverte e considera i fatti e le dottrine che riferisconsi alle questioni dette sociali. E per iniziare intorno ad esse l'attuazione graduale di quelle massime e di que' propositi che sembrano a lui non che salutari e degni oltremodo del vostro suffragio, ma praticabili in sin da ora, ed ottenibili in qualche porzione, egli avvisò di proporre ai Consigli, come farà per l'appunto tra pochi giorni, tal disegno di legge, per cui venga costituito fra noi fermamente e con estese prerogative uno speciale Ministero inteso alla beneficenza pubblica e alla educazione del popol minuto. Datemi licenza, onorandi Colleghi, di porre in vostra notizia e considerazione la circolare che il Governo à inviata, in ordine a ciò, a' suoi primi ufficiali.

«Carattere principale del nostro secolo, e titolo vero e degno da lui posseduto alla lode e conoscenza dei posteri, si è la sollecitudine grande e sinceramente caritativa che mostra inverso il popol minuto, nel quale pur troppo s'accoglie la più numerosa e più sfortunata porzione del genere umano. Fervono da per tutto gli studj e le scienze denominate sociali, e ad ogni provida e illuminata amministrazione appartiene l'ufficio d'indurre da quelli ciò che vi si aduna di vero e di praticabile, e per nulla non contradice [281] ai principj eterni e moderatori della famiglia, della proprietà e della libertà umana.

»Il Governo, persuasissimo della gravità e importanza suprema di tal subbietto, à deliberato di proporre ai Consigli legislativi la istituzione d'un Ministero nuovo speciale, con titolo di Ministero della beneficenza publica. A questo spetterà in modo particolare e proprio, la cura gelosa e il carico difficilissimo di emendare e migliorare lo stato delle moltitudini più bisognose, scemarne le privazioni e i disagi, combattere da ogni banda le cagioni dell'indigenza, estirpare l'accatteria, stenebrare le menti, correggere gli animi e incivilirli.

»Per dare un buon fondamento a siffatta impresa, egli è grandemente mestieri che al Governo sieno fatte avere notizie ordinate e ragguagli minuti ed esatti circa le opere e gl'istituti di pubblica beneficenza, quanti e quali sussistono insino al dì d'oggi in ogni provincia dello Stato, e sotto qualunque giurisdizione e denominazione.

»Io però invito e prego la Signoria Vostra Illustrissima a voler commettere ai signori Gonfalonieri, e mediante essi, ai rettori e ministratori dell'opere e istituti di pubblica beneficenza della Provincia sua, che nel più breve tratto di tempo sieno raccolte e bene ordinate le notizie e i ragguagli suddetti, e per mezzo di Lei fatte giungere speditamente in questo nostro Ministero.

»Trattandosi di cosa che tanto importa, io non ho dubbio nessuno dell'assaissima sua diligenza e premura, nè di quella de' signori Gonfalonieri, ai quali le piacerà di vivamente raccomandarla.»

Cotal Ministero, o Colleghi, vòlto al beneficare e all'incivilire le moltitudini travagliate e indigenti, è a noi comparso molto più rilevante e proficuo di altri che in altre contrade ànno conseguito un nome ed un essere proprio e distinto. Scorgesi in Inghilterra (a citar qualche esempio) un Ministro che cura e vigila unicamente i palazzi della Regina. Più volte si veggon Ministri a' quali nessuno ufficio particolare viene affidato, e sembrano se non poco opportuni, certo non necessarj. In parecchi Stati v'ha un Ministero, il cui solo negozio è di reggere e provvedere i lavori pubblici. Nè io, per lo [282] certo, nego la importanza e il pregio di tal reggimento, e nemmanco intendo di scemarli di verun grado nella vostra e mia opinione. Ma come si potrà mantenere che i lavori meccanici dello Stato rilevino molto più che la carità sua e i suoi beneficj nella gente minuta, o che questa porga materia ministrativa meno ampia e meno implicata e difficile, o non debba più forse di tutte l'altre cose stare a cuore al Governo? Eppur mi sovviene, che nelle pagine del Vangelo la persona umana che maggiormente vien ricordata ed accomandata, e posta in cima ai pensieri e agli affetti, non è mai l'uomo savio o il potente, non è il dovizioso o il bello o l'addottrinato o l'illustre, ma sì il pusillo ed il povero; e della plebe minima e povera è naturale e sollecito padre il Principe che noi obbediamo.

Io non vi nascondo, che alla istituzione disegnata e proposta da noi movesi un'altra specie d'accusa. Sostenete che a purgarcene qui brevemente e con manifeste ragioni, io spenda ancora alquante parole; e ciò in considerazione di un ingegno elettissimo[19] che quella istanza accennava.

Dicesi, pertanto, che la beneficenza pubblica affin di recare al mondo spessi e abbondevoli frutti, dee pertenere unicamente al senno e allo zelo dei Municipj.

Io son pieno, o Colleghi, di quest'albagia (nè la voglio celare), che io stimo, cioè, e credo fermissimamente nessuno amare più di me nè più di me prediligere e rispettare le libertà e le pertinenze comunitative: sopra che il Governo presto darà a divedere coi fatti la verità compiuta di tal professione. Ma, d'altra parte, egli accade di giudicare o non vi essere nella società umana bisogno e desiderio alcuno di norma universale e di pratica unità, ovvero che si convien fornire sovente il Governo della facoltà di unire e coordinare lo sforzo e le opere dei privati e dei municipj, e avviarle tutte a uno scopo medesimo, sebbene gli s'imponga di usare in cotale atto la sola efficacia dell'esempio e l'armi della scienza e della persuasione. Che cosa in tale bisogna pretendono i reggitori dello Stato? null'altro che di voltare a bene e profitto delle misere plebi quelle facoltà e quei mezzi che solo essi possiedono. Dall'altezza del loro ufficio non è egli [283] vero che possono come da specula eminente girare all'intorno il sicuro sguardo, e del tutto insieme dei luoghi (per seguir la metafora) farsi un chiaro e distinto concetto, notarne le simiglianze e le varietà, scuoprirne le rispondenze, le congiunzioni, i passaggi, indicar delle vie quanto e come divertono e i possibili raddrizzamenti e le scorciatoie e i tragetti; in quel mentre che ciascun uomo privato e abitante in basso luogo, le parti conosce e non più dove pone i piedi e può tirar d'occhio?

Certo è poi, che i censori, con la sentenza loro poc'anzi allegata, debbono a un tempo scagliare accusa non pure d'inutilità, ma di soperchieria e di danno contra alcun altro Ministero, e contra quello massimamente della pubblica istruzione. Non debbono forse o non possono i Municipj intendere tuttogiorno e con frutto copioso e durabile all'ammaestramento del popolo? Certo lo possono, ed anzi lo debbono. Ma sì nell'insegnamento loro, e sì nella scienza sperperata e sconnessa, e venuta in arbitrio di mille diversi pareri e consigli, mai non s'adempirà quel vasto e perfetto sistema di studj, quella unità e vigorezza di discipline, quell'indirizzo potente e comune degl'intelletti di cui bisogna lo Stato, e il quale nessun uomo particolare e nessun municipio à forza di conseguire con tanta pienezza, costanza, università ed autorità, con quanta è necessaria al mantenimento e progresso di tutto lo scibile, e alla spedita ed equabile propagazione del comune sapere.

In sostanza, egli m'è avviso che tal nostra controversia pigli origine e forza più dal dubbio significato dei nomi, che dall'essere delle cose. Forse a taluni fra noi (nè fa maraviglia) l'azione e l'intervento ministrativo mette apprensione e paura, e sembra dover riuscire, come per addietro, importuno, illimitato e arbitrario, e che scemi pur sempre in alcuna guisa ed inquieti la libertà e l'opera dei privati e dei municipj. Ma i nomi (bontà di Dio) tornano alle loro antiche e naturali significazioni, e Governo più non vuol dire nè signoria nè arbitrio nè privilegio nè forzoso ingerimento nè ipocrita paternità. A voi piace che tutto il negozio dell'educare e beneficare le moltitudini stia nelle mani dei Comuni; altri, in quel cambio, il vorrebbe unicamente affidato e raccomandato [284] al clero. Ed io vi dico che il Governo non punto disegna di esautorare i Comuni ed il clero. Ma se tale individuo o tale altro, se questa o quella congregazione, se parecchi medesimi Municipj ed alcune provincie chiedono, siccome accade, e ottengono dal Ministero, varie maniere di ajuti, e solenne ricognizione e titoli e onorificenze, e stretta e particolare tutela e malleveria e patrocinio, negherétegli voi il diritto d'invigilare e sopravedere l'opere e gl'istituti di quelli? E se dove non giungono le private virtù e il privato avere e la sufficienza e abilità dei Comuni, vorrà supplire e complire il Governo, chiamerete voi ciò soprafacimento ed usurpazione? In fine, se in questa bisogna dell'educare e beneficare, franchi sono e liberi gl'individui, e ciascun Municipio e ciascuna congregazione ed il clero; vorrete voi privare di libertà il Governo, sì che non possa studiare l'arte egli pure di farsi liberale e pietoso al popol minuto, e travagliarsi di porgere a tutti norme ed esempj imitabili d'ottime scuole, ospizj, istituti e prevenimenti e soccorsi d'ogni maniera? Ciò che il Ministero domanda, è troppo discreta cosa; entrare in nobile gara di bene con tutti.

E che? non debbono dunque i più miseri e i più derelitti avere nessuna particolare speranza e fiducia nell'opera del Governo? e questo, che è naturale difenditore e tutore d'ogni interesse, d'ogni diritto e d'ogni ordine di cittadini, non avrà licenza di mostrare in modo effettivo e con segni permanenti e visibili il gran caso che fa della plebe infelice, e le cure continue e diligentissime che disegna di adoperare nel bene di lei? Osservisi, oltre di ciò, che recar sollievo ai mali maggiori e più frequenti del popolo, è somma cosa, ma non è tutto. Gran parte del beneficio consiste nella sua certa aspettazione, e nella distribuzione uguale e ordinata, e nel poterlo ricevere con dignità e senza troppo di stento, e nel non vederlo fluttuare e mutare giusta i mille accidenti di mille consigli, e secondo che porta l'ignoranza in un luogo e l'inesperienza e la fantasia in un altro; ma conoscendo apertissimo, che v'ha una mente superiore ed assidua che da per tutto penetra e invigila, e le fila sparse e disciolte della carità procaccia di adunare e di tessere in larga tela e [285] inconsutile. Mal conosce il cuore dell'uomo colui il quale opina che altrove le moltitudini non siensi inacerbite ne' lor sentimenti, nè indotte più facilmente ad esorbitare, credendosi non protette e incurate, e nessun chiaro ed esterno segno scorgendo della sollecitudine dei governanti inverso di loro. Quindi il contrario operare, come à in animo il Ministero presente, è gran saviezza ne' nostri tempi. E conciossiachè la plebe più numerosa e indigente non manda a sedere su questi scanni i rappresentanti suoi, e nemmanco li manda ne' Consigli delle provincie e de' municipii; concedetele questo almeno, che il Governo pontificio, universal curatore e rappresentante, mostri con ufficio particolare e ordinatamente pietoso di sempre averla in pensiere, e del tacito mandato di lei stimarsi fornito sempre e onorato.

Dopo ciò, chiedo perdonanza di avervi intrattenuti, o signori, con discorso non pure prolisso, ma seminato di concetti e di voci più cattedratiche assai che politiche. Forse la qualità dell'argomento a sufficienza me ne scusa. Rimane che avanti di scendere di ringhiera, io vi manifesti un voto il quale mi dura fervente e profondo nell'animo; e il voto è questo, che piaccia a Dio provvidissimo di unire e contemperare insieme nello spirito degl'Italiani, e segnatamente nel nostro, il sapere dei moderni con la carità degli antichi. Nei secoli di mezzo ardeva la carità e fiammeggiava, per così dire, insino alle stelle; se non che l'ignoranza e le tetre superstizioni e le crudeli giustizie, con l'ombra ed il fumo loro caliginoso, la cuoprivano e la perturbavano. Sereno invece e splendido come sole è il sapere de' moderni; ma i raggi che diffonde nè sono ardenti nè scaldano i cuori, anzi direi che tornano freddi e infecondi, siccome quelli tramandati la notte dal nostro satellite. Certo, se un simigliante maritaggio s'adempie della carità antica e del sapere moderno, io non so quasi che sorta di umane miserie non sia per trovare valido schermo, e conforto efficace e abbondevole; e sopratutto, quella divina consolazione ch'è la più dolce e cara, e la meglio accolta e desiderata dall'uomo, il sincero amore e il fraterno compianto.

[286]

Nell'Adunanza delli 27 di giugno, accusato il Ministero di AVERE INIZIATO UNA POLITICA DI SEPARAZIONE, e fattasi la proposta d'inserire nell'Allocuzione al Principe alcune frasi a ciò relative, l'Autore uscì in queste parole:

Io non facea pensiero di parlarvi, o Colleghi, in questo dibattimento sull'Allocuzione vostra al Principe; considerato che ella è materia la quale dee più particolarmente esprimere così il vostro proprio e franco opinare intorno agli atti del Governo, come i peculiari desiderj e disegni che rivolgete per l'animo. Ma poichè il discorso or ora udito d'un uomo illustre[20] sembra chiamare i Ministri a render ragione del loro operato, e di certa diffidenza e separazione che, dice egli, abbiam seminata dappertutto, e per cui proseguiamo a reggere la cosa pubblica come di nostro capo e contro il volere d'una persona augusta e magnanima; io sentomi astretto di addirizzare al deputato di Viterbo, ed a tutti voi, poche parole ma sostanziose e calzanti; e non di discolpa, che sembrami non bisognare, ma di più aperta e schietta dichiarazione. La quale poi sosterrò che possa parere non richiesta ed inutile a molti, dopo la fiducia espressa da voi per voto due volte. In materia tanto gelosa, niuna replicata confessione e dichiarazione può riuscire superflua.

Voi già udiste, o signori, in sull'aprirsi del Parlamento quel discorso pensato, e dalle circostanze fatto solenne, col quale il Governo poneva in luce le massime della politica sua. E voi pure udiste, compiutane appena la recitazione, che il Ministero per la mia voce manifestò essere quella enunciazione di principj direttivi e ministrativi stata pienamente ed interamente approvata dal Principe. Ciò non rivela al sicuro tra i Ministri e lui nè diffidenza nè sconcordia. E di più dico, che se di principj e di metodi al Governo attinenti il Ministero differisse dal Capo inviolabile dello Stato, voi ci vedreste salire affrettatamente in ringhiera per istruirvi che non siamo più in grado di ben servire la patria e il Pontefice.

[287]

Che dunque pretendesi dopo ciò? e qual dubbio e quale sospetto non diventa fra queste pareti inopportuno affatto e illegale? Volete voi un Ministero eletto e dichiarato secondo gli ordini e le forme usuali? voi l'avete presente. Lo desiderate sindacabile in ogni atto suo, e punibile a tenore di leggi? ed egli è tale in modo ancor più perfetto che il precedente non era. Lo volete ben adatto ai tempi, partecipe delle vostre opinioni, proveduto della vostra fiducia? ed egli fu giudicato sì fatto da voi medesimi con doppio suffragio, e con la risposta ufficiale e consideratissima che apparecchiate al Principe e a noi. Oh le forme legali non bastano, e le convenienze parlamentari non impediscono che fuor di questo recinto si sospetti e bisbigli. Concedo che sì, e bisbigliano ancora che tali sospetti ed accuse sieno fomentate e accresciute non meno dai poco amici del principato, che dagli aperti nemici della libertà. Ma il sospettare e mormorar della gente mai non à fatto legge a nessuno.

Del resto, guardiamoci, o Colleghi, ne' giorni che corrono dall'incolpar le persone di certe non dirò discrepanze ed oppugnazioni, ma differenze vive d'idee, che l'indole varia degli ufficj e dell'educazione trascina seco; e sopra tutto, asteniamoci dall'accusare e biasimare gli uomini a cagione di quegli elementi dispari e non appieno omogenei di cui si compone l'antica e sostanziale forma della civile comunanza in che ci troviamo. Non possono coteste disparità e dissomiglianze venire abolite da tale individuo o da tale altro, ma vi occorre l'azione occulta, travagliosa e ostinata dei secoli; e parecchi ne sono trascorsi dacchè l'opera ebbe principio, e voi ben sapete che la perfetta e amichevole conciliazione di quegli elementi ancora non è compiuta. Per lo certo, a noi corre debito di accelerare con ogni sforzo e fatica la perfezione e l'assodamento di tale concordia, e di procurare in essa la gloria più bella e al genere umano più salutifera del risorgimento italiano. Ma se le fatiche nostre e vostre riescono in parte manchevoli e non sufficienti al grand'uopo, sieno le scuse e il compatimento schietti, fiduciali e reciproci.

Che cosa siam noi, Colleghi, e le nostre forze e gl'ingegni a fronte di questi alti problemi in cui tutta, può dirsi, la [288] specie umana si occupa e studia da lunghissima età? Spettatori piuttosto che autori, impariamo dalla storia la travagliosa e lentissima trasmutazione. Minuti ed effimeri enti, la ruota immensa del tempo ci preme passando, e trita e confonde con la polvere della sua via, dove appena le intere generazioni lasciano un segno e un vestigio. Io vi ripeto, signori, con gran fermezza, che insino a quell'ultima ora che rimarremo nei seggi ministeriali, nessuna cura, nessuna diligenza, industria e arrendevolezza, nessun'arte di fina prudenza verrà intralasciata perchè la più vera e benevola conciliazione mantengasi tra il Principe e gli esecutori del suo Governo.

Però, a questa sempre cercata e desiderata composizione e concordia, la natura stessa e la necessità delle cose prescrive un confine; e rispetto a noi, lo segnano e lo mantengono i santi principj che abbiam professato tutta la vita, e contro ai quali niuna autorità e possanza del mondo ci farà pensare e operare alcun atto giammai.

Mi sembra pertanto, raccogliendo in un sol concetto le mie brevi parole, che ogni cangiamento od aggiungimento al dettato dell'Allocuzione, proposto con intenzione speciale di far sospettare una qualchessia diffidenza e discordia fra il Principe e i suoi Ministri, nè è savio e accettabile, nè punto conformerebbesi agli usi e alle massime del reggimento costituzionale.

Il dì 6 luglio, mentre gli animi erano turbatissimi della sconfitta toccata alle milizie romane sotto Vicenza, e ricalcitravano di assentire ai patti della Capitolazione seguitane, l'Autore si levò in Consiglio e disse: chiedo di compiere la narrazione insieme e dichiarazione fattavi jeri dal Ministro di Polizia. Molte voci allora pronunziarono si udirà con piacere; e quindi il Mamiani salito in tribuna così discorreva:

La materia è molto grave e gelosa; imperocchè inchiude una massima direttiva della nostra politica e s'attiene da più lati ai principj fondamentali del giure delle genti. Datemi arbitrio, pertanto, che io svolga più per disteso i concetti che l'onorevole mio collega Ministro di Polizia significava jeri [289] facendo breve ed acconcia risposta alla quistione del deputato Bonaparte. E prima, occorre che si conoscano interi ed esatti quei casi sui quali dobbiam comporre e fermare la nostra sentenza. Io li verrò esponendo con piano e preciso discorso, accompagnato da tutta schiettezza di animo; imperocchè non voglio nè debbo tacervi o nascondervi nulla, massimamente aspettando da voi un giudicio formale e terminativo, e però pienissimo di matura considerazione. Infrattanto, pregovi di quetare ogni febbre di affetti eziandio generosi e legittimi; e già non dubito che tutti non siamo qui apparecchiati a posporre ogni altro rispetto a quello della verità e della universale giustizia.

Quando al Governo fu nota la capitolazione di Vicenza, subito gli occorse il dubbio (ed era comune a molti) se i termini di quella impedissero alle milizie romane le fazioni altresì di mera difesa. E non venendogli trovato nelle storie più note alcun esempio ben chiaro e bene assestato al caso, rimaneva incerto, e a nessuna ferma risoluzione appigliavasi. Allora ebbesi ricorso all'acuto senno e alla molta esperienza di un pubblicista famoso,[21] il quale confessò prestamente di non conoscere nemmanco esso avvenimenti così conformi al nostro, da porgere lume di autorità ed agevolare lo sgroppamento del nodo. Nè si rimase il valentuomo di sfogliare trattati ed altre opere e scritti all'argomento correspettivi; ed oltre a ciò, mandònne graziosamente una sua carta, in cui venivano toccate da lui parecchie ragioni ingegnose (ma sfornite affatto di quella virtù evidente ed irrepugnabile che conviene si accompagni a tal sorta di prove) per dimostrare che l'armi pontificie, non ostante il divieto della capitolazione di Vicenza, mantenevano facoltà di combattere in difesa del territorio.

In quel mezzo tempo, il Commissario generale appresso l'esercito convocò in Ferrara, sotto la presidenza del Cardinale Legato, gli ufficiali tutti delle milizie che sgombrato avevano Vicenza e Treviso, e fece loro presente il dubbio di cui vi parlo, chiedendo quello che ne pensavano. Tutti concordemente opinarono, non credersi in guisa veruna disciolti dal patto, si voglia per le offese, si voglia per le difese. Di [290] più, aggiunsero in forma di nudo e mero consiglio, che appena (pregovi di notare la cosa) sarebbero bastati tre mesi, cioè lo spazio appunto del vietamento dell'armi, a bene riordinare e ricomporre l'esercito, in cui pur troppo era entrata per cento porte, a così parlare, la diffidenza e la scorrettezza. Non si fermi alcuno a considerare se perteneva al Commissario di adunare quegli ufficiali e di adunarli a quel fine. Nemmanco si badi se lo spiegare ed interpretare la lettera della convenzione competa ai soldati od a voi; nè quanta esattezza e imparzialità sia nel giudicio di gente di cui buona porzione è straniera, e sulle cose d'Italia non può sentire ad un modo con noi. Voglio solo che vi sia manifesto qual'è la lor mente, e dove penda la volontà di tutti essi, liberamente e spontaneamente significata.

Dopo ciò, al Governo giunse copia d'un bando dell'Imperiale e Regia delegazione del Polesine, che così dice: «Dietro ordine del 23 corrente, nº 475, di Sua Eccellenza il Tenente Maresciallo Barone d'Aspre, si richiamano tutti quelli che avessero emigrato in paesi rivoluzionarj o all'estero, a dover ritornare entro otto giorni in patria, sotto la pena di confisca dei loro tesori.»

Alligata con questo foglio giunse altresì una dichiarazione, o protesta che a chiamar s'abbia, del Governo provvisorio di Milano; la cui sostanza viene a dire, che vedutosi dai reggitori temporanei di Lombardia il bando col quale il comandante delle soldatesche austriache contraviene all'ultimo articolo e patto della capitolazione di Vicenza, ei risolvono e decretano che tutti i Lombardi stati partecipi di quelle fazioni militari, sieno riputati come disciolti affatto da ogni qualunque promessa, dacchè (uso le formali parole della protesta) l'infrazione del patto è flagrante.

Signori, che fece allora il vostro Governo, e a qual partito si attenne egli? Trattandosi di convenzioni solenni e dell'universal giure delle genti, opinò che niuno esame e niuna meditazione gli fosse soverchia per colpire nel segno e non dilungarsi punto dal retto e dal vero: Egli non chiuse gli occhi sul debito che gli correva di porre in silenzio il giusto risentimento che noi tutti nell'animo racchiudiamo, e quel [291] bollore di alti e magnanimi affetti da cui provenne e non cesserà, spero, di provenire ogni più nobil fatto e migliore del nostro risorgimento. Lecito è ai privati secondare in tutto e sempre i moti e gl'impeti generosi del cuore inverso la patria; ma chi soprasiede al governo investigar dee le cose pacatamente, e da quell'alta sfera giudicarle, in cui fuor della nebbia delle passioni dimorano il dritto, l'equità, la ragione, e l'utilità certa e durevole dello Stato.

E prima, a noi parve il capitano dell'armi austriache avesse potuto così rispondere a chiunque di noi si fosse fatto ad interrogarlo intorno al proposito. Ma pregovi di tenere ben fermo nella memoria, che in questo punto io piglio a imitare le parole e i ragionamenti d'un nostro nemico. Egli avrebbe, dunque, potuto così discorrere. Verissimo è che l'ultimo articolo della fatta capitolazione annunzia, dovere il popolo vicentino esser trattato con li benevoli principj di Sua Maestà Imperiale; nè io voglio cavillare su questi vocaboli: principj e benevolenza nei quali è una molto estesa e troppo indeterminata significazione. Nel grazioso animo dell'imperatore la benevolenza e umanità dei principj è grandissima; pur non di manco, ella non può contraffare nè sovrapporsi d'arbitrio a tutte le leggi dell'impero e alla general ragione che le informa; e voi sapete che a rispetto delle colpe politiche, il codice austriaco (ben lo confesso) è il più severo di quanti ne sieno stati scritti e pensati in Europa. Ma lasciando le generalità, e scendendo al caso speciale dei Vicentini, io mantengo saldissimamente, che in fatto ei sono trattati con principj di vera e speciale benevolenza, ragguagliandola con le leggi e le massime a noi famigliari e tuttodì praticate. E di grazia, che sono mai i Vicentini agli occhi dell'Austria? Un popolo ostinatamente ribelle, che due o tre volte à con deliberato animo resistito e con gagliardia massima à combattuto le armi fedeli di S. Maestà. Eppure, coteste armi entrate in Vicenza con piena vittoria e dopo un lungo e sanguinoso conflitto, non ànno taglieggiata la città, non ispogliata una sola casa, non appropriatosi nulla. Similmente, la mannaja non s'è bagnata del sangue d'alcun cittadino; nessuno è sostenuto in carcere per colpa politica. Forse non sono i feriti vostri con ogni [292] cura e mansuetudine medicati? ed io Comandante non ò con aspro rigore e difficile sforzo impedito che la sguinzagliata soldatesca si abbandonasse alla preda e al saccheggio, il quale in effetto nè cominciò nè con veruna sua mostra diede spavento? Vero è che abbiamo non già imposta la confiscazione, ma sol minacciata a que' fuorusciti che in certo termine perentorio non ritornassero alla nativa loro città. Ma, signori (seguiterebbe a dire quel capitano), ogni qualunque pietà e benevolenza nei vinti non può tollerare che, non compiuta ancora la guerra, e instando sempre danni e pericoli estremi all'integrità dell'Impero, prosieguano i sudditi nostri senza danno e pericolo niuno ad osteggiarci ed offenderci con ogni possibile mezzo, e militando alla franca ed alla scoperta sotto le bandiere e tra le file stesse de' nostri nemici. Per ultimo, vi risovvenga non si vivere ora in tempi ordinarj, ma in istraordinarj e di guerra. Il governo militare regna qui come altrove, e necessità vuole ch'egli segni alcuna transitoria limitazione alla virtù delle leggi comuni e pacifiche.

Tolgami Dio, Colleghi degnissimi, che io reputi queste ragioni tutte valide e buone; e riconosco, oltre a ciò, che il cuore stesso ci vieta di trovarle ben sufficienti e persuasive. Pur nullameno, elle ci vietano altresì di ravvisare la infrazione del patto così intera, aperta e flagrante, come il Governo lombardo la stima. Ed anzi, quell'opinar suo tanto fermo e assoluto parrebbe quasi incredibile, quando la cotidiana esperienza non insegnasse ad ognuno, come per troppo amore del bene sia facile in politica di travedere e travalicare.

Ma che d'uopo c'è, dirà qui alcuno, di guardarla così per sottile? non è l'amor della patria mantello largo e onorato per cuoprire e onestare sì fatta sorta di errori e di mancamenti? Nelle faccende politiche, poi, il successo è ogni cosa: e quando noi sarem vinti e col giogo sul collo, poco ci avvantaggerà il poter ricordare ai nemici, che nell'osservanza dei patti siamo stati a maraviglia scrupolosi e leali. Bene sta; ma io non posso pretermettere di notare, che mostrerebbe giudicio povero molto colui, il quale si desse a credere che il giure delle genti venga osservato nella più parte dei [293] casi con perfetta scrupolosità, eziandio da popoli mezzo barbari, a cagione d'un sentimento puro e profondo di universale giustizia. La necessità e l'interesse v'à la sua parte, ed anzi ardisco dire, la principale. Abbiamo noi forse cessato di guerreggiare coll'Austria, e sono chiuse con lei le partite del dare e dell'avere; intendo, i danni, le rifazioni e le rappresaglie? o non si prevede in quel cambio, che lunga, ostinata e sanguinosissima dee riuscire la lotta? E nella guerra, per dirla con Cicerone, Marte è comune; e s'io quest'oggi son trascurato ad adempiere i patti, domani potrò dolermi assai d'essere dagl'inimici anche troppo imitato.

Nè questo ancora sarebbe tutto; ed io vi affermo ed assevero, che il voto espresso ed unanime degli ufficiali, l'interesse ben calcolato e la giusta apprensione pei casi avvenire, la dubbia interpretazione del patto e la più incerta e dubbia contravenzione sua dalla parte dell'Austria, bastati non sarebbero ad acquetarci la mente e lo spirito. Conciossiachè al nostro giudicio e alla nostra deliberazione avrebber dato motivo o il sospetto di non venire obbediti dai militi, o il timore delle prossime rappresaglie, o la troppo visibile insufficienza delle ragioni, o tutte insieme cotali considerazioni, molto più atte a indurre nell'animo una gravosa necessità, che un pieno e schietto convincimento.

Ma noi abbiamo pensato, nobili cittadini, che i passi primi della diplomazia italiana dovesser procedere lucentissimi di fede e di lealtà. Noi ci siam ricordati che nelle politiche relazioni e corrispondenze coi popoli accade appunto il medesimo che nelle commerciali e negoziative; in tutte le quali, l'osservanza gelosa dei patti e il pronto e lieto mantenimento di ogni promessa cresce ed accumula a poco a poco quel credito che, in mano soprattutto delle moderne nazioni, convertesi in uno de' più fecondi e maravigliosi strumenti della forza e grandezza loro. Noi abbiamo opinato che mette assai meglio in siffatti casi gittare ogni colpa sugl'inimici, di quello che arrisicare di farcene autori noi, e di non potere alla finale vittoria dell'armi aggiungere altresì la vittoria del dritto. A noi è sembrato che se queste massime tornano vere e sante e profittevoli a qualunque nazione, fannosi tali infinite volte di [294] più alla gente romana, cui sta in capo il sommo Pontefice, tutore e serbatore perpetuo dell'umana giustizia. Infine, da noi fu pensato che il popolo romano, come il discorso ministeriale già l'esprimeva, non valendo a gloriare ed a sovrastare tra le nazioni per la vigoria dell'armi e la vastità dell'impero, farsi almeno doveva al mondo esempio luminoso e specchiato di ogni forma eccellente e perfetta del viver comune.

In una contrada non molto remota da noi scorre e fuma a questi giorni un torrente di sangue, e nella metropoli sua le vie più frequenti e più belle si veggono seminate di strage civile.[22] Quivi non è principio di sociale giustizia che non sembri oggimai vacillare e disfarsi. Quivi le nozioni stesse primigenie ed eterne del bene e del vero pajono ottenebrarsi e travolgersi, e l'impero della forza e lo stato di guerra farsi naturale e proprio agli uomini, quasi avverando l'abborrevole sogno del filosofo di Malmesbury. Signori, a noi tocca nudrire ne' nostri popoli il generoso ed utile orgoglio, che qui nella sacra città, in cospetto del Campidoglio, al lume dell'antica sapienza, que' principj e quelle nozioni sbandeggiate anche da tutto il mondo avranno un certissimo asilo, e poseranno sicure all'ombra augusta del Vaticano.

Dopo ciò, non si stimi da alcuno di voi, che siensi messi in dimenticanza e in non cale i possidenti di Vicenza tra noi rifuggiti e dal bando dell'Aspre percossi. Al contrario, noi ci facemmo debito di scrivere senza indugio al capitano dell'armi imperiali, raccomandandogli con ogni virtù di parole quei miseri; ed anzi, prevalendoci assai della nostra religiosità, poco da esso meritata, nella osservanza dei patti, patrocinammo con tanta più forza e caldezza la causa dei profughi.

Noi pigliamo speranza che quella nostra scrittura non giacerà senza effetto: ma quando pure non conseguisse tutto il bene che il cuor nostro desidera, piaccia a voi di considerare se meglio sarebbero stati ajutati e difesi i profughi rompendo la fatta capitolazione, e togliendo con ciò ogni qualunque ritegno alle austriache vendette. D'altro lato, ricordiamoci [295] che l'Italia tutta è oggimai segnata di sventure e di martirj, nè serba provincia così riposta e queta e sommessa, che molti generosi a questi giorni non tingano delle proprie vene. La via che conduce all'indipendenza e alla libertà (tutte le storie il confermano) è da ogni parte bagnata e molle di sangue e di lacrime; e non sono questi per lo certo i danni e gl'infortunj, sotto il cui fascio l'animo degl'Italiani si piegherà fiaccato e invilito. E similmente, se per due o tre mesi porzione dell'armi nostre dovrà ristarsi dal combattere, non perciò la causa nazionale, che è sacra e perpetua, si verrà meno, o l'armi e le braccia del popolo nostro mancheranno all'estreme e disperate difese.

Pericolo vero e solo e incessante sovrasta alla causa italiana nel dissentire degli animi, nel traboccare delle passioni, nel macchinare dei partiti. Or fa qualche giorno (io nol vo' tacere, o Colleghi, ed anzi sovvienmi di averlo in altro ragionamento significato), l'anima mia era contristata infino alla morte. Perocchè dappertutto io scorgeva spuntare e moltiplicare i germi delle antiche discordie; e il lievito micidiale delle vecchie invidie e dell'abituale orgoglio riprender vigore, e le plebi corrompere e i giovani infatuare.

Ma qualche angiolo tutelare veglia per lo certo alla nostra salvezza; e ne' libri del fato è veracemente scritta l'italiana risurrezione:

Nè sillaba di Dio mai si cancella.

Signori, alle nuove che giungono di Piemonte mal possono i cuori gentili temperarsi da un dolce pianto, e non mandare voci e grida di gioja. Il gran decreto dell'Unione è già sulla Dora dai contraenti popoli sottoscritto, e il Regno formidabile subalpino è fondato. Superò l'Italia un gran punto, mirando coi propri occhi le vecchie gelosie e le ostinate borie municipali dileguarsi innanzi alle necessità della comune salvezza. In cotesto fatto un valor si racchiude ed una efficacia più stupenda e migliore di qual sia battaglia campale guadagnata sugli stranieri.

[296]

L'infrascritto discorso fu pronunziato nel Consiglio dei Deputati il dì 21 di luglio.

Io salgo in tribuna ad adempiere un debito ed un officio gravoso più che difficile, rispondendo a parecchi e lunghi discorsi che jeri udiva la Camera sull'operare, ed anzi (a dirla più schietta) in accusa del Ministero. Sapete l'usanza mia d'andare diritto al segno e non moltiplicare in parole. Quindi, s'io vi prometto di sciogliere da lunghezza e da tedio l'ascoltazione vostra, mi confido che la vorrete concedere silenziosa ed attenta.

Comincerò dal notare una nuova e singolarissima contradizione che va succedendo tra noi. Sin dal primo suo nascere, il Ministero presente, che vide egli a rispetto del suo governo? Testimonianze di piena fiducia da un lato, pronti e ingiuriosi sospetti dall'altro; lodi magnifiche mescolate a gravi censure, applausi dopo i rimproveri, favore dopo lo sdegno. Tale vicenda e meschianza non è (per quel che mi sembra) cessato un dì solo, e alcuna speciale ragione conviene assegnarle. Io la ravviso in questo, o Colleghi, che il Governo e voi vi sentite in ugual maniera offesi ed oppressi da durissime necessità, e giacete mal domi sotto la forza veemente ed irreluttabile delle cose. Stretta da simil pensiere la coscienza vostra, non che averci per iscusati e per assoluti, giunge sovente a reputarci degni d'encomio. Ma, d'altra parte, quell'aspra necessità delle cose premendo e affliggendo ognuno di noi senza requie ed intermissione, ci fa impazienti ed irosi, e ci trascina a credere ch'ella può essere vinta e sopraffatta dall'arte umana: e perciò, in questo noi rassembriamo un poco agli infermi e alettati, che scorgendo di non guarire o di non subitamente guarire, muovono alte querele contro ai medici loro, i quali non sanno o non possono essere taumaturghi.

Un'altra considerazione, o signori, vogliate serbarvi a mente; e questa è, che nella più parte degli Stati Europei il vocabolo Ministero suona la pienezza delle facoltà e dei poteri [297] civili e politici, e vuole indicare pressochè l'apice e il colmo di quelle forze morali e autorevoli che assicurano e guidano la vita comune d'un popolo. Ma guardandosi al vero, o Colleghi, il presente Ministero possiede egli ed esercita senza contrasto la metà di que' poteri e di quelle forze? Adunque, se giusti e imparziali mantener vi volete a rispetto nostro, piacciavi di proporzionare le incolpazioni agl'impedimenti e alle angustie in cui siamo, e alle avversità dolorose contro le quali dibattesi il nostro coraggio, pertinace almeno, se non fortunato.

Ma scendiamo tosto ai fatti che fornivano jeri ragione molto apparente e occasione pronta ed accomodata alle accuse. Il più rilevante di tutti è la sventura dell'esercito nostro. Rendeteci trentamila uomini, voi esclamate, tutta bella e fiorita gente, che dalle nostre braccia si sciolse e partì volontaria per combattere gli stranieri. Voi, come Ottaviano Augusto, gridate: rendimi le mie legioni, o Crasso. E certo, è sommo infortunio e sempremai lacrimevole vedere il fiore de' nostri giovani, che, or fa qualche mese, moveva a una santa guerra tra gl'inni, le feste, le luminarie e i popoleschi tripudj, tornare scemato per le morti, col volto dimesso, le vesti lacere, scorato, affralito, disfigurato; e oltre a ciò, vedere iti in dileguo in un giorno solo (può dirsi) i lieti successi, le prosperità e le glorie che nel partire ei si tenevano in pugno. Parmi, narrando, di non isminuire dramma alla gravezza del male, e m'industrio di non ammorzar per nulla i colori vivissimi che jeri usava taluno in certe sue dipinture con maestria e caldezza pennelleggiate. E pur nondimeno, oso affermarvi, o Colleghi, che volendosi far giudizio equo e prudente, debbesi un tanto infortunio recare non agli uomini, ma solo al destino. E crediate che io sono, in siffatta opinione, non che imparziale, ma sommamente discreto e benevolo; perch'io non voglio che la colpa levata di dosso a me, vada a percuotere alcuno. Ma, come ciò sia, questo rimane certo ed irrefragabile, che a qualunque altra persona si può tentare di chieder ragione del tristo caso, eccetto che ai presenti Ministri. E veramente, ruppero essi la guerra agli Austriaci? No. L'apparecchiarono essi di lunga mano, la promossero [298] con ardore, le porsero adatte occasioni? No. Ascrissero, almeno, i soldati ed i volontarj, dieder loro gli ufficiali, ordinarono l'esercito, miserlo in via, condussero di là dal Po? Nemmanco. Ma in fine, salendo essi in grado, non ebbero a continuar la guerra già incominciata? E neppur questo propriamente; perchè il primo atto loro fu di condurre l'esercito sotto il comando immediato di Carlo Alberto, e le cagioni vi son note. A noi rimase un ufficio pien di fatica e sollecitudine, ma senza pericolo, e perciò senza gloria; e fu, di provvedere ogni giorno agli armamenti, alle paghe, alle salmerie, alle promozioni e alle altre bisogne ministrative: nè su queste alcuno ci chiama in colpa; e dove non fosse debito rigoroso del buon cittadino di adempiere ogni consimile incumbenza il meglio che può, forse avrebbe il Ministero di che compiacersi e lodarsi, guardando alle strettezze massime del Tesoro, alla precipitazione dei casi, alle distanze, alle dispari abitudini e a cento altri contrarj accidenti. Ma io ripeto, che nella sventura di cui tutti piangiamo, non ci fallisce almeno questo conforto, di doverla recare necessariamente al solo destino. Ricordatevi come fu composto ed elementato quell'esercito nostro; ricordatevi (ed altre volte ne feci menzione) ch'egli s'adunò quasi a furia di popolo e in modo affatto tumultuario; e che, appena legate insieme le sue parti, o, a dir più giusto, accozzate, mosse alle fazioni di guerra, e guerra lunga e campale; e contro a nemici soverchianti per numero, per artiglierie, per uso, scienza, e vecchia e provatissima disciplina. La scelta degli ufficiali cadde, la massima parte, sopra uomini designati non dal criterio e dall'esperienza di buoni giudici e competenti, ma dall'aura fugace e voltabile del favor popolare. Ricordatevi che i giovani nostri (colpa dei subiti avvenimenti e del vivere sfaccendato ed imbelle) corsero alle bandiere mezzo cittadini e mezzo soldati. Io vo' dire che i giovani nostri, per la inerzia passata, per la cortezza del tempo, e ancor da vantaggio pel modo di ordinamento, non erano abbastanza disvezzi dalle comodità e abitudini casalinghe, nè abbastanza avvezzi allo stento, ai disagi, alla sommessione, e ad altre esigenze ed asperità della militare disciplina. Nacque da tutto ciò, e, non [299] poteva non nascere, che alla prima fazione gagliarda e difficile veramente, e al primo cozzo di schiere agguerrite e con abilità e ardire capitanate, le nostre sformaronsi in poco d'ora, e da ogni lato scompaginaronsi.

Ma v'à di più: l'infortunio è gran pietra di paragone degli eserciti veterani o novelli, bene o male apprestati e composti. Non ostante le dure percosse e gli scontri sanguinosi e infelici, i ben apprestati ed antichi cedono, ma non si scompigliano; e se pur questo accade, si riordinano e si rifanno: ma per contrario, i mal composti e ordinati, una volta rotti e dispersi, non più mai si raccozzano e si rassettano; ed anzi, come materia poco omogenea e da poca cera appiccata, rapidamente pervengono all'ultima dissoluzione. Di ciò appunto fummo noi tutti, e con gran dolore e rammarico, testimonj. Tornarono non più le schiere dei nostri, ma gli avanzi di esse; giunsero tumultuando e disordinando assai peggiormente che non usavano durante la guerra. Giunsero con mente accesa e avventata, ciascuno accusando i suoi proprj ufficiali, accusando il Governo, i compagni, i Commissarj, i Piemontesi e tutti, fuor che sè stessi. E replico che ciò sempre avvenne e avverrà tuttavia tra soldati subitarj ed accogliticci da somma avversità sopraggiunti.

Nè io voglio con tali parole menomare il pregio della fortissima resistenza e dei gagliardissimi combattimenti che ottomila de' nostri ànno avuto animo d'imprendere e di sostenere contro a più di 40 mila soldati austriaci: e basterà solo, io credo, la memoria de' monti Berici per dimostrare al mondo come facilmente può ritemprarsi all'antico valore, e la virtù de' suoi padri ricuperare questo popol latino infelice e caduto, ma sempre a risorgere apparecchiato. Io noto, pertanto, ed accuso non la virtù e il coraggio degl'individui, ma quegli accidenti e difetti che nessuna bravura è bastevole ad impedire, e la cui riapparizione è certissima dovunque mai l'esperienza, l'arte, l'esercizio e l'efficacia del tempo, delle regole e delle tradizioni, non fan riparo.

Dopo quel caso, e visto quel deplorevole scombuiamento, che altro rimaneva da praticare al Governo? Voi tutti con esso e ad un animo il venite pronunziando: scioglier l'esercito [300] e con altri metodi ricomporlo. Ma io prestamente m'appello a coloro, quanti pur ve ne sono e di quante specie e generazioni è possibile ritrovare, i quali ànno fiore di cognizione delle cose guerresche, e sentenzino essi se dentro lo spazio di venti giorni una così complicata e malagevole opera sia fattibile mai; e venti giorni soltanto, o Colleghi, nè un'ora di più è trascorsa dal tornar delle truppe a quel frangente improvviso e funesto che l'anime vostre à con giusta ira commosse.[23] Quello a cui non varrebbe e non basterebbe uomo nessuno, reputo che voi non convertirete in errore ed in colpa solo ed unicamente per noi. Credo invece, che ogni spirito gentile e benevolo senta di doversi astenere non pur dalle accuse, ma dalle superbe e gravose parole contro di tali, cui la fortuna fa scontare coi subiti rovesci quel po' di bene che prima ella lusinghevolmente proferse loro, di render la pace a questa città e nelle provincie serbarla, ristaurarvi l'ordine, ampliarvi le libertà e con l'impero delle leggi contemperarle.

Ma io sento voci che gridano: la patria è in pericolo, e questo estremo frangente non pure debbe eccitare tutte quante le forze e gli spiriti di chi ci governa, ma suggerir loro partiti straordinarj ed eroici; e se bisognano prodigj, che i prodigj sien fatti.

Sta bene; ma le imprese eroiche e i miracoli umani altresì debbono avere cagioni certe e proporzionate. Osserviamo. Per me, la patria è solo tutta l'Italia, e non applico quel nome augusto ad alcuna delle provincie sue, per insigne e bene amata che sia: similmente, non bado a dove io nascessi, o dove abbia le cose mie o i parenti o gli amici, ma sì ò per amici e parenti e per carissimi compaesani coloro tutti che nacquero e vivono nella terra sacra che Appennin parte e il mar circonda e l'Alpe. Ora l'Italia, bontà di Dio, non corre pericolo estremo insino a che ordinato e gagliardo rimane l'esercito di Carlo Alberto. E se alle schiere di quel re generoso toccasse grave sconfitta, ondechè la patria nostra vera, cioè l'Italia tutta quanta, venisse a rischio dell'ultima sua salute, [301] il meglio sarebbe, o Colleghi, interrompere queste nostre disputazioni, prendere popolarmente le armi, e moverci tutti di buon accordo, e senz'altro pensiere che di ristaurare le sorti mutate e periclitanti. In questo mezzo, rivocando il discorso ai nostri paesi, i quali pure bisogna difendere, due mezzi di fare ischermo e riparo avea tra mano il Governo, ed entrambi mise ad effetto. Il primo, di scambiare subitamente le truppe che ritornavano con le poche disseminate per le nostre città. Il secondo, di fare istanze sollecite e ferventissime al re di Piemonte, perchè mandasse ajuti di gente; ed anche pregarlo di voler permutare porzione de' pontificj soldati, costretti dai capitoli di Vicenza, con altrettanti de' suoi distribuiti per le fortezze, i quali accorressero freschi di forze, animosi di voglie, specchiati di disciplina a custodire le nostre frontiere. Fu il primo atto adempiuto, o signori, con prestezza e premura maggior dell'effetto: perchè sapete voi a qual novero per appunto è da recare la milizia allora rimasta indietro a presidiare le più interne città? appena a quattro mila uomini. Arrogo che non furono potuti movere tutti immediatamente, perchè in Spoleto e in Civitavecchia fece mestieri lasciarne più compagnie a custodia di circa mille forzati, abbandonando i quali, giudica ognuno che danno gravissimo sovrastava non pure a quelle città, ma sì allo intero Stato. Poteansi dunque, or domando, munire e fronteggiare in guisa valida e sufficiente con due o tre mila uomini le rive del Po, che nel nostro Stato corrono per la lunghezza di poco meno che ottanta miglia? Ne dia sentenza chiunque è tanto o quanto perito nelle militari faccende; anzi chiunque à sentimento delle cose, ed occhi per vedere e senno per giudicare.

L'altra parte di nostra opera nemmeno fu da noi pretermessa, o tardata o trascurata in veruna guisa, ma con fervore e con la massima diligenza tentammo di adempierla. Ricorremmo affrettatamente a re Carlo Alberto, e, come testè io diceva, gli domandammo pronti soccorsi non solo, ma la permutanza di buona porzione delle soldatesche nostre con altrettante delle sarde. Mostrammo per noi la necessità dell'ajuto, per esso l'utilità; ricordammo la devozione di questi popoli alla sua persona, la fede nella sua causa, i [302] mali della guerra lombarda incontrati sì lietamente da noi, i nostri apparecchi, il sangue sparso, il lutto di nostre famiglie; quanto danno e pericolo arrecherebbero alle armi sue le rive del Po signoreggiate dall'Austria, invase le Romagne, minacciati i Ducati, non sicura la Toscana. Che avvenne? il re Carlo Alberto assentì, il Ministro della guerra risolutamente negò. In ultimo, una specie di permutanza ci è stata offerta. Ma quale? Non è da tutti l'indovinarsela. Spedire gli Svizzeri nostri in Modena, e i Piemontesi che quivi stanziavano mandarli a Venezia: che è come chiedere ad uno che ti presti il mantello, e quegli invece proponga di accomodarne il compare; senza qui aggiungere che gli Svizzeri nostri, condotti in Modena, abbastanza non si scostavano dall'occasione e pericolo di combattere; il che per tre mesi è vietato loro dai patti. L'offerta, dunque, non profittava per niente alla guardia e difesa delle nostre frontiere. Tacerò d'alcun partito da noi pensato con poca speranza, ed a fine soltanto di non lasciar cosa del mondo possibile e immaginabile di cui non facessimo esperimento. Come lo scrivere, per esempio, al general Pepe in Venezia, e proporgli o di spedire qui a noi que' soldati nostri che là combattono; o di spesseggiar le sortite e ingrossarle sì fattamente, da mettere in seria e vivissima suggezione gli assediatori, talchè non sia loro più agevole l'assottigliarsi di uomini, e minacciar d'invasione le nostre provincie.

Or, raccogliendo il tutto, io vi chiedo, se queste vi sembrano ragioni sode, schiarimenti precisi, allegazioni certe, fatti evidenti e palpabili? Sa Iddio, quanto io desidero che possibile fosse di contradirli e negarli, e quindi scemassero i nostri danni e i sospetti, di quanto crescerebbe il torto e l'errore dei presenti Ministri. Imperocchè nessuno de' miei avversarj mi reputa così vile e perfido, che io posponga la salute della carissima patria al mio leso amor proprio. Ma io sento bene, che la imparzialità de' giudicj non è unque sperabile laddove il cieco entusiasmo e le offese e i danni di già sofferti e l'apprensione del peggio farà di nuovo gridare ai più caldi, e a proposito o no: la patria è in pericolo, e noi vogliamo che ad ogni costo ella sia salvata.

[303]

Signori, giunto il discorso a questi ultimi termini, io vi pronunzio che due sole specie di guerra conosce e pratica il mondo; due sole, ripeto, e non più; e sono di esercito contro esercito, e di popoli armati contro armate milizie. Ora, nettamente e fermissimamente dichiaro, che guerra di esercito contra esercito, guerra promettente non dico bella vittoria, ma lungo e onorato combattimento, non siamo oggi, non saremo domani o il dì dopo in grado alcuno di fare. No, verun Ministero ritroverete (e cercatelo pure per tutti i canti d'Europa e d'America), il quale premendo col piede la terra, ne faccia balzar fuori un esercito. Non v'à Ministero che possa (come usa dirsi) improvvisare buoni soldati, esperti capitani e ben guerniti arsenali.

Ma dell'altro genere di guerreggiare, cioè quello delle moltitudini che s'armano, e s'azzuffano coi soldati d'ordinanza, certo, non si nega che può sempre venire in atto; nè altro che una condizione ricerca per far probabile il buon successo, ma la vuol piena, la vuol permanente, la vuole assoluta; e questa è il coraggio e la fierezza intrepida e disperata delle popolazioni. Qualora ogni città di Romagna convertasi in una Saragozza, o in qualcosa di somigliante, e debbano gl'inimici pigliar d'assalto le mura, indi le strade asserragliate, poi ciascheduna casa dalle canove alle antane; non dieci, non venti, non forse cento mila bajonette imperiali varranno a sforzarle ed a sottometterle. Però, d'un ardore siffatto, ogni qualunque Ministero è piuttosto l'effetto che la cagione; il docile e acconcio strumento, piuttostochè il fondamento e il principio.

Io so, nullameno, che da un Governo energico veramente e leale, sempre vigile ed operante, franco, ardito, ingegnoso, e non inferiore, insomma, alla gravezza minacciosa e straordinaria dei casi, può accrescersi ed avvivarsi oltremodo la fiamma del popolare entusiasmo; io lo so. Ma un Governo cotale à gran bisogno della pienezza d'ogni potere e della libertà intera dell'opere sue; e se a voi piace di guardar dentro alle cose, confesserete a marcia forza, che non è così fatta la condizione dei presenti Ministri, i quali già da un mese sono rinunzianti, ed a cui non è stato mai [304] lecito di proferire nemmeno quella parola che suona oggi sulla bocca d'ogni verace italiano, e si attua in fieri e nobili gesti sulle rive del Mincio e dell'Adige.[24] A questi dì, più assai della consumata politica e della sapienza legislativa, occorrono le arti con le quali si eccitano e fomentano le generose passioni. Di tali arti, nudrici del coraggio e della magnanimità, dar saprebbe qualche saggio onorevole ed utile anche il presente Ministero; perchè sempre il cuore infiammato avvisa e indovina ciò che risveglia ed infiamma il cuore; e voi potete vederne forse gl'indizj leggendo nelle gazzette quel che parliamo e ordiniamo ai nostri ufficiali nelle provincie. Ma il forte volere non basta; e al forte operare non abbiam sufficienti le facoltà.

Egli m'è avviso di avere non iscarsamente risposto alle accuse più generali e più appariscenti che jeri lanciavansi da taluni contro il Governo. Delle censure particolari e minute, alcune sono di assai poco rilievo, altre emergono dall'ignoranza dei fatti, ad altre manca ogni precisione e somigliano a colpi tirati senza pigliar la mira. Tuttavolta, non vo' tacere di una, e importante per sè e gravosa al cuore di tutti i Ministri.

Questa è di aver noi invitato a sedere nel Consiglio di amministrazione e di disciplina il generale Durando, chiamato da taluno in quest'assemblea ed apertis verbis traditore alla patria. Osservisi, anzi tutto, ch'egli, per ciò che affermano parecchi deputati, viene accusato al medesimo tempo e qui e in Piemonte; qui come lancia di Carlo Alberto, in Piemonte come troppo tenero del Pontefice. Chi dunque tradisce costui? Nessuno, perch'egli non può ad una ordir frode al Pontefice e a Carlo Alberto. Io credo convenga andar molto a rilento nel proferire sentenze cotanto odiose e terribili; e per fermo, così la pensa la più gran parte de' soldati e de' volontarj che sotto i vessilli suoi combattevano. Essi (domandatene, o signori) gli conservano stima grande ed amore cordiale. E sapete voi la cagione principalissima? La cagione è questa, che dove la mischia ferveva più calda e più sanguinosa, dove il pericolo era imminente, le bajonette [305] nemiche più numerose, il grandinar delle palle più spesso, là brillava pur sempre la spada del Durando, il quale, con nuovo genere di tradimento, ponevasi tuttogiorno al rischio di affogare la sua frode nel proprio sangue.

Ora, ditemi, in nome di Dio, se veduto l'aveste fra tante palle e tante austriache bajonette cadere ferito ed estinto, sarebbe nessuno di voi stato ardito di domandarlo traditore, e nel cadavere suo ancor sanguinante e dal ferro dilacerato imprimere un marchio d'infamia? Ebbene, voi pigliate arbitrio e baldanza di atrocemente accusarlo, solo perchè la fortuna à conservato quel braccio e quella spada onorata al profitto d'Italia. Queste sono le ragioni per cui pensò il Ministero di dar luogo al Durando in seno del consiglio testè mentovato: e con tutto ciò, abbiamo premesso all'atto una diligente ed esattissima investigazione dell'opera sua; e in fede di onesti uomini, vi assicuriamo, che non v'è ombra di colpa e di trascuranza in tutte le recenti fazioni di guerra del generale Durando. Egli commetteva forse qualche errore di previdenza e di tattica; ma, con vostra pace, qual generale non ne commise, o non fu a risico di commettere?

Dopo ciò, io reputo di toccar già la fine del mio troppo lungo ragionamento; conciossiachè a rispetto dell'avvenire, di cui pure moveste discorso, o Colleghi, poco o nulla ci conviene rispondere. Noi da un mese non siamo solo in istato di rinunzianti, ma con viva istanza e più d'una fiata abbiamo richiesto e pregato che la rinunzia nostra si accetti. Jeri stesso abbiamo, ad un animo, rinnovato e compiuto l'ultimo e risolutissimo atto di tale rinunziazione. E però noi rimaniamo in sin da ora Ministri unicamente per conservazione e custodia dell'ordine e quiete pubblica, e per tutela dei comuni diritti. D'ogni rimanente ricade a voi la cura e il consiglio; e ci è forza da quindi innanzi di non tollerare che si rovesci sul nostro capo la più ponderosa e formidabile malleveria che premer possa la coscienza d'un uomo onesto e d'un incolpabile cittadino.

Io mi dispenso dal giudicare se a voi venga meno la volontà o il potere o l'opportunità o l'unione, per ispalleggiare e protegger quegli uomini che la fiducia popolare condusse [306] al governo, e, più costante di molti di voi, sembra non abbandonarli ancora. Ma io so questo assai bene, che i censori ed accusatori del Ministero, cercando una verità e una utilità molto dubbia ànno indubbiamente peccato di grave imprudenza; e quando sieno buoni e leali patrioti, com'io li stimo, tardo e doloroso rincrescimento cagionerà loro il vedere e conoscere che il nostro uscire di governo non sarà senza manifesta letizia dei nemici eterni della libertà e indipendenza italiana.

Il dì 7 d'agosto, occupandosi il Parlamento d'alcuna proposta di legge con fine di sopperire alle necessità della guerra italiana; e volendosi da parecchi sottometter quelle a nuova consulta nelle Sezioni; il Deputato di Pesaro parlò in questi termini:

Io spero dalla vostra usata prudenza, o Colleghi, che le proposte di legge le quali verrannovi presentate quest'oggi perchè si discutano e vadano quindi a partito, non saranno rimesse in esame nelle Sezioni, o di nuovo rimandate ai commissarj, conforme è il parere d'alcuni.... Odo che si mormora che io voglio sopprimere la libertà del vostro suffragio: nulla di ciò mi sta in mente. Ma io non son fuori, credo, del mio diritto, se io fo notare alla Camera che quando una Proposta di legge fu discussa innanzi nelle Sezioni, quindi consegnata ai commissarj scelti da quelle perchè ne giudichino e ne riferiscano, e da ultimo fu da essi commissarj emendata accuratamente, dopo maturo e libero esame, secondo il migliore lor senno e il frutto raccolto delle varie opinioni udite; la Camera, tramutando quasi per intero l'opera di quei commissarj, sembra a me che pongasi in qualche contradizione con sè medesima; e ad ogni modo, dichiari e testimonii assai manifestamente la poca stima che fa de' giudici e relatori prescelti da lei.

Io dico, pertanto, a voi e a me stesso: abbiamo ciò in considerazione quest'oggi, trattandosi massimamente di leggi la cui opportunità è sì fatta che dimanda una somma, anzi un'estrema sollecitudine. Trattasi, ben vel sapete, di provvedere [307] alle bisogne, ai pericoli ed alle urgenze della gran Causa italiana; le quali dopo il disastro di Custoza crescono poco meno che d'ora in ora. Quanto a me, io non mi périto di dichiarare in sin da questo momento, che le proposte di legge, segnatamente quali vi furono jeri significate dai commissarj, mi piacciono assai e m'appagano. Ingegnose mi sembrano nella invenzione, acconce al tempo ed al luogo, bene ordinate, sopratutto, e in ogni lor parte e membro rispondenti e connesse. Quindi, se vi arrecherete voi mutazione un po' sostanziale, romperete, del sicuro, quell'armonia che le governa, e quel dritto filo raziocinale con cui vennero pensate e dedotte.

Nè porzione di loro vi è nuova; perchè presentòlla a voi, se ben vi ricorda, il passato Ministero: se non che, allora fu sottomessa al vostro giudicio con forma e nome di tassa, non comportando i tempi che senza pericolo niuno ragionar si potesse di prestazioni forzate. Oggi le sventure sopravvenute dànnoci questa non desiderabile facoltà e balía.

Concludo, pertanto, ch'egli bisogna, colleghi miei, affrettarsi. Nè basta che ognuno di voi senta e ripeta nell'animo cotal verità. Conviene vi rispondano i fatti, e rimanga delusa e scornata la speranza d'alcuni infelici che vorrebbono far vani i vostri disegni indugiandoli. Forse ch'ei fa mestieri ch'io vi stimoli e infiammi con nuove e speciose ragioni? e non è suprema ragione il dire: affrettiamoci, perchè ogni giorno che passa, reca non leggier detrimento al successo della italiana risurrezione? Certo, io non salgo a questa tribuna per crescere impacci al Governo; ed anzi saluterò con vivissima compiacenza il novello Ministero, quando io vi vegga rilucere il nome del conte Odoardo Fabbri. La sua veneranda e incolpata canizie mi rassicura. Quella sua vita spesa tuttaquanta in soffrire e combattere per la libertà e l'Italia, porgemi abbondante caparra che il Ministero nuovo non tenterà nulla contro le pubbliche guarentigie, nè contro il finale successo della guerra italiana. Ma per qual cagione non compare esso qui e non siede fra noi? perchè si cela e non parla? perchè ad ogni momento, in ogni occasione, sono l'esigenze [308] e gli usi d'un libero e rappresentativo governo manomessi e frustrati? perchè taluno de' Ministri non reca, com'è suo debito, a questa o all'altra Assemblea il disegno di quelle leggi che ambedue i Consigli ànno già, non nella massima solo, ma nelle principali disposizioni puranco approvate? Afflittive incertezze, dannose e inesplicabili esitazioni son queste; ed in ciascun'ora di tale specie d'interregno cresce il nostro comune pericolo.

L'esercito di Carlo Alberto dall'Adda e dall'Oglio ci guarda ed aspetta soccorso. Genova (corre voce) si vuota di popolo, e fanno il simile le città di Piemonte e di Lombardia. Un grido solo risuona per quelle provincie, e da tutte le bocche ripetesi un grido solo: al campo, Italiani, al campo. In me è gran fede, o signori, che se piace al Governo, se voi lo volete, se i popoli vi udranno parlare, le città di Romagna, le città delle Marche, e questa Roma medesima alzeranno tutte insieme quel salutare e magnanimo grido: al campo, al campo.

Onorandi colleghi, trenta secoli di storia civile già sono trapassati sopra l'Italia; eppure non vi si rincontra un punto di tempo e una congiuntura di casi forse tanto solenne e tremenda siccome quella in cui c'imbattiamo al presente; imperocchè la Penisola intera può con isforzo gagliardo di volontà fabbricare oggi a sè stessa i proprj destini, il che mai non le accadde. Può l'Italia effettualmente in questi giorni (pensiamoci bene) salir tutta e per sempre alla signoria di sè; e nelle sue monche e lacere membra suscitare e perpetuare la congiunzione del viver civile, státale ognora interdetta, e principio e cagione negli altri popoli d'ogni virtù, d'ogni gloria, d'ogni possanza. Ella può, dico, questi prodigj; ma pareggiar le conviene con l'ampiezza de' sacrificj il bene immenso ed inestimabile della libertà e della indipendenza. Dopo molti sentieri trascorsi, dopo infiniti passi perduti, eccoci alfine al bivio terribile, dove Dio e le sorti e le nostre colpe e le altrui senza riparo e difesa ci àn trascinato. O l'Italia sarà libera e grande, e conquisterà pure alfine un pieno essere di nazione; o ricadrà per sempre nel sonno affannoso d'ogni abbiezione e d'ogni servaggio. E dico sonno affannoso, perchè [309] dopo la tentata risurrezione, forza è a lei che quello trapassi turbato e funestato ad ognora dal rimorso doloroso e profondo della propria viltà.

Miriamo, signori, altresì al debito nostro speciale innanzi a Dio e innanzi agli uomini, e come noi pure siamo posti in fra due estremi, e sceglier conviene senza dimora. O i nostri nomi soneranno alle venture generazioni i più benedetti e gloriosi, o i più miseri e abbominati del mondo. A che giova, in che ci avvantaggia il chiudere gli occhi davanti a questo fiero dilemma? egli non perciò stringe e martella con minor furia le nostre coscienze. Rompiamo gl'indugi, tronchiam le parole; ai fatti, signori, all'opere generose e virili. Se domani stesso io non vedrò seduti in que' loro posti i nuovi Ministri, risalirò in ringhiera affin di proporre all'estremo male un qualche estremo rimedio.

Appena respinti gli Austriaci da Bologna, il Mamiani nella tornata del dì 11 di agosto proponeva tre insoliti provvedimenti, e facevali a pieni voti approvare con le infrascritte brevi parole:

Egli accade delle nazioni come degl'individui per appunto; cioè a dire che v'à momenti dolorosi e funesti, in cui l'animo di tutto un popolo s'abbandona, e casca sotto il peso dell'infortunio. Ma quando la fiamma del viver libero e indipendente arde vivace davvero ed intensa per entro il cuor suo, ella, simigliante al fuoco sacro di Vesta, può talvolta affievolire o negli ultimi penetrali occultarsi; ma non estinguendosi mai, forza è che indi a poco riapparisca più sfavillante, e tramandi intorno maggior luce e caldezza. Così quest'oggi avviene all'Italia, ed è ciò che lo spirito mio à creduto e sperato sempre.

O felice e gloriosa Bologna! o fra le città italiane fortunatissima e da tutte le generazioni invidiata, posciachè tu risvegli la nuova favilla del nuovo e inestinguibile incendio. Noi adempiamo, o Colleghi, un gran debito a renderle grazie solenni, e le più sentite e le più magnifiche che possano [310] uscire dal petto d'uomini riconoscenti e autorevoli. Ma egli bisogna altresì, che questa tornata non si consumi senza compiere qui alcun atto di segnalata cooperazione e d'ajuto efficace, oltre alle cose dai Ministri saviamente deliberate.

Signori, nega questo tempo ad ognuno d'intrattenersi in lunghi ragionamenti: e già non varrebbero mai le parole a bene significare una parte anche minima di quegli affetti veementi e sublimi che premono e investono da ogni lato l'anime nostre.

Bando non che ai discorsi studiati e freddi, agli eloquenti eziandio, perchè corre l'ora del forte operare.

Io propongo, pertanto, senz'altro preambolo, tre provisioni, le quali a me compariscono le più convenienti ed efficaci che la straordinarietà dei casi ricerca.

Per prima cosa, io propongo che in ciascuna città dello Stato, sulle publiche piazze si pongano tavole, alle quali sieda un delegato del Governo ed uno del Municipio, e quivi sia inalberata e visibile a tutti una scritta con le parole: La Patria è in pericolo. Ufficio dei delegati sia di raccogliere e registrare i nomi dei Volontarj che intenderanno di armarsi e combattere.

Per seconda cosa, dico doversi in ciascuna città istituire un Commissariato, a cui spetti di ricevere tutte le offerte e le largizioni dei cittadini e dei comuni per armare e vestire essi Volontarj, e porli in grado di subito unirsi alle respettive bandiere.

Per terza cosa, propongo che sia il Ministero invitato e sollecitato, affine preghi Sua Santità e fortemente il persuada a fare scrivere a tutti i vescovi, e per essi a tutti i parrochi dello Stato, perchè dall'altare e dal pulpito esortino con infiammative parole i diocesani loro ad armarsi a popolo, ed accorrere alla difesa del trono pontificale e della patria comune.

[311]

In risposta a un discorso pronunziato dal Ministro Odoardo Fabbri, a dì 14 d'Agosto, per dare notizia dello stato delle Romagne e d'Italia, dopo che la città di Bologna ebbe valorosamente respinto l'assalto degli Austriaci; il Mamiani così parlò:

Le parole che abbiamo udite sono, o Colleghi, degnissime di quell'uomo che per tutta la sua vita non breve combattè, resistette, e travagli e prigionie e proscrizioni sofferse per la libertà e l'indipendenza italiana. Io sentomi lieto ed altero il doppio in questo momento d'essere stretto con esso lui dell'onorevol nodo dell'amicizia. Debbono le sue parole eziandio rinvigorare ed accendere tutti coloro che l'ànno ascoltate, e coloro a cui verranno fuor di questo palagio con fedeltà ripetute. Conciossiachè elle suonano in sostanza, che se gl'Italiani non vogliono con le proprie mani atterrare ed abbandonare la causa comune, questa non sarà mai per cadere.

E che? potea forse la malagevole e contrastata risurrezione del nostro paese consistere tutta in una catena non mai spezzata nè rallentata di felici successi, e dovea forse tenere sembianza d'un marciar trionfale cominciato colà sul Mincio e terminato in pochi giorni sulla vetta del Campidoglio? E in quai libri, in quali storie abbiamo noi Italiani letto e imparato cosa a ciò somigliante? Forse nella storia antica di questa Roma, quando i Galli la saccheggiavano o Pirro ne sconfiggeva gli eserciti, o Annibale la sbigottiva con la vista delle prossime insegne cartaginesi, o la guerra sociale le rivoltava contro tutta l'Italia? E lasciando l'antichità come troppo diversa da noi, troviamo forse miglior condizione di fatti nelle guerre nazionali moderne? in quella di Spagna, per modo d'esempio, o in quella d'America, o nella più recente ancora e terribile della Grecia? V'appellate voi alla fortuna della rivoluzione francese, vale a dire del maggior fatto che si compisse dal popolo più bellicoso e più formidabile e unito del mondo moderno? Eppure a Tournay, in sul cominciar della guerra del novantuno, le truppe incodardite [312] e non vinte d'ogni parte sbandaronsi. L'anno dopo, alla mala prova dell'armi in sul Reno aggiungevasi tutta la Vandea insorta, insorti i Lionesi, sconvolte e riluttanti parecchie provincie, padroni di Tolone gl'Inglesi. Più tardi, a molte e belle vittorie succedettero nuovi disastri; ed era perduta la Francia se il Genio non soccorreva di due sommi italiani, trionfando l'uno a Zurigo, l'altro a Marengo.

No, signori, l'inestimabil bene della indipendenza e della libertà non s'acquista con mediocre fatica, con poco sangue, con poche sventure. Imperocchè è necessità e ragione che sia pagato tanto caro, quanto è grande e infinito il suo pregio; e così tenacemente sia poi custodito, quanto fu duro e difficile l'occuparlo.

Io non venni qui certo per farla con voi da erudito, e rimettervi in mente i gesti gloriosi de' popoli che ognuno conosce ed ammira sin dall'infanzia. Nientedimeno, permettetemi che di passata io vi ricordi quel pugno di gente che abita le ultime arene del mare Germanico; quel picciol popolo Olandese che per la causa nostra medesima insorse e pugnò, ed ebbe ardimento di tener campo contro tutta la potenza spagnuola, tremendissima allora e pressochè smisurata. Quel pugno di gente, o colleghi, proseguì vent'anni la guerra, sostenne rovesci senza numero, tribulazioni senza esempio, e vide con occhio asciutto e spirito fiero ed intrepido diciotto mila de' suoi montare quando i roghi e quando i patiboli. Questo ferocemente vogliono ed operano le nazioni, allorchè ànno vero e santo proposito di sottrarsi al giogo de' forestieri.

Che a questi giorni la Causa Italiana corra pericolo grave non è dubbio; ma ch'ella sia già perduta o prossima ad essere, come osa taluno affermare, io risolutamente lo nego: e qui ciascuno di noi giudica e sente che ciò non è vero; imperocchè ciascuno di noi dispone e sottomette il cuor suo al debito primo ed indeclinabile di tentare ogni prova, reggere ogni travaglio, affrontare ogni rischio per la salvezza comune. Ed è natura di tutti i cimenti, e condizione e legge di tutte le forze morali; è decreto di giustizia, necessità di ragione, ordine di provvidenza, che la ostinata, coraggiosa e [313] magnanima volontà di redimersi e di combattere le oppressioni, esca coronata e felice dal lungo conflitto.

Io so molto bene, che parecchi di noi sarebber saliti in tribuna a pronunziare oggi coteste massime con migliore loquela e con più faconda e potente persuasiva. Ma, d'altra parte, io considero, e i vostri applausi réndonmene certa testimonianza, che la bocca mia ragiona in questo punto e dichiara ciò che ragiona e pensa l'animo di tutti gli astanti. Però son sicuro che a rispetto della Camera intera, io adempio in questo punto non altra opera che quella d'un araldo fedele, il qual riferisce alla moltitudine radunata ciò che viengli commesso di dire, con precisione e semplicità.

Signori, tempo è giunto che noi assumiamo tutta la nostra dignità e la nostra maggioranza, e leviamo l'animo e il senno ad uguagliare l'altezza dei casi, e quella dirò puranco delle sventure.

Roma è virtual capo d'Italia, e nel Parlamento romano è la naturale potestà d'un ingerimento legittimo e salutare in tutti i fatti comuni di tutte le provincie italiane. Se ciò è vero, e la storia e le tradizioni e la pubblica voce e le nostre coscienze e l'universale consentimento il conferma, noi non saremo così vili da ricusare la gravità, le malagevolezze e i pericoli del grande e solenne ufficio.

Prima d'ogni cosa, è debito nostro, o uomini del Parlamento romano, di dichiarare dall'alto di questi scanni e in faccia a tutta l'Europa, che eziandio in vista dell'infortunio di Custoza, in noi non s'è menomata d'un atomo solo la fede piena e inconcussa che abbiamo nella salute d'Italia e nel coraggio de' suoi figliuoli. Per la seconda cosa, o signori, egli appartiene a questo consesso di spegnere affrettatamente le nuove faville di quell'egoismo antico e funesto che à cento volte procurato la ruina della patria, ed è insieme una colpa enormissima e un troppo visibile errore. Quell'egoismo, intendo, che fa credere per passione alle varie provincie d'Italia, e per empietà le fa sperare di salvarsi ciascuna da sè, e nel naufragio comune trovare per sè sola un porto e un asilo. O tutti salvi o tutti perduti; ecco il vero, colleghi onorandi: e il conformarvi i pensieri e le opere non solamente [314] è giustizia e dovere, ma è riconoscere altresì un assioma patente ed irrepugnabile. Egli s'appartiene, per tanto, a noi di svellere con prestezza i germi di cotale egoismo, che pullulano di già e ribarbano in diverse contrade d'Italia; e nel tempo medesimo, spetta a noi di persuadere agli spiriti apprensivi ed irresoluti, ch'ei non v'à cagione niuna di disperare, ma solo di crescere e centuplicar l'energia, il coraggio e l'annegazione. Sopratutto a noi s'appartiene, o colleghi, di dare impulso veemente e dar direzione e coordinazione (quanto in sì fatte cose è possibile) alla sollevazione dei popoli, che qua e là serpendo e avvampando e come vasto incendio allargandosi, supplirà con miglior fortuna alle arti non sempre felici della strategia, e alla sola guerra dei battaglioni.

Sì, replico io, al Parlamento romano compete di buon diritto l'ingerirsi e intromettersi nei comuni negozj di tutte l'altre provincie d'Italia; perchè certamente il popol romano quello si fu che nella presente italica guerra mostrò maggiore disinteresse, adesione più intera, intenzioni più pure e sante e immutabili a rispetto del bene de' suoi fratelli. Per fermo, quando voi vedeste scorrere in copia a Vicenza e a Treviso il sangue de' vostri, pensaste forse di chiedere in ricompensa vantaggio e profitto alcuno o d'oro o di terreno o d'autorità? No certo; e quando testè s'ingrandivano i Reali di Savoja ed insignorivansi con mirabile facilità dei Ducati, della Lombardia e del Veneto; avete voi non dirò pensato ma dentro l'animo concepito un'ombra sola di sospetto e di gelosia? Nessuna. Ditemi ancora: quando per opera e zelo del vostro governo procacciavate di stringere un forte patto di lega tra i Principi della Penisola, avete voi comandato ad esso governo di fare alcuna riserbazione o clausola in vostro favore, e di tener pratica per qualche specie di utilità e di guadagno a queste provincie? No, giammai. Un sol compenso, e una sola mercede voi domandaste, a un sol patto vi atteneste con gran fermezza; vedere libera e indipendente l'Italia. Voi siete, adunque, degnissimi di assumere e reggere il primato morale sulle varie contrade italiane. Di ciò fare io vi chiedo con somma istanza; di ciò vi [315] prego e supplico ardentemente e con lacrime: ciò v'è obbligo e necessità d'intraprendere per la salvezza comune.

E perchè, o signori, le mie parole non tornino in vano suono, e i vostri nobili desiderj non giacciano senz'alcun principio d'effettuazione, io piglio arbitrio di sottomettere alla sentenza del Parlamento le due seguenti proposizioni:

1º Che il Consiglio de' Deputati elegga per iscrutinio dieci de' suoi, i quali in termine di tre giorni gli riferiscano e lo ragguaglino su tutto ciò che si possa indicare, trovare e proporre così al Ministero, come ai Consigli deliberanti, per ajutare in modo efficace e immediato la generale resistenza agli Austriaci e la salvezza di tutta l'Italia.

2º Che il Ministero sia pregato a scrivere di presente a tutti i Governi italiani, invitandoli ed esortandoli, udito ciascuno i suoi Parlamenti, a spedir subito in Roma loro deputati per discutere e deliberare in comune, e sotto l'alto patrocinio di Pio IX, intorno al modo migliore di difendere l'Italia ed accertarne l'indipendenza.[25]

ESORTAZIONE AI ROMANI.

I fratelli vostri di Bologna eroicamente combattono, e voi non movete a soccorrerli? Dunque sosterrete ch'ei, soprafatti alfine dal numero, scemati per le morti, le ferite e gli stenti, e sopratutto scorati dal non vedere prossimi ajuti, soccombano all'armi e al furore de' barbari, e sia l'antica, la dotta Bologna sforzata e manomessa dal ferro e dal fuoco? imperocchè il dado è tratto; o la vittoria, o lo sterminio; questa e non altra è la scelta.

Romani! a voi che sortiste il nome più grande e glorioso del mondo, a voi darà il cuore di assistere a ciò riposati ed inerti come a curioso spettacolo? Sorgete tutti, per Dio! armatevi a popolo, accorrete alle insegne, moltiplicate le file; e scoppi e avvampi di nuovo ne' petti vostri quel divino [316] entusiasmo che di là dalle pontificie frontiere vi sospingeva, or fa pochi mesi.

Siamo prudenti almeno e solleciti di noi stessi, se non giusti nè pietosi inverso i fratelli. Alla Causa Italiana, ben lo scorgete, tramischiasi al presente la nostra particolare; e dentro Bologna si disputa ora la integrità e salvezza degli stati della Chiesa, la tutela delle leggi, la guardia della libertà, la vita degli ordini nuovi, la dignità, la pienezza, la inviolabilità del Pontificato. Quindi il Principe stesso vi comanda e prega di pigliar l'arme per la santa difesa, nè scende oggi lenta e dubiosa sulle vostre spade la benedizione di Pio. Sorgete, marciate. Dietro il romano vessillo seguiranno a frotte i popoli delle provincie, e lo Stato si cambierà rapidissimo in un campo di valorosi; e a voi combattenti nell'antiguardo toccherà la gloria invidiata e bella nei secoli, di avere per ogni parte d'Italia risuscitato l'incendio sacro ed inestinguibile della nazionale sollevazione.

Sì, Cittadini, alle arti compassate della strategia e alla sola guerra de' battaglioni, ecco succede e s'alterna la guerra disperata dei popoli, e quella lotta incessante ed universale d'ogni città, d'ogni villa, d'ogni casolare, che à salvata a' dì nostri la Grecia e la Spagna, e salvò l'Elvezia e l'Olanda. Romani, all'armi. Tutta l'Europa vi guarda!

(Dall'Epoca, 12 agosto.)

AI SIGNORI DIRETTORI DELL'EPOCA.

Ricordevole della calda affezione e della stima particolare e costante onde vi piace di onorarmi, io vi chiedo di far luogo nel pregiatissimo vostro foglio alla infrascritta dichiarazione, a dettar la quale sono mosso dalla stretta necessità di difendere l'onor mio; e chiedo insieme a voi ed a' vostri lettori infinite scuse dell'intrattenervi per alcun poco della mia inutile persona in giorni così gravosi e minaccevoli per l'Italia.

[317]

Molti o ingannati o maligni vanno spargendo da più tempo, che nell'intimo del cuor mio sta l'intenzione deliberata di rovesciare i presenti ordini dello Stato, e giungere alla fondazione d'un Governo provvisorio; a tale occulto ed ultimo fine rivolgere io le cure e i maneggi, ed alla preparazione sua essermi giovato per ogni guisa del Ministero che da me pigliò il nome. A voci così bugiarde e ingiuriose io non poneva, secondo mia costumanza, nessuna mente. Ma ora mi vien riferito da gente proba e autorevole, ch'esse suonano eziandio all'orecchio d'un personaggio, inverso del quale debbemi stringere, oltre a molti altri nodi, quello soave e perpetuo della gratitudine.

Impertanto, a me corre obbligo di formalmente dichiarare, siccome fo, che a quelle voci manca ogni sostegno di verità, e mai non sono state le mie intenzioni quali si fingono dai tristi o si credono dai corrivi, e che tutto è falso e calunnioso ciò che intorno al proposito si va divulgando.

A due fatti poi si accenna più specialmente da' miei detrattori ed accusatori, siccome a prove e testimonianze delle affermazioni loro; e nemmanco di tali due fatti moverei qui o altrove alcuna parola, quando non fossero raccontati nelle anticamere del Quirinale, ed ancora in più secreti ed alti colloquj. Il primo si è d'avere io questi giorni passati concluso un discorso alla Camera con questa frase per appunto: proporrò ad un estremo male un qualche estremo rimedio. Sopra che, affine di dissipare ogni sinistra interpretazione, bastimi di asserire con pienissima lealtà e fermezza, che i rimedj estremi a' quali pensavo non erano nè un Governo provvisorio nè altra cosa somigliante.

Convertonsi da taluni in secondo capo di accusa le parole che io dissi, e i partiti che io proposi nell'adunanza privata la qual si tenne in Monte Citorio la sera del primo agosto.

Ora, come in quell'adunanza si annoverarono non meno di trenta deputati, e ch'ogni varietà d'opinione e di sentimenti ebbevi rappresentanti ed interpreti, ciò ch'io vi discorsi e proposi mai non si potrebbe nè nascondere nè alterare; quindi alla comune testimonianza di que' deputati mi [318] rimetto compiutamente. Di Governo provvisorio nessuno fece motto, nessuno fiatò; e quelle proposizioni che io metteva innanzi molto risolute e gagliarde come i casi portavano, tanto erano legali e accettabili, che vennero il dì poi con leggier differenza approvate e accettate da entrambi i Consigli deliberanti.

Scrissi, è già oltre a un anno, al Segretario di Stato Cardinal Gizzi e promisigli sull'onor mio, tornando nello Stato Romano, di astenermi da qualchessia modo violento di mutazione, e che avrei con sincerità ed esattezza obbedito alle leggi correnti. Quel che promisi ho attenuto e non cesserò di attenere, sì per debito di onestà e sì per utile della patria comune, a cui nuovi sommovimenti e scompigli farebbero danno e ruina.

Se in Roma si tenne proposito di Governo provvisorio, e nacque rischio fondato di vederlo costituito, fu certo ne' primi di maggio del vertente anno; e non si ignora, credo, da alcuno chi fosse colui il quale contribuì con maggior efficacia e prontezza a rimovere ed a cessar quel pericolo.

Terenzio Mamiani.

Di Roma, li 22 di agosto del 1848.

L'Autore venuto in Piemonte a partecipare agli atti della Società per la Confederazione Italiana, ebbe carico di dettare le due seguenti scritture.

RAPPORTO IN NOME DEI COMMISSARJ DEPUTATI A SCEGLIERE
E COMPILARE LE MASSIME DI UN PATTO FEDERATIVO.

Signori.

Allorquando molti Italiani convennero da diversi Stati della Penisola al presente Congresso per tenere l'invito che lor ne fu fatto, e dare un qualche principio alla grande opera della Confederazione; venne per prima cosa al giudizio ed esame dei congregati sottoposto un disegno di Patto federativo; e pochi giorni di poi, un disegno di legge per l'elezione di un'Assemblea, la quale assumer dovesse il mandato [319] speciale ed unico di compilare e sanzionare quel Patto.

Il Congresso posesi tostamente ad esaminare con zelo e diligenza il primo dei due disegni, rendendo grazie particolari e publiche agli autori di esso. Ma la intrinseca malagevolezza della materia aggiunta alla sua novità, e, d'altro lato, il desiderio che molti sentivano di produrre cosa piana, semplice e non impossibile a venire accettata e presto condotta in atto, fecero che le discussioni, mosse non pure da diversi pareri, ma da contrarie tendenze, procedessero lente, sconnesse e oltremodo implicate. Perlocchè, considerandosi da una parte la lunghezza di quel disegno e il breve durare del Congresso, e considerandosi dall'altra che mal si poteva sperare che fossero dai governi e da qualunque Assemblea costitutrice del Patto accolte quelle distinzioni e dichiarazioni così particolareggiate e minute, accadde che la vostra adunanza, dopo aver controversi e ammendati il proemio e i due primi articoli, impose ad una Commissione a ciò deputata di scegliere in tutto il disegno quei capi entro ai quali raccoglievasi la sostanza di un Patto confederativo e la somma delle guarentigie costituzionali; e questo, affine che non mancando tempo al Congresso di discutere e pronunziare, ei valesse a produrre un'opera nell'essere suo compiuta e applicabile.

Apprestatasi la commissione ad adempiere all'ufficio imposto, subito le fu bisogno di usare la facoltà conferitale dal Congresso di mutare cioè in parte il dettato degli articoli che doveva scegliere nel disegno; conciossiachè conveniva esprimere la sentenza loro in modo assai più generale; e similmente doveasi dar loro altr'ordine e altra collegazione.

Con tali rispetti la Commissione à delineate le basi di un Patto confederativo, e ne à definiti i principii e le massime direttrici.

Sembra alla Commissione, o signori, che in tali pochi capi racchiudasi veramente ciò tutto che è sostanziale in un Patto confederativo. E per fermo, se l'essenza di qualunque governo consiste nella mente e nel braccio, o vogliamo dire in una potenza che fa la legge e in una che l'eseguisce; voi trovate nei capi IV, VI e VII[26] la sostanza di ciò che informa ed [320] incardina un potere legislativo indipendente e sovrano, e di ciò che compone le sue principali e massime pertinenze, trattandosi di una Confederazione.

Nei capi I e V, poi, scorgete la sostanza di tutto quello che crea ed ordina il potere esecutivo e ministrativo.

Quanto al capo X, sotto cui si registrano tutte le massime di gius pubblico degne di venir confessate dalla Confederazione italiana, noi volentieri abbiamo seguito pur qui la mente ordinatrice del proposto disegno, la quale non solamente stimò di fare rassegna delle massime pertinenti alle relazioni e corrispondenze fra Stato e Stato, ma di quelle eziandio che fondano da per tutto e preservano la libertà civile e politica, e perciò da ogni liberale costituzione venir debbono professate. In tal guisa lasciandosi a ciascuno Stato ogni arbitrio di foggiare e adattare a sè stesso la propria costituzione, ponsi impedimento perpetuo ch'ei non conculchi giammai nè dimezzi o neghi o dimentichi alcun sacro e imprescrittibile diritto dell'uomo.

La Commissione ha procacciato di segnare e dinumerare cotali diritti e cotali massime di gius pubblico, secondo il concetto più compito e migliore che far si possa oggidì delle condizioni morali e politiche d'un popolo libero ed eminentemente civile; come nei pronunziati che mirano specialmente alle relazioni e corrispondenze fra i varii popoli della Confederazione, ha studiato di raccogliere il più importante e il più pratico di ciò che risguarda i due subbietti predominanti di tutta quella dottrina, che sono Unione e Reciprocazione. Da ultimo, i commessarii vostri ànno aggiunto ai nove capi prescelti e coordinati una disposizione transitoria proposta da un vostro collega[27] e approvata da voi nella tornata delli 22 del corrente mese, e la quale à per fine di subito rendere profittevole alla Causa nazionale e alla guerra santa che sosteniamo il primo adunarsi dei Deputati della gran famiglia italiana.

S'appartiene ora al Congresso di giudicare se questo schema, a così chiamarlo, di Patto confederativo sia degno del suo suffragio. Ma ciò che il Congresso, discutendo la proposta [321] di una legge elettorale, à già risoluto, si è: 1º Che egli desidera che tale schema (esaminato e riveduto innanzi da lui) diventi un limite e una disposizione non alterabile, e sia materia di un mandato imperativo che i Governi consegneranno a coloro a' quali verrà l'ufficio di terminare e sancire il Patto confederativo: 2º Che il particolare disegno di una legge elettorale per la Costituente italiana si conformi e si acconci con esattezza ai principii e alle massime significate nello schema di esso Patto. E intorno a tutto ciò la Commissione si ristringe a far voti perchè la proposta di legge elettorale, tenuta da voi tuttora in consulta e in esamina, non si dilunghi in nulla da tali due vostre risoluzioni, e riesca altresì la più semplice, la più spedita e la più accettabile che mai si possa.

Per soddisfare al presente, o signori, a quell'altro incarico dato alla Commissione, di determinare cioè e descrivere le vie pratiche le quali à da calcare la Società nazionale per la Confederazione italiana, affine che il programma da lei proposto venga sollecitamente ad effetto; sembra alla Commissione non altra cosa dover fare, se non ricordare al Congresso ciò che nel seno della sua Sezione politica fu discusso e deliberato.

Ei vi si ricorda pertanto, o signori, che pochi di sono, alcuno dei vostri colleghi[28] raccomandò al Congresso di non patire che sia disciolto innanzi di aver fermato alcuna cosa di più effettivo e pratico che un nudo programma. E perchè è forza temere che esso pure il programma della Società venga o dimenticato o respinto o al tutto travisato da alcuni nostri Governi d'Italia, dato ancora che non gli manchi l'assentimento e la lode della nazione, fa gran mestieri, diceva quel vostro collega, di porre in consulta la infrascritta proposizione: — Comunicato e raccomandato nei debiti modi ai Governi il nostro programma, fatto lor sentire e conoscere la necessità di adempire il voto comune intorno alla convocazione di una Dieta di governi e di popoli e all'effettuazione di un Patto confederativo, trascorso non picciol tempo senza vedere incominciamento buono dell'uno e dell'altro; qual cosa resta [322] da procurare e da tentare alla Società nazionale per giungere senza tumulto e rivoluzione all'intento suo? —

Udita cotal proposta, fu da molti con alacrità disputata, e parecchi spedienti e trovati vennero suggeriti pel conseguimento del fine. Pareva ad alcuno che imitar si dovesse la radunanza di Haidelberga, la quale in assai pochi giorni si trasformò in un'Assemblea costituente, riconosciuta e obbedita per tutta Germania. Alcun altro escogitava la convocazione di un consesso nato e formato dal suffragio universale, tacendo però il modo di poter radunare le moltitudini e raccoglierne ordinatamente il voto, contro il divieto dei Governi. Alcuno voleva si facesse richiamo ai Circoli tutti politici per l'Italia disseminati, e dal grembo loro uscissero i deputati alla dieta. In fine, l'autore della soprascritta proposizione, avuta facoltà di parlare, e incominciato dal ribattere ed eliminare ciascuno dei partiti sopra accennati, definì e descrisse due modi, i quali insieme congiunti e coordinati egli reputava molto efficaci, ed anzi, a dir vero, i soli da potersi rinvenire ed usare secondo le vie legali e pacifiche. Il modo primo, disse egli, essere la forza crescente dell'universale opinione; il secondo, un richiamo gagliardamente fatto ai Parlamenti italiani, e un'azione speciale ed assidua sopra essi esercitata. Doversi moltiplicare la forza dell'opinione con lo spandere rapidamente e in guisa ben regolata la Società nostra in ogni provincia, in ogni città, e, se puossi, in ogni borgata, e col darle ajuto continuo di stampe e pubblicazioni periodiche sotto forma di gazzette, di lettere, di catechismi e simili scritti popolari, atti e convenienti a diffondere e radicare in tutte le menti un solo concetto e in tutti gli animi un sol desiderio. Doversi moltiplicare altresì quella forza coll'apporre a memoriali diretti così ai Governi come ai Parlamenti migliaja e migliaja di soscrizioni e più di una volta rinnovellate. La quale opera non bastando, e proseguendo tuttora la resistenza al desiderio comune e al diritto che lo sostiene, doversi allora por mano al secondo modo, e sperimentare ogni via ed ogni arte perchè in un parlamento almeno della Penisola il programma della Società nazionale trovi pluralità di suffragi. Non sorgere [323] appo noi fra i Governi e i popoli altra autorità intermedia legale e dalle moltitudini riconosciuta, salvo che i Parlamenti, i quali tutti o parte di loro od uno almeno impossessandosi del gran fatto, e proponendo e vincendo il partito che si richieda ai Governi italiani l'attuazione di una Dieta e d'un Patto secondo le massime della Società, divenire certissimo che al Programma di lei accrescerebbesi oltre misura il credito e l'efficacia, e sarebbe consegnato a mani siffatte che possono, tentata prima ogni via legale e conciliativa, condurlo all'atto da per sè medesime, e senza grave e pericolosa perturbazione. Diffatto, potere quel solo Parlamento o più d'uno con lui risolvere e decretare, che certo numero di Deputati da lui prescelti s'adunino in tale o tale città, per quivi deliberare intorno al Patto confederativo. E del resto, parere impossibile che una determinazione così ardita e notabile, e un esempio così generoso come quello sarebbe, non traesse dietro di sè, prima gli altri Parlamenti, poscia i Governi più illuminati, in ultimo tutta la Nazione. Tale fu il parere allora significato da quel vostro oratore, al quale aderì pienamente il maggior numero degli astanti.

La Commissione vostra facendovene ora esatta e particolareggiata menzione, siccome n'ebbe l'incarico, si piace d'aggiungere ch'ella pure si accosta con piena fiducia al parere del vostro collega. E però vi propone, dando subito un qualche cominciamento all'impresa, d'inviare il nostro programma così a ciascun Governo, come a ciascun Parlamento italiano, accompagnandolo con parole validate da tutte le vostre sottoscrizioni, e proprie ed acconce a far bene intendere quale sia il concetto, quale il desiderio che vi conduce; e come la necessità estrema dei tempi vi astringe a pregare ed insiememente esortare con istanze caldissime perchè l'opera loro s'affretti, e non vogliano tanta parte della salute d'Italia o negligere o trattare con tepidezza, o permettere che i demagoghi tumultuando la guastino e la snaturino, e sia cagione di discordia e di sangue ciò che dovrebb'essere di fratellanza e di pace. A cotesto primo atto della Società e del Congresso, la Commissione spera e desidera che conseguiti altra maggiore dimostrazione del nostro [324] voto comune. Egli occorre, come notammo qui sopra, che ogni città, e, se è cosa fattibile, ogni borgata e villaggio possieda fra breve una Giunta della vasta e sempre crescente Associazione nazionale, e che per opera di tali Giunte vengasi prestamente ad apporre infinite sottoscrizioni al nostro programma; il quale così fregiato e rinvigorato della spontanea ed universale adesione dei popoli, tornerà ai Governi ed ai Parlamenti con acquisto immenso di morale forza ed autorità.

In risguardo poi dell'azione speciale e incessante che esercitar conviensi sui Parlamenti per condurne alcuno a favoreggiare il programma e disporsi ad effettuarlo; in ogni Giunta della Società nazionale se ne terrà particolare consiglio, e si vorrà profittare d'ogni circostanza, spiare qualunque occasione, usare d'ogni mezzo legale e d'ogni arte onesta e non vile, che la prudenza, l'ingegno, lo zelo, l'attività e la perseveranza forniscono e insegnano; ed a tutte queste parziali e locali industrie e provvedimenti darà poi direzione e collegazione continua quella gerarchia che di necessità costituir fa bisogno in seno di una società vastissima e numerosissima.

Se poi (il che tolga Dio) ai partiti che vi sono proposti, o signori, non seguisse verun effetto notabile, rimarrebbe allora a ciascheduno di noi il dovere di ristringersi colla propria coscienza, e deliberare e risolvere qual sia l'officio del buon cittadino, quando ogni via legale si chiude, ogni espettazione è frustrata, ogni longanimità è senza frutto.

PROGETTO DI UNO SCHEMA D'ATTO FEDERALE, REDATTO DAL CONGRESSO NAZIONALE PER LA CONFEDERAZIONE ITALIANA, RADUNATASI IN TORINO IL 10 OTTOBRE 1848.[29]

Allo scopo di creare unità nella vita politica dell'Italia, di stabilire e difendere l'indipendenza, di conservare la pace [325] interna, di tutelare ed ampliare le libertà politiche e le utili istituzioni civili, e di promuovere l'agricoltura, l'industria ed il commercio, il Regno dell'Alta Italia, il Gran Ducato di Toscana, lo Stato Pontificio, il Regno di Napoli, il Regno di Sicilia, si riuniscono a costituire la Confederazione Italiana.

I patti e le norme di tale unione hanno per base i principj e le massime che qui seguono:

§ I. La Confederazione ha un esercito, una flotta da guerra, un tesoro ed una rappresentanza diplomatica all'estero.

§ II. La bandiera federale è la tricolore italiana.

§ III. La Confederazione è rappresentata da un'autorità centrale, composta d'un Congresso legislativo e d'un Potere esecutivo permanente.

§ IV. Il Congresso legislativo è composto di due Camere; nell'una ogni Stato è ugualmente rappresentato; nell'altra la rappresentanza è proporzionale alla popolazione.

Le due Camere saranno elettive. L'elezione della prima apparterrà ai poteri costituiti di ciascuno Stato. Quella della seconda, ai popoli. A tal uopo l'Assemblea Costituente promulgherà una legge elettorale comune.

§ V. Il Potere esecutivo è composto di un Presidente responsale, con un Consiglio di Ministri similmente responsali. Il Presidente è nominato, a tempo, dal Congresso legislativo. I Ministri sono nominati dal Presidente.

§ VI. Appartiene al Congresso di proporre e deliberare sopra ogni materia d'interesse generale della Confederazione.

§ VII. S'appartiene pure al Congresso d'intervenire:

1. Nei casi di collisione fra uno Stato confederato e l'estero;

2. Nei casi di grave contesa fra Stato e Stato della Confederazione;

3. Nei casi di perturbamento nell'interno d'uno Stato, qualora ad impedire la guerra civile riescano insufficienti i poteri quivi costituiti;

4. Nei casi di violazione del Patto federale.

[326]

§ VIII. Non esisteranno dogane fra Stato e Stato. Il sistema comune doganale rispetto all'estero sarà fondato su principj di libero commercio, salvi gli opportuni temperamenti transitorj.

§ IX. Una legge provvederà all'istituzione d'un supremo tribunale federativo per giudicare:

1. Le controversie di diritto fra Stato e Stato;

2. Le controversie fra i singoli Stati e il Governo centrale federale.

§ X. La Confederazione riconosce come massime di gius-pubblico in tutti i suoi territorj:

1. Libertà di stampa;

2. Libertà individuale;

3. Massime guarentigie giudiciali: non giurisdizioni nè procedure eccezionali;

4. Libere istituzioni municipali;

5. Diritto di petizione individuale e collettivo;

6. Diritto di associazione;

7. Uguaglianza civile politica, non impedita da differenza di religione;

8. Libertà politica guarentita dalle forme rappresentative e dalle armi cittadine;

9. Responsalità ministeriale;

10. Svincolameto della proprietà fondiaria;

11. Promozione dell'educazione e beneficenza popolare;

12. Agevolamento della reciprocanza dei diritti politici;

13. Ammissibilità di ogni cittadino della Confederazione italiana a tutti gli uffici di qualunque Stato della medesima;

14. Promozione dell'uniformità in quelle istituzioni che importano relazione di diritto civile fra i cittadini de' varj Stati;

15. Abolizione della pena di morte in materia politica.

Disposizione transitoria.

L'Assemblea Costituente, innanzi di procedere alla discussione e compilazione del Patto, proclamerà solennemente l'esistenza della Confederazione italiana, e l'accettazione dei [327] principj e delle norme qui sopra descritte. E oltre a ciò, proporrà e delibererà sui provvedimenti comuni richiesti dall'urgenza dei casi e dalla necessità della guerra italica.

Presidenti. Mamiani Terenzio. — Gioberti Vincenzo. Romeo Giovanni Andrea.

Vice-Presid. Perez Francesco. — Bonaparte Don Carlo. Leopardi Pietro.

Segretarj Gener. Freschi Francesco. — Borsani Giuseppe. Brignone Giovanni Edoardo.

AL RE CARLO ALBERTO il Congresso della Società Nazionale per la Confederazione Italiana.

Sire

La Provvidenza per nuove ed arcane vie affretta e matura la salvezza d'Italia. Un popolo forte e animoso combatte sul Danubio quel nemico medesimo che noi sul Po e sull'Adige abbiam combattuto. Ecco nelle mani di Jellacich rompesi quella spada che dovea solo ringuainarsi dopo avere le membra del guasto impero tornate alla soggezione degli oligarchi. Ma questi non meno abborriti in casa che fuori, affogan di nuovo nel proprio sangue, e Vienna è testimonia d'una seconda e più terribile vittoria del popolo. Oltre di che, per confusione profonda dei Barbari, e consolazione non pure nostra ma di tutte le genti e dell'umana giustizia, egli piacque lassù che cagione, principio e sostenimento del notabile fatto fosse una schiera di quegl'Italiani sfortunatissimi che l'Austria a colpi di verghe costrigne a guerreggiare la patria e puntellare la sua tirannide. Ma la voce dei lontani fratelli penetrò nel cuor loro, e sentirono e riconobbero che il servaggio Ungherese saria primo anello alle dure catene d'Italia.

In tal guisa, o Principe, la Provvidenza ripara con patenti prodigi gran parte dei danni che il peccato non vostro [328] ma della sola fortuna rovesciò sopra alle armi italiane, e che il vostro petto magnanimo con fermo e sereno coraggio sostenne. Noi sappiamo, o Sire, che ferve nell'animo vostro un'impazienza eroica di prontamente giovarvi delle prospere congiunture, e voi solo (sia lode al vero) o pochi altri con voi non avete guari dubitato delle sorti d'Italia: sicchè, aspettando tuttora dal congresso di Brusselle patti e proferte di pace, mai non avete tolta la mano d'in sull'elsa della spada, e mai non vi esce della memoria l'impavido precessor vostro Emanuele Filiberto; il quale assalito e spinto fuor dello stato, e perduta ogni sua provincia, non disperò, ma riebbesi animoso, e vinse e ricuperòlle. A voi, pertanto, debbe accrescere se non valore ed intrepidezza, conforto almeno e compiacimento lo scorgere a chiari segni, come non solamente ne' popoli vostri ma in tutti gli altri della Penisola sorge ora la stessa impazienza di ripigliare le armi, e romper col ferro i nodi e i viluppi dell'astuta diplomazia. Il Congresso della Società Nazionale per la Confederazione Italiana, che parla a voi rispettosamente per la nostra bocca, ve ne rende ampia e sicura testimonianza; imperocchè, componendosi esso di cittadini qui accorsi e adunati da ogni provincia del Bel Paese, fanno credenza interissima del volere e sentire di quelle. Di giorno in giorno, anzi, a dir più vero, d'ora in ora aumenta e moltiplica il desiderio e la brama ansiosa d'un nuovo conflitto; e una profonda voce dell'anima fa a tutti pensare e conoscere, che l'oscitanza e gl'indugi tanto sono funesti alla Causa nostra, quanto giovano quella degli avversarj. Lode a Dio, o Principe, comincia ad avvampare nei petti italiani una generosa vergogna di aver preso sgomento grave d'un subitaneo disastro, quale arrecano per ordinario le guerre ostinate e non brevi. Eglino, già ricreduti delle troppo vive speranze riposte in altrui, tornano con magnanima risoluzione ad aver fede unicamente in sè stessi. Tal fede, o Sire, riuscirà cotanto più salda e incrollabile, quanto, non di mobil fortuna, ma sarà figliuola di costanza e virtù; e quanto sono moltiplicate le ingiurie e le ferocie dei Barbari; quanto lo sdegno trabocca ora più veemente e legittimo; quanto l'onore [329] delle armi, la gloria del nome italiano, il sangue dei fratelli non vendicato, il frutto di amarissimi sacrifici non ancora raccolto, la necessità stessa dei mali presenti e la certezza ed enormità dei futuri, ci costringono oggimai a combattere con salutare e invincibile disperazione. Il Congresso della Società Nazionale offre e promette alla Maestà Vostra di concorrere alla santa impresa con tutti que' mezzi che le facoltà proprie non solo, ma l'ardore, l'efficacia, lo sforzo e l'ostinazione d'uno zelo operoso e incolpevole sono capaci di porre in atto. La stella che la Maestà Vostra aspettava tiene il mezzo del cielo: trenta secoli di civiltà le hanno preparato il cammino.

[331]

Qui, per l'ordine del tempo, intramettiamo l'opuscolo che venne in luce il 49 in Roma, e fu nell'anno medesimo ristampato dai fratelli Pagano in Genova, con Appendice e Documenti, e con una prefazioncella di mano dell'Autore. In questa nuova pubblicazione v'à di giunta alcun documento e parecchie note.

[333]

DUE LETTERE DI TERENZIO MAMIANI,

L'UNA A' SUOI ELETTORI,

L'ALTRA ALLA SANTITÀ DI PIO IX.

Le nuove accuse e persecuzioni dalle quali viene infestato e oltraggiato l'Autore di queste lettere, lo persuadono a ristamparle, e a meglio chiarirne il concetto con qualche nota e documento. E ciò, non perchè gli atti di sua corta vita politica valgano l'attenzione e considerazione del secolo, pienissimo di cose grandi; ma solo perchè coloro a cui giungesse voce di lui, de' suoi scritti e dell'altre opere sue, non disconoscano le intenzioni rette ed i fini egregi a cui sempre à mirato con integrità di mente e di animo. Egli non si dorrà mai di vivere oscuro, come comporta la sua mediocrità e insufficienza; ma non vuol tollerare che altri procacci di ucciderne per tempo il nome con la calunnia. Nè debb'esser lecito a coloro i quali ingrassano oggi delle sventure della Nazione, il mentire con impudenza, solo perchè spogliano l'avversario d'ogni facoltà di rispondere, e gli appuntano alla gola le bajonette forestiere. Lecito non debb'esser loro di accusare gli onesti senza giusto richiamo d'alcuno, e senza trovare chi li sbugiardi solennemente, e li disusi dal vezzo che van pigliando di attribuire il titolo di agitatori insidiosi dell'ordine[30] a gente la quale ogni cosa à procurato e tentato appunto per ricomporre l'ordine, far cessare le differenze, scansare gli eccessi. [334] Il che a nessuno è più manifesto che ad essi medesimi detrattori, i quali nelle ultime rivolture d'Italia e di Roma, caduti in odio all'universale e però venuti in paura estrema di raccogliere alfine il merito loro, mai non finivano di ringraziare e lodare di moderazione, giustizia, bontà, modestia e ogni bene l'Autore di queste lettere. Del rimanente, egli stima che non dovrà correre moltissimo tempo perchè si veda chiaro ed aperto da qual sorta di cittadini si commetta opera veramente perturbatrice e sovvertitrice dello Stato: se da quella, cioè, che trascina oggi Pio IX sulle fallaci orme del suo predecessore; ovvero da quella che a mani giunte il pregava di compiere la ben cominciata impresa, separando al possibile le due potestà, e non avversando negl'Italiani il legittimo desiderio di costituirsi in pieno e sicuro essere di Nazione.

TERENZIO MAMIANI A' SUOI ELETTORI.

Le Camere sono dal presente Ministero state prorogate, o, a dir più giusto, disciolte; dappoichè invece loro vien convocata un'Assemblea generale, a cui si commette il pieno riordinamento delle pubbliche cose.[31] A me corre pertanto l'obbligazione, o concittadini elettori, di dichiararvi, almeno in compendio, come abbia io sostenuto il nobile ufficio che mi affidaste, eseguito il geloso vostro mandato, raccolte e interpretate le vostre opinioni, difese in ogni frangente le prerogative e i diritti che vi appartengono Ma innanzi ogni cosa, perchè a voi sia fattibile il giudicare equamente dei consigli e delle opere mie, pregovi di ricordare, che queste provincie romane vivono in condizione civile e politica affatto speciale e straordinaria, e si differenziano perciò da tutte le altre del mondo. A noi popoli dello Stato Ecclesiastico, il conseguire od il conservare quegli istituti liberali di cui l'Europa e le Americhe godono oggimai con [335] saldo possesso, è impresa non pure assai malagevole e travagliosa, ma non mai compita e non mai sicura dell'avvenire. Ciò accade principalmente perchè altrove, presupposta la generalità e maturità di certe opinioni, le libertà pubbliche sono conquistate e fermate per sempre, mediante la mutazione d'alcuni fatti, e abbattendo l'armi prezzolate e l'altre materiali difese che il dispotismo si tiene intorno. Ma contro di noi, sta tutto intero un sistema antichissimo di dottrine e d'interessi, il quale si vuol far parere da molti una seconda religione, ed un tessuto mirabile non di pensieri e credenze assai controverse, ma di dogmi assoluti e intangibili. E, per esempio, è dogma assoluto ed irrepugnabile per cotestoro, che la sovranità temporale dei Papi abbia origine miracolosa, e proceda dai più alti e profondi decreti della Provvidenza, la qual vuole con essa difendere e tutelare la Chiesa, e accrescerle autorità e splendore. Perciò, in quel mentre che in qualunque contrada civile cessa ai dì nostri di venir confessato e creduto il diritto divino dei principi, la potestà temporale dei Papi ne rimane necessariamente e perpetuamente investita. Perciò pure, ogni libertà e franchigia costituzionale che godano o sien per godere i popoli dello Stato Romano, non muove da alcun diritto naturale in essi riconosciuto, ma è dono e largimento spontaneo e revocabile del principe, il quale in sostanza permane mai sempre arbitro supremo e signore assoluto del tutto. Un altro dogma da cotestoro professato si è, che alla sovranità temporale dei Papi conviene una ragione di stato ed una politica diversissima da quella di ogni altro monarca. Nel vero, i Papi, ricordevoli delle prove guerresche riuscite loro quasi sempre infelicemente, non muovono l'armi al dì d'oggi contro a nessuno, non si stringono in leghe, non entrano a parte di alcuna impresa generosa o di terra o di mare, e serban sè stessi in una perpetua neutralità ed immobilità; laonde avviene che gli Stati della Chiesa si separano affatto dalla sorte degli altri regni e non appartengono propriamente ad alcuna nazione, ma tutte le genti invece si debbono accordare a rispettarli e a difenderli; e dove non succeda l'accordo, essi vanno in fascio senza rimedio; e dove succeda, rimangono [336] alla discrezione di chi li ajuta. E però, conviensi porre gran cura che vicino a loro non sorga alcun potentato così poderoso ed armigero da tenerli in sospetto e timore continuo di dipendenza; considerato che alle loro popolazioni tocca di rimanere perpetuamente inermi ed imbelli, e le provincie sono aperte ed apparecchiate ad ogni invasione. Forse l'Italia spartita in più regni e incapace di farsi nazione giova all'indipendenza degli Stati Ecclesiastici; come lor giova assaissimo che i principi più formidabili sieno disposti a proteggerli, in contraccambio del gran sostegno che l'autorità regia e assoluta riceve ora dal papato. Del rimanente, sentenzian costoro, il dominio temporale dei Papi à da natura e per debito d'informarsi tutto quanto della potestà spirituale, ed intendere in ogni cosa a favorire e servire la Chiesa, ed essere il suo braccio e il suo scudo. Perlochè quei fatti e quelle opinioni che la Chiesa censura e altrove non può colla forza impedire, ben li dee impedire con la forza nel proprio Stato; e similmente, quei precetti spirituali che altrove legano e stringono le sole coscienze, la Chiesa nel proprio Stato fa ubbidire e osservare con tutti i mezzi prepotenti di cui il principe si vale e dispone. Laonde v'à certe libertà sostanziali e che dell'altre son fondamento, come, exempligrazia, quella dello stampare e del divulgare, e quella del non soffrire costringimento nella scelta nè nella professione del culto, ambedue le quali in Roma non possono entrare; ed anzi vi sono dannate ed abbominate, e l'encicliche pontificie ne scrivono ogni maggior male e chiamanle detestande. Del pari, di quelle altre franchigie civili e politiche, e di quelle istituzioni popolaresche che dovunque ora vanno sorgendo e convalidandosi, una porzione molto scarsa e in rigido modo temperata ed attenuata può accettarsi da Roma; alla quale veramente, per la libertà pienissima della Chiesa, occorre una libertà pienissima di comando. In fine, per questa ragione medesima della lega e contemperanza dello spirituale col temporale, ogni moto politico il quale intendesse a mutare le forme ministrative e a sottoporre il principato a leggi e ordini ristrettivi, à negli Stati della Chiesa nome e valore di sacrilegio, e sacrileghi [337] ne sono tutti gli autori, e sul capo loro balenano minacciose le folgori del Vaticano.

Tale è il sistema e tali gli adagi e le massime che sino a jer l'altro (può dirsi) ànno governato la sovranità temporale dei Papi; la quale, segnatamente negli ultimi tempi, quanto più scorgeva sè stessa debole e minima a rispetto dei gran potentati, e sentivasi combattuta e scossa nell'interno suo seno da incessanti macchinazioni e congiure, tanto più si opponeva con ira profonda allo spirito di libertà, ed all'apparenza perfino delle liberali istituzioni.

Ora, i popoli sempre facili a sperar bene e il passato dimenticare, credettero (voi vel ricordale, o concittadini) che tutto ciò dovesse mutarsi all'assunzione di Pio IX. E certo egli accadeva così, dove avesser potuto bastare all'impresa la bontà specchiata, le intenzioni purissime, la infinita soavità e mitezza di quella bell'anima; e d'altra parte, fosse stato presente agli spiriti più caldi e animosi, come non si spianta in un giorno solo quello che i secoli ànno radicato, e come l'impeto e la violenza non ajutano a consumare le cose le quali si reggono nella fede.

Ma lasciando ciò stare, certissimo è, che i nuovi e risoluti pensieri dei nostri popoli doveano presto venire in lite con quel sistema di cui ho discorso, e i cui settatori nè per le mutazioni sopravvenute in tutta Europa, nè per le riforme di già compite, nè per lo Statuto medesimo promulgato, erano tanto o quanto disposti a modificare le lor viete dottrine, e sopprimere una sola di loro ambigue giurisdizioni. Voi ben sapete che il primo patente conflitto scoppiò al pubblicarsi dell'allocuzione pontificale del 29 di Aprile, in cui venia riprovata e interdetta la guerra vivissima che le truppe nostre e il fiore de' nostri giovani, mescolati con Subalpini e Toscani, combattevano di là dal Po contro gli stranieri, a fine di riscattare l'Italia e in essere di nazione rivendicarla. I Romani, che tra le file de' Volontarii annoveravano chi il figliuolo, chi il padre, ognuno un parente o un amico, fieramente se ne sdegnarono. La città turbata e sconvolta diè di piglio alle armi, s'impossessò del Castello, mise guardie a tutte le porte, ad ogni crocicchio; proruppe in minacce di morte contro ai [338] prelati che s'imputavano di avere mal consigliato il Pontefice, e sulle piazze e per tutto parlavasi aperto di dare al governo altra forma e altro capo.

Allora fu, come vi è noto, che la Santità Sua si degnò di chiamarmi, e dopo seguito un lungo colloquio in presenza dei cardinali Altieri e Antonelli, mi diè quella il carico di comporre un Ministero tutto di laici, e dal quale fossero per concessione nuova trattati eziandio gli affari esterni secolari. Io, quantunque conoscessi assai nettamente che il conflitto era per rinnovarsi infinite altre volte, e nessuna vittoria formale essersi guadagnata sulle pretensioni e le massime del sistema sopradescritto; pure, volendo la fortuna che il nome mio avesse in quei giorni arbitrio di racquetare la città e ricomporre l'ordine pubblico, e considerando la gran ruina che cagionava l'abbandonarsi affatto da noi Romani la guerra dell'Indipendenza, accettai la datami commissione; e mercè della cortesia ed annegazione degli onorevoli miei colleghi, venne il dì dopo costituito il nuovo governo, e la città e le provincie quasi per incantesimo ricondotte all'usuale tranquillità. Fu in sulle prime nostra gran cura, non potendo mettere in atto se non la minima parte delle riforme ed innovazioni che i tempi chiedevano, di significare almeno e dichiarare in faccia all'Italia ed al mondo cattolico, qual modo noi credevamo più razionale insieme e più pratico per conciliare le differenze, mettere in buon accordo lo spirito dell'autorità assoluta e quello della libertà, convertire tutte le forze dello Stato al fine massimo e santo dell'Indipendenza nazionale, e cavare dalle condizioni speciali di Roma e della civiltà sua un principio eterno ed universale d'inconcussa moralità e di vero sociale perfezionamento: conciossiachè io scorgeva assai manifesto, che alle tante ed inopinate rivolture d'Europa mancava la fede profonda nel bene e nella giustizia, il concetto chiaro degli uffici e delle virtù cittadine, e il sentimento vivo, operoso ed assiduo del dovere.

Le quali tutte cose noi pronunziammo in uno scritto che, il 9 giugno del 1848, aprendosi per la prima volta i Consigli deliberanti, leggemmo pubblicamente dalla tribuna, e fu domandato il programma del Ministero. In esso proposesi quella [339] sola ed unica forma di concordia e armonia sincera e durevole fra la libertà e il papato, la qual consisteva principalmente a distinguere e separare al possibile nella persona medesima il regno spirituale dal temporale; e che il primo si esercitasse dal Pontefice immediatamente con ogni pienezza di autorità, l'altro fosse delegato in massima parte e lasciato all'arbitrio delle due Camere, e dell'opinione più generale e più savia. Il perchè, «se il governo rappresentativo (diceva il Programma) non esistesse in niun luogo, inventar dovrebbesi per queste Romane Provincie.» Dalla quale separazione leale e profonda sarebbersi in ultimo originati quei due gran beni che il mondo moderno desidera e spera di effettuare; cioè a dire, che la religione s'adusi a vivere in mezzo alla libertà, e che questa si purghi, s'infiammi e nobiliti nella religione. In tal guisa poteva da Roma procedere un influsso nuovo e universale di civiltà, e noi Italiani ripigliare qualche insigne porzione della preminenza antica. Essendochè «non sempre (affermava quel nostro scritto) la grandezza dei popoli è da misurare dall'ampiezza del territorio e dalla potenza delle armi. Imperocchè ogni vera e salda grandezza scaturisce dall'intelletto e dall'animo. Epperò, in questa nè molto ampia nè formidabile provincia italiana, noi tuttavolta siamo chiamati a grandissime cose.(A)[32]

Ma tutto ciò non fu che un voto, e una professione accademica di principj: nel fatto, il Ministero che da me prese il nome, sostenne dai partigiani del vecchio sistema tal guerra e così contumace e furiosa, da rendere vano ogni accordo e impossibile ogni transazione. E perchè v'abbiate, o concittadini, un saggio della tenacità e ignoranza con cui le intenzioni nostre e i disegni e le opere si combattevano e denigravano, vi basti di sapere quello che dissero e fecero contro una delle più pure e sante e insieme delle più civili e lodevoli istituzioni da noi proposte, io vo' parlare del Ministero della pubblica beneficenza. Qual cosa, in nome di Dio, era più conveniente a un Pontefice, che dare al mondo l'esempio di reputare la pubblica beneficenza e l'educazione del popol minuto una materia sì degna e pia e sì grave e [340] sollecitosa, da doversi raccogliere in un ministero speciale e a quella sola materia applicato? Massimamente che, nella nostra proposta di legge, gli ordinamenti, i metodi e le pertinenze date a quel ministero mostravano con quanta saviezza (sia lecito dirlo) erano scansati i due scogli in cui rompe il presente secolo; di accettare, cioè, come praticabili e vere mille funeste utopie; o, per lo contrario, di non degnare neppur di uno sguardo quelle quistioni che versano peculiarmente sulla condizione e la sorte delle classi più disagiate, quasi bastasse per attutire e sopprimere i fatti il non tenerne conto e il non ragionarne. Ma gli avversarj nostri ci accusavano al Principe di favorire e promuovere il socialismo, e che era mio pensiero ripetere in Roma le prove sfortunatamente fatte dal Blanc in Parigi.(B)

Con tutto ciò, io non mancava, o concittadini, nè alcuno de' miei colleghi, di sostenere la lotta animosamente, e di proporre in Parlamento profittevoli leggi, seguendo una ragione di stato schietta, generosa e manifestamente amica d'ogni legale progresso. Avanzarsi all'acquisto di più larghe franchigie, svolgendo e applicando le già conseguite, e avvezzando i popoli all'osservanza scrupolosa della legge e del dritto. Iniziare la vita politica vera, sì con l'esercizio intero e comune delle libertà municipali, e sì faticando all'educazione delle povere plebi, e attraendole col benefizio e con l'istruzione inverso i nuovi istituti. Comprimere le sètte, fomentar la concordia, in nulla cosa operare come fazione, ma sempre e in tutto come tutela comune e imparziale. La diplomazia, franca, leale e severissima osservatrice dei patti; come fu mostrato nella capitolazione di Vicenza e Treviso, contro il volere di molti, e il fatto e le suggestioni d'altra Provincia italiana. Primo d'ogni mezzo governativo, la moralità e l'esempio. Suprema cura, l'Indipendenza nazionale e ajutare l'armi di Carlo Alberto senza gelosia e secondi fini, con fede e disinteresse di buoni italiani.(C) A queste mire salutevoli ed alte io volgea la mente e l'azione, allorquando sopraggiunse il gran disastro di Custoza. Il quale richiedendo partiti forti e ricisi, furono dal Ministero risolute alcune proposte di legge da recarsi ai Consigli, vigorose, efficaci ed ai casi proporzionale. Ma dal Principe non vennero consentite. [341] Perlochè apparendo chiaro a me ed ai miei colleghi di non potere più oltre servire lo Stato senza diservire l'Italia, uscimmo dal Governo, e commettemmo quel dì medesimo ad alcuni amici e fautori di recare invece nostra quelle proposte dinanzi alle Camere. Così ebbe fine il Ministero dei 2 di maggio, al quale insino all'ultimo durò ostinato e fedele il favor popolare. Tornato io ai semplici uffici di deputato, credo che non vi siano cadute della memoria parecchie provvisioni da me suggerite e discusse nel Parlamento, e da esso accettate, con sempre un fine medesimo, il quale era di por mano dal lato nostro a tutti i mezzi operabili e a tutti gli spedienti arditi ed insoliti per ristorare la fortuna delle armi italiane Io fo conto che tra voi, cittadini, non sia nessuna di quell'anime fredde e accidiose cui parve allora cosa ridevole che, per virtù d'una mia proposta, le Camere e il Ministero invitassero le moltitudini a crescere e raddensare le file de' nostri soldati, e a combattere tutti alla disperata e per ogni dove contro gli Austriaci. Ma che io non proponessi e le Camere non approvassero alcun concetto vano e fantastico, ben lo provarono i Bolognesi, che soli, inermi e disordinati, cacciarono pur nondimeno dalle porte loro molte migliaja di Tedeschi agguerriti, e per fresca vittoria orgogliosi e feroci. Dal qual fatto è lecito di trarre misura di quello che l'ardore de' nostri popoli avrebbe adempiuto se ajutavali prontamente e gagliardamente il Governo.

Ma i nostri avversarj avevano fermo in cuore di non dare alcun esito alle deliberazioni del Parlamento; il quale, perchè non mai desisteva dal suo proposito e sempre ragionava d'Italia, d'indipendenza e di guerra santa, venne alfine prorogato. Io non mi spiccherò punto dal mio subbietto per raccontarvi come tornato, o compaesani, in mezzo di voi, e fatto pensiero di ripigliare gli antichi studj, mi giungesse invito di recarmi in Torino per assistere di persona a un congresso promovitore della Confederazione Italiana; e come ciò parendomi cosa di gran momento e promettitrice di sommo bene alla patria nostra, io reputassi di dovermi subito metter in via, e sostenere nuovo disagio e fatica.

A voi debbo unicamente e insino alla fine dar conto [342] esatto del vostro mandato. E però vi dico, che giacendo io infermo in Genova di non leggier malattia, pervennemi notizia, che in una grave e sconcia sommossa accaduta in Roma il dì 16 di novembre, s'erano al Santo Padre proposti dal popolo alcuni nomi per un Ministero nuovo, e che il mio era in capo di lista. Colpito dalla singolarità del caso più che da altro pensiero, mossi affrettatamente da Genova, e per via fummi recapitata la lettera in cui, per dispaccio dell'Eminentissimo Segretario di Stato, io veniva dal Papa chiamato a reggere il ministero delle corrispondenze esteriori. Similmente, m'istruivano le gazzette, che i desiderj del popolo non erano andati più oltre di quel Programma che io leggeva già in Parlamento; e solo, facevasi domanda calorosa e formale di vederlo eseguito con lealtà e per l'appunto. D'altra parte, osservando io che nella lista proposta dal popolo il Principe avea cancellato alcun nome e supplito con altri in essa non designati, e che similmente in luogo dell'Abbate Rosmini non accettante avea posto il Decano di Rota Monsignor Muzzarelli, mi recavo a credere che Sua Beatitudine volesse con tali mutazioni mostrare, non avere in ultimo nella formazione del Ministero preso consiglio da altri che da sè stesso. Ma giunto in Roma (il che fu otto dì incirca dopo i tristi casi del 15 e 16), mi avvidi subitamente, che niuna cosa era concordata e accettata, quantunque molte apparenze il contrario annunziassero; e però, non volendo io tornare con eziandio peggior condizioni al conflitto e travaglio del primo mio ministero, mi risolveva del tutto a non consentire all'offerta; quando il 25 a mattina, Roma fu piena della subitanea e soppiatta partenza del Papa. Allora, considerando il pericolo grave in che rimanea lo Stato di non avere chi lo reggesse, e di nuocere notabilmente al successo della Causa Italiana; e considerando più ancora, che il Papa, in luogo d'ogni ordinamento e d'ogni disposizione acconcia al bisogno, erasi ristretto, partendo, a raccomandare al Ministro Galletti e a tutti gli altri Ministri l'ordine e la quiete della città, secondo che vedesi scritto nella lettera autografa al signor Marchese Sacchetti; a me parve quasi atto di pusillanimità il persistere nel rifiuto, e quel dì medesimo entrai al governo.

[343]

Non però ch'io non presentissi la guerra che d'ambo i lati avrei sostenuta, e il difetto pressochè intero di autorità e di forza per superarla; il che mi piacque più d'una volta di esprimere e dichiarare dalla tribuna, e giunsi perfino ad assomigliare quella trista vita ministeriale ad un'agonia:[33] ondechè, lasciando a ciascuno l'arbitrio di giudicarne a suo modo, a me la coscienza testimonia e confessa, che quell'entrare al governo fu dal mio lato un penoso atto di annegazione. Gli ultimi nodi di amore e fiducia tra il popolo e il principe erano spezzati; niun dubitava che a Gaeta i partigiani del vecchio sistema avrebber tenute ambo le chiavi del cuore di Pio IX, e sbanditone a poco a poco i pensieri più miti e più al secolo confacenti. La fuga di Lui dava principio ad un gagliardo e vasto macchinamento di repulse, di proteste, di monitorj, da quei partigiani apparecchiato, e intorno al quale travaglierebbersi con tanta maggior passione, quanto le umiliazioni in Roma sofferte erano state più numerose e pungenti. Scomparso il Pontefice, lo Stato, speravano essi, traboccherebbe nell'anarchia: quindi la stanchezza e lo sdegno dei popoli; quindi un piano e naturale ritorno all'antica dominazione, senza bisogno d'armi straniere; a peggio andare, quelle armi chiamate e sollecitate verrebbero. D'altra parte, accanto a questi errori e perfidie della corte di Gaeta, crescevano in Roma le smoderanze dei democratici; a molti dei quali la sommossa del dì 16, ch'elli chiamavano rivoluzione, pareva non aver recato frutto nessuno; e, secondo l'usato, accusavano il Ministero di timidezza e d'ignavia: attesochè, a giudicio loro, il sol fatto da farsi era proclamar la repubblica; il rimanente valea come nulla. Le altre Provincie Italiane non si attentavano ancora di giudicare; ma la diplomazia europea s'inveleniva contro di noi ogni giorno più. E per vero, un Pontefice stato non molto tempo innanzi il Dio degli Italiani; chiamato da essi tutti Salvatore e Liberatore; creduto un vivente miracolo della Provvidenza, e levato al cielo con lodi tanto superlative, che mai sulle bocche degli uomini non suonarono le maggiori, doveva a forza destare in Europa gran compassione della [344] mutata fortuna, correndo voce per tutto, ch'Egli era costretto a riparare e salvare in terra non sua non pure la maestà del pontificato, ma la persona propria e la vita. S'aggiungeva a questo l'interesse per ciascun potentato di non dispiacere alle sue provincie cattoliche; poi la voglia d'ingerirsi nei fatti nostri, e tirarli ognuno al suo pro. Forse a tali ragioni accompagnavasi un'altra migliore e di più rilievo. Chi regge gli Stati sente più al vivo il bisogno di fondarli in cosa ferma e inconcussa; e tanto esso desidera di conservare e di ristaurare, quanto il popolo, impaziente e voltabile, di demolire e mutare. Meraviglia non è, pertanto, se negli uomini d'alto affare, sgomentati dall'accumularsi rapidissimo di tante rovine, è subito nata una grande sollecitudine per le potestà e prerogative temporali del Pontefice; giudicando che solo dalla religione possa oggimai rampollare alcun principio di autorità, e alcuna virtù permanente, capace di architettare più tardi e ricostruire sul sodo l'ordine intero sociale. E perchè poi non si avvedono come la religione stessa, immobile nella sostanza e nelle forme mutabile, dee con le nuove condizioni civili o innovarsi o scadere, tutta la prudenza loro a rispetto di ciò consiste a voler serbare intatto e inviolato (se fia possibile) ogni muro e ogni pietra della fabbrica antica, e mostrarsene zelatori poco opportuni e poco creduti.

Posta, dunque, tal natura di casi e tale singolarità di opinioni, agevolmente se ne cavava ciò che il Governo dovea volere e tentare. Alla crescente discrepanza degli estremi partiti conveniva procacciare un termine molto sollecito, affine ch'ella non trascorresse tant'oltre da giungere tardo qualunque rimedio. All'incertezze e agli arrischiamenti di quel viver politico, ed alle speranze perverse che fondavano gli avversarj sugl'intestini sconvolgimenti, doveasi opporre una gran cura dell'ordine e quiete pubblica, e l'unione e consenso massimo tra tutti i magistrati e rettori. Alle accuse maligne e alle nemiche intenzioni della diplomazia facea mestieri rispondere con la ragione patente del dritto, e con l'osservanza continua e gelosa della legalità, e serbando scrupoloso rispetto e favore alle cose singolarmente di religione e di culto. Infine, ogni altra diligenza e fatica era d'uopo voltare [345] alle armi, ed apparecchiar gli ajuti alla guerra non evitabile e già soprastante. Tutto ciò per appunto facemmo, od almeno iniziammo e tentammo io e gli ottimi miei colleghi; e tanto parve opportuno e assennato questo operare all'universale, che le Camere, il Municipio ed ogni ordine di cittadini con noi s'accostò e si strinse; nè mai s'è veduto concordia tale in congiunture tanto strane e pericolose; e nulla valse a spezzarla finchè stettero quelle massime, e il Governo lor tenne fede.(D)

Ben vi è nota, o concittadini, la prima protesta di Pio IX, data in Gaeta il 27 di Novembre e giunta in Roma il 3 del seguente mese. Da lei era invalidata qualunque cosa pigliava radice dai fatti tumultuosi del 16 di Novembre; e a dare poi un capo al Governo, rimasto tronco e spartito, chiamavansi a reggerlo sette persone, di cui sole quattro stanziavano in Roma, e di queste una sola non si occultò. Io ed i miei colleghi, appena fummo sicuri che il Santo Padre infirmava ed aboliva l'autorità nostra, subito rassegnammo per lettera gli uffici ministeriali al Pontefice, e da questo lato ogni difficoltà era rimossa. Ma durava l'altra infinitamente maggiore della Commissione nuova governativa, la quale non adunatasi mai, e mantenendosi inoperante e invisibile, avea più forma di sogno che di realtà; tenea nascosto il mandato e gli altri carichi ricevuti, nè in verun modo eseguivali; non parlava, non iscriveva, e interrogata e pregata non rispondeva. Così la città, così le provincie senza governo alcuno si rimanevano. Il che non potendo stare, massime in tempi straordinarj e scomposti, le Camere affrettaronsi a provvedere in buon accordo col Ministero; e questo continuò in via temporanea a reggere la cosa pubblica; quelle decretarono che una deputazione di ottimi cittadini scelti ne' due Consigli fosse mandata al Pontefice, e l'istruisse della condizione vera della città. — La protesta di lui non avere fatto ricredere alcuno, e invece avere inaspriti gli animi e dato ansa agli esagerati: volesse tentare le vie di conciliazione, restituirsi alla sua metropoli, o scegliere alcuna città dello Stato ben accomodata all'uopo. Ciò non volendo, creasse almeno una Giunta di Governo effettiva e non apparente, e le cui facoltà bastassero a farle tenere il luogo del [346] Principe, giusta i diritti e gli usi costituzionali. Non potersi ai due Consigli addirizzare rimprovero alcuno fondato e legittimo. Se le forme costituzionali valevano, le Camere dovere accettare que' Ministri che presentavansi loro con lettera di nomina sottoscritta dal Cardinale Segretario di Stato; ma se il Pontefice avea ceduto alla forza ed all'apprensione del peggio, questa medesima apprensione occupare l'animo dei due Consigli, e scusare gli atti di adesione con cui si evitavano mali ed esorbitanze molto maggiori. L'Europa intera e la più parte de' suoi Monarchi non essere stati esenti da simili coazioni, ed anzi da assai più fiere e più sanguinose.

Ai deputati delle Camere, il Municipio romano volle aggiungere i suoi, l'un de' quali fu il senatore stesso Tommaso Corsini. Ma e questo e gli altri tutti ebbero impedito l'accesso al principe, non per qualche accidente o per arbitrio di subalterni, ma per comando espresso di Pio IX, significato da lettera del Cardinale Antonelli, nuovo segretario di stato. Fu nel parlamento allora vinto il partito, che si elegessero commissarj i quali, congiunti col Ministero, pensassero a proporre alcuna provvisione e risoluzione proporzionata alla gravità e straordinarietà degli avvenimenti. Io posso affermarvi, o concittadini, che da noi ministri e dagli eletti del Parlamento fu, non ostante la cortezza del tempo, ricercato ogni modo di accomodamento, e fatto fare appresso il Pontefice gli ultimi uffici e l'ultime supplicazioni. Alfine, convenimmo nella determinazione di proporre ai Consigli la creazione di una temporanea Giunta di Stato, le cui ragioni, la cui necessità e le cui pertinenze io non mi confido di farvi conoscere con brevità e chiarezza maggiore di quella che appare nel testo medesimo del decreto da noi promosso nelle Camere, e il quale io trascrivo qui tutto intero, perchè confèssovi di averlo per un dettato non indegno della prudenza civile degli Italiani.

«Governo Pontificio — Considerando che gli Stati Romani si reggono a governo rappresentativo, e godono dei diritti e delle guarentigie di uno Statuto costituzionale.

Che lo Statuto ha per fondamento la distinzione e insieme la connessione di tre poteri, e che ove uno di essi faccia [347] difetto, il reggimento costituzionale è manco e non può adempire i suoi fini.

Che nella notte del 24 Novembre scorso, il Pontefice si è allontanato da Roma, e non à lasciato alcuno a tenere le sue veci.

Che il foglio dato in Gaeta il 27 Novembre, in cui si nomina una Commissione governativa, manca delle debite forme costituzionali, le quali servono anche a guarentire l'inviolabilità del Principe.

Che la Commissione governativa nel sopradetto foglio nominata, non à palesata la sua accettazione, e in niun modo e per niuna parte à esercitate le sue funzioni, e neppure si è costituita di fatto.

Che i due Consigli deliberanti, d'accordo col Ministero e col Municipio, ànno procacciato di riparare a tanta perturbazione col mandare messaggi al Principe, chiedendogli istantemente di tornare a reggere la cosa pubblica.

Che i messaggi stessi non solo non furono ammessi nello Stato Napoletano, ma invano adoperarono pratiche per essere dal Principe accolti, e che altre pratiche più recenti, e altri uffici compiti appresso di Lui sono riusciti affatto frustranei.

Che dimorando Egli in terra non sua, ove si vieta l'ingresso per ordine superiore a qualsiasi deputazione a Lui indirizzata, e togliendosi così ai deputati un diritto espresso nello Statuto fondamentale, rimane incerto se egli sia in grado di godere della piena libertà e spontaneità delle sue azioni, e giovarsi d'imparziali e benevoli consigli.

Nè potendo qualunque Stato o città rimanere senza compiuto governo, e le proprietà e i diritti de' cittadini senza tutela:

Dovendosi per ogni guisa e con ogni spediente rimovere l'imminente pericolo dell'anarchia e di civili discordie, e mantenere l'ordine pubblico:

Dovendosi conservare intatto lo Statuto fondamentale, il principato e i suoi diritti costituzionali:

I due Consigli deliberanti, consci dei loro doveri, e obbedendo eziandio all'assoluta necessità di provvedere in guisa alcuna regolare all'urgenza estrema dei casi, con atto deliberato [348] da ciascuno di essi in seno del proprio Consiglio,

Decretano

1. È costituita una provvisoria e suprema Giunta di Stato.

2. Ella è composta di tre persone scelte fuori del Consiglio dei deputati, nominata a maggioranza assoluta di schede dal Consiglio dei deputati stessi, approvata dall'Alto Consiglio.

3. La Giunta, a nome del Principe ed a maggioranza di suffragi, eserciterà tutti gli uffici pertinenti al Capo del potere esecutivo nei termini dello Statuto, e secondo le norme e i principj del diritto costituzionale.

4. La Giunta cesserà immediatamente le sue funzioni al ritorno del Pontefice, o qualora esso deputi con atto vestito della piena legalità persona a tener le sue veci, ed adempierne gli uffici, e questa assuma di fatto l'esercizio di dette funzioni.»

Ora, di codesto decreto, Pio IX à lasciato scrivere al suo segretario di stato Cardinale Antonelli, essere un'enormità, e la protesta delli 17 di Dicembre lo dichiara e lo pubblica un attentato sacrilego. D'altra parte, i liberali di larga cintola l'hanno chiamata un'occupazione temeraria, e un'usurpazione violenta dei diritti del popolo. Non farò risposta nessuna all'accusa della Protesta, ove scorgesi un abuso grave e patente della parola sacrilegio, e rinnovasi quella perpetua e funestissima confusione dello spirituale col temporale. A riscontro della seconda censura, dirò breve quel che bisogna. In tutto ciò che il Ministero, e con esso i Consigli deliberanti vennero ponendo in atto dalli 17 di Novembre al giorno che altri impresero di governare, che fu il 23 di Dicembre, ciascuno riconoscerà issofatto la pienezza del giure e la legalità perfettissima, qualora gli risovvenga che negli estremi frangenti sorge e prevale una legalità e un diritto superiore a tutti gli altri, e il qual domandiamo necessità sociale e politica. Non può il consorzio umano disgregarsi e disciogliersi mai, nè cessare un attimo solo di correre ai fini santissimi pei quali è costituito. Di quindi nasce che sempre nei popoli è necessario un governo capace di tutelare assai competentemente le proprietà e le persone, e indurre obbedienza alle fondamentali leggi divine ed umane. Ogni volta, pertanto, che [349] i casi portano la cessazione in fatto d'un governo legale e che altro governo legale e attuale non gli succede, a qualunque magistrato quivi presente e il quale per ordine di gerarchia è primario, tocca il debito e viene il diritto d'instaurare l'autorità e reggere lo Stato finchè altrimenti non si provveda. Il suo mandato, più che dagli uomini, procede da Dio; e la potestà di lui, non che regolare e legittima, è sacra e divinamente provida. Ma questa sua direm naturale dittatura, come dalla necessità deriva, così prende da lei confine e misura esatta: il perchè le costituzioni, le leggi e i diritti attuali di ognuno per ogni parte son rispettati e osservati, o tanto solo s'immutano quanto lo impone la urgenza dei casi, vera, estrema e in guisa alcuna non simulata. Or chi chiama tutto ciò occupazione dei diritti del popolo, non considera che per usare dei suoi diritti, fa innanzi mestieri al popolo di esser salvato, salvandosi la società civile e politica; e chi vuole che in siffatte emergenze abbia voce ed imperio non altri che tutto il corpo dei cittadini, sembra dimenticare che non può tutto il corpo dei cittadini unirsi e deliberare ordinatamente, e secondo ragione e giustizia, se a ciò non à provveduto o una legge anteriore divenuta comune usanza, o un governo temporaneo di già formato e insediato; essendo che manca agli uomini la virtù istintiva dell'api di congregarsi e in comune operare quel che bisogna con puntualità e concordia maravigliosa e immutabile.

Insomma, così il Ministero come il Parlamento fu savio e operò legalmente; e ambedue iniziavano un metodo tale di difesa e di resistenza, e una tal forma di reggimento, che povero è del giudicio chi non ne scorge i larghissimi effetti, e il fine raggiunto con quiete e con sicurezza non isperata.

Ma, secondo che io notava più sopra, non potevano questi accorgimenti e queste arti di civile prudenza permaner molto saldi e operare con efficacia. Il Ministero, quantunque non partecipe delle sommosse e delle violenze, pareva da esse procedere; e il titolo di democratico che gli fu apposto, quanto poco chiaramente definiva quel che voleasi ch'egli fosse, tanto più faceva aspettare da lui cose straordinarie e ben consonanti coi desideri degli esaltati. Nè la immoderanza di [350] questi poteva essere temperata dal Ministero con alcun'altra forza morale; poichè le opinioni appresso di noi non sono avvezze ancora a pigliare animo e farsi valere, sostenendo ciascuna con energia le pubbliche controversie, e ordinando intorno al proprio vessillo le schiere de' suoi seguaci. Così avveniva che accanto agli esaltati nessuno parlasse e contraddicesse; ed elli soli tenevano il campo con tanta maggiore sicurezza e maggiore arbitrio, in quanto lo Stato, così pel mutare continuo dei Ministeri e l'incertezza d'ogni cosa, come per l'odio alle leggi antiche e il difetto di nuove e migliori, avea rallentato più che mai tutti i nodi ministrativi e infiacchita oltremisura l'autorità. L'ignoranza de' negozj politici era piena ed universale; inveterato l'abito delle sètte e delle cospirazioni; poche le armi e indisciplinate; profondo e furioso l'odio contro la Casta prelatizia. Al che tutto si aggiungeva la ferma determinazione mia e de' miei colleghi di non trapassare in nulla i confini della stretta giustizia e delle pubbliche libertà, e di non accettare per uscire di quelli il pretesto specioso della salute del popolo. «Tolga Iddio (proferiva io dalla ringhiera del Parlamento il dì 21 di Decembre) che noi, i quali in tutta la vita nostra abbiam travagliato e sudato per vedere alfine spuntar sull'Italia il sole della libertà, noi che nell'esilio profondamente odiammo e abborrimmo le disposizioni violente e tiranniche di cui si giovavano le polizie de' nostri governi dispotici, veniamo ad imitare oggi que' miseri, que' colpevoli procedimenti. Per conseguente, senza lo scudo della legge, no, questo Ministero anche ne' suoi estremi momenti mai non vorrà supplir coll'arbitrio al diritto, mai non farà pensiero nè atto, per quali che siano salutari compensi, contrario agli eterni principj di libertà che ha scolpiti nel cuore.»

Il fatto sta, che in quei giorni medesimi in cui il Ministero, di buon concerto colle Camere, riparava alle più triste e pericolose occorrenze con senno e gagliardia insieme, una voce uscita da alcuni circoli popolari acclamò la Costituente Romana. Quella voce, ripetuta nelle Provincie dagli altri circoli, crebbe tanto di suono, che parve e fu giudicata un comando espresso ed universale del popolo. La Giunta suprema [351] di Stato confermò quel comando, e il Ministero nuovo da lei creato ne fece proposta formale al Consiglio dei deputati; e perchè mostravansi questi renitenti e mal soddisfatti, l'uno e l'altro Consiglio fu in apparenza prorogato, in sostanza disciolto.

A voi non è ignoto, o concittadini, ch'io nel nuovo Ministero non volli aver parte, sì per mie private ragioni, e sì per gran dubbio che la Costituente Romana tentando forme nuove politiche, non crescesse oltre modo i pericoli dello Stato e la divisione degli animi, e maggiormente non implicasse le faccende italiane in quel mentre che il ricominciare la guerra sembrava imminente ed inevitabile. Oltre di che, io sempre avea proceduto in accordo col Parlamento, e la mia ragione di stato era similmente la sua; da lui gli applausi, da lui i suffragi, da lui conseguito aveva ogni mezzo e ogni autorità per ben governare: parvemi onesto, pertanto, di ritirarmi quando egli veniva annullato, e davasi cominciamento ad una politica nuova, con metodo e con principj molto diversi dagli anteriori.

Restami di accennarvi alcuni atti non volgari da me operati nel breve spazio di questo secondo mio Ministero, durato solo ventotto giorni. E quanto alle corrispondenze esteriori, le Gazzette ànnovi ultimamente riferito il disteso di una mia Nota Ufficiale, in cui mi studiava di fare intendere ai Diplomatici la vera e propria significazione degli avvenimenti di Roma, e il nessun frutto che nascerebbe dalla prepotenza e dall'armi de' forestieri.(E) Similmente, avete letto ne' fogli la protestazione mia e de' miei colleghi contro alla minacciata occupazione francese; e alla quale non pure il Parlamento fece gran plauso, ma da me invitato, levòssi a protestare ancor egli con dignità e fermezza italiana, oltre all'approvare le súbite risoluzioni e disposizioni affin d'impedire, a nostro potere, lo sbarco delle truppe di Francia, e la forza respingere con la forza.(F) Ma ciò che non avete raccolto dalle pubbliche stampe, si è l'altra Nota indiritta da me al Bastide, con la quale temperandosi convenientemente l'effetto della protestazione, mostravasi la buona disposizione di questi popoli inverso la nazione francese, il desiderio sincero [352] di averla collegata, non che amica; e come all'interesse e alla dignità di Lei convenisse effettivamente di proteggere la libertà nostra, invece di opprimerla e di turbarla; e che però, non trovando la Francia ragione legittima e presentanea d'intervenire con l'armi nel nostro Stato, spettava alla forza e grandezza sua di vietare vigorosamente ad ogni altra nazione il poterlo fare sotto colore e pretesto di religione. Non furono, dunque, come vedete, da me negletti, da un lato, i diritti sacri del territorio italiano e l'oltraggio recato alla dignità nostra comune; dall'altro, quella prudenza e quell'accortezza che il debole nostro Stato richiede, e le quali procacciano di voltare a profitto proprio l'interesse medesimo altrui e l'altrui albagia. Quel linguaggio e quei blandimenti potean valere, e valsero in fatto, per tutto il tempo che noi non uscimmo dal diritto costituzionale, e dalle vere e strette esigenze della sociale necessità. Per vero, l'ordine d'imbarcare truppe a Tolone fu revocato; alle prime acerbe impressioni succedevano altre più miti e più ragionevoli, e qualche pratica potea condursi fra le due parti, fondata sopra termini di giustizia e moderazione.

Quanto ai negozj interiori, farò menzione sol di due cose come notabilmente utili e degne: delle altre tacerò volentieri. La prima è l'aver presentato al Parlamento un disegno compito della legge sui Municipj. La utilità e l'importanza di simil legge è grande in ogni paese, ed è massima nel nostro Stato; conciossiachè, dove le libertà politiche sono combattute e mal ferme, possono le municipali supplire a buona misura. A questa nuova costituzione dei Comuni confesso di aver posta una singolar cura; e lo studio e la diligenza furono pari così per determinare i principj e le massime direttive di essa legge, come per rivedere e secondo l'uopo mutare e modificare la compilazione fattane dal Consiglio di Stato. Giova sperare che nessun consesso deliberante chiamato a discutere e giudicare quella proposta di Legge, sia per attenuare e impedire lo spirito largo e fecondo di libertà che tutta la informa.(G)

Il secondo subbietto degno di venir ricordato è l'avermi la fortuna conceduto il bene e la contentezza di proporre [353] io primo, dall'alto di una tribuna e fra le lodi e gli applausi di un congresso legislativo, la Costituente Italiana. Ed io chiamo ciò dono e grazia della fortuna; sì perchè nel primo mio ministero ogni fatica e diligenza dal conte Marchetti e da me quotidianamente usata per istringere una forte lega fra i principi nostri era rimasta infruttifera, e sì perchè dalla sola Confederazione Italiana aspetto conforto e rimedio ai mali della patria: da lei sola può fra' popoli della Penisola ingenerarsi concordia durevole, unione sincera e spontanea, fratellanza operosa, impeto e vigore di guerra, fondata fiducia in noi stessi e nell'armi nostre. Per lei debbono tutti gli altri minori interessi lasciarsi in disparte; e ciò che mena all'effettuazione sua debbe con ogni sollecitudine venir procurato; e colui è più benemerito dell'Italia, che più sa spianare le vie a quel fine: conciossiacchè, come prima bisogna essere, e poi procacciare di essere felicemente, così ai popoli fa bisogno avanti l'indipendenza e quindi la libertà e gli altri beni civili; e però quei mezzi debbon venire più ricercati ed usati, che meglio e più drittamente conducono a conseguire l'indipendenza e l'essere di nazione. Ma che diremo del Congresso Confederativo Italiano, il quale ad ambedue i fini dell'indipendenza e della prosperità civile parimente conduce; e non pure fa esistere la nazione e le porge animo e facoltà di combattere e riscattarsi, ma le presta quella forma e quell'assetto politico che può unicamente confarsi con l'indole sua, e rimove tutte le antiche e ostinate cagioni di lite e di divisione? Io sempre ò pensato che i due cardini del risorgimento italiano sono, da un lato, le franchigie municipali larghissime, e dall'altro, la massima unione confederativa; e però ad ambedue ò rivolto principalmente le cure e i pensieri. Voi già conosceste, o concittadini, dai pubblici fogli, qual natura di principj e quali modi discreti e conciliativi venissero per la mia bocca dal Ministero romano proposti affin di attuare il più speditamente che sia fattibile e in maniera accettevole a tutti i Governi la Costituente Italiana; onde alla cosa dovete por mente, non all'appellazione impropria ed amplificativa e di cui la voga popolare stringevaci a fare uso. Poche Note da [354] me mandate al Ministero toscano e poche da esso a me, erano bastate per risolvere ogni difficoltà, e condurre i due Governi ad un solo e medesimo fine pratico. D'altra parte, le dubbiezze, gl'indugi e gli ostacoli d'ogni maniera, che il Piemonte sembrava porre alla santa idea, caddero tutti (or fa un mese) al pigliare che fece le redini dello stato il sommo cittadino Vincenzo Gioberti. Ora, voglia Dio che le ultime mutazioni sopravvenute in queste nostre Provincie, e il tenore della legge toscana testè promulgata in ordine a tal materia,[34] non tardino e non difficultino la tanto sospirata convocazione di un Congresso Confederativo.(H)

Questo è il racconto esatto e sincero, benchè semplice sopramodo e conciso, del civile adoperamento e profitto che parvemi bene di fare del vostro mandato, o concittadini elettori. Nè mi concedevano di star silenzioso il senno e la dignità d'un Collegio del cui suffragio due volte in pochi mesi sono stato onorato, e a cui mi legano durevolmente l'amore e la gratitudine. Dal qual racconto io non ispero che si possa e voglia ritrarre alcun giudizio migliore sull'opere mie, salvo che in nessun tempo mi sia mancata l'onestà e il buon desiderio, e che la custodia delle libertà pubbliche sia nelle mie mani riuscita la più vigilante e la più scrupolosa del mondo. Alli 2 di Maggio dell'anno scorso, nell'atto di assumere il ministero, la guardia civica, pigliandomi bene in parola, volle che io promettessi di governare secondo un programma da me dettato non molto tempo innanzi a nome di un Comitato per le elezioni, e in cui le speranze nostre migliori d'ogni libertà e d'ogni progresso erano assai minutamente registrate e descritte. Ora, chi farà confronto di quel programma colle azioni mie posteriori, troverà ch'elle nol rinnegano in niuna parte e in niuna cosa: il qual fatto non è agli uomini di Stato molto comune. Onesto, adunque, e osservantissimo delle libertà presumo di essere: per ogni altro rispetto io confesserò volentieri la mia insufficienza, grande per sè stessa, e grandissima in comparazione del secolo, il quale domanda ingegni ed animi così vasti e gagliardi, come son vaste, improvvise e terribili le rivoluzioni sue. [355] Oltre di che, ben si può dire, e segnatamente in politica, che nulla ha fatto e nulla ha compiuto colui il quale non si è nè poco nè molto accostato al fine. E il fine, a rispetto di Roma, era concordare la libertà con l'autorità, e il Sacerdozio col Principato; per l'Italia, è l'Indipendenza e l'Unione; per tutto il mondo civile, la riedificazione dei principj e delle credenze. Tutte le imprese che non raggiungono quell'alte mête e neppure le approssimano, forza è giudicare o che mal conoscono quel che fanno, e per la poca utilità loro si confondono con le azioni volgari; o che solo possiedono il pregio incompiuto ed ormai comune di affrettare la distruzione di leggi e istituti già mezzo logori dal tempo e dai nuovi costumi.

Roma, li 15 di gennajo del 1849.

ALLA SANTITÀ DI PIO IX, TERENZIO MAMIANI.

Duolmi, Padre Beatissimo, che la doppia persona la qual sostenete di Principe e di Pontefice non renda possibile di ragionare all'una siccome all'altra. Io m'inchino devotamente al Pontefice, e non ò per la santa persona sua se non parole di encomio, di riverenza e di religione. Al Principe non sento di poter favellare così umilmente; e nelle opere sue non iscorgo sempre la santità, e nei suoi giudizj la sapienza. Però, avendo intenzione con questo foglio d'indirizzarmi al Principe solo, io prego Vostra Beatitudine di non si sdegnare se i miei concetti saranno assai liberi, e le parole, quantunque assegnate e rispettose, non parranno tali abbastanza in comparazione del vostro augusto carattere.

Fu per benefizio di Vostra Beatitudine, che dopo sedici anni d'esilio (gran porzione della vita), io potei rivedere la provincia natale, e i pochi congiunti ed amici stati dal tempo e dalla fortuna serbati a que' tardi e desideratissimi abbracciamenti. Nè un tanto bene mi costò altra cosa se non di [356] promettere alla Santità Vostra quello che gli onesti fanno ordinariamente per proprio istituto, cioè di ubbidire alle leggi correnti e di non perturbare lo Stato; il che importa, con altre parole, di mai non uscire nelle cose politiche dai termini della legalità. Vero è che, a riscontro di tal promessa, io mai non ottenni nè per iscritto nè a voce di vedermi sciolto affatto dal bando, e tornato in ogni diritto di cittadino. Solo mi si concedette di poter visitare i miei, e convivere con esso loro lo spazio di tre mesi. E per fermo, consumati che furono questi ed io tornátomi a Genova, il Console di colà ebbe ordine di non mi concedere da indi innanzi il passo per lo Stato Romano. Più tardi, e per effetto d'un grave infortunio domestico, ebbi licenza (chiesta per me dagli amici) di altri tre mesi; durante i quali avendomi la voce del popolo e la necessità delle cose chiamato al governo, quel resto d'insolito sbandeggiamento andò a forza in dimenticanza, mal potendosi conciliare la condizione di ministro di Stato e quella di esule. Io non erro, dunque, ad affermare che l'obbietto e l'intendimento per cui quella promessa fu pronunziata, rimasersi mezzo non adempiuti. Ma, come ciò sia, la probità naturale m'insegna di dover essere d'ogni promissione stretto e non cavilloso mantenitore. E in più d'un caso, Beatissimo Padre, io l'ò col fatto mostrato. E quel giorno che la Giunta Suprema di Stato, acclamando la Costituente Romana e la universalità de' suffragi, trascendeva i termini dello Statuto, ed anzi abolivalo virtualmente; io con piena spontaneità, e del contrario pregato e sollecitato, rassegnai l'incarico di ministro con atto assoluto ed irrevocabile.

Ma ciò non pertanto, io noto che l'ubbidire alla legge e l'accompagnarsi in qualunque atto con lei, sono un modo di operare il quale ne' governi assoluti à un carattere, ed un altro differentissimo ne' costituzionali. E per fermo, nei primi le scaturigini della legge stanno da ultimo nel volere e nell'arbitrio del Principe: quindi, chi mai non vuole scostarsi da quella, dee sempre alla volontà del Principe sottomettersi. Ma ne' reggimenti costituzionali, interviene tra il popolo e il suo Sovrano un patto sinallagmatico, che ad ogni legalità porge fondamento e principio: ed anzi, ogni legalità [357] è quivi, come a dire, bilaterale, ed obbliga e stringe così il popolo come il Principe. Nè dove questi mancasse al patto e contraffacesse alle leggi, avrebbe diritto nessuno che il popolo dall'altra parte non travalicasse egli pure le convenzioni, nè trasgredisse le leggi che ne derivano.

Ora, appresso di noi lo Statuto fondamentale, quel gran patto di fiducia e d'amore voluto e sancito dalla Santità Vostra, segnava per tutti il cammino certo e drittissimo della legalità. Del qual vero parevano più che gli altri guardiane gelose ed osservatrici esatte le Camere legislative, siccome quelle che riputavano di aver trovato nell'osservanza dello Statuto una salda difesa contro l'enormezze passate, e un adito piano e legittimo ad attuare a grado a grado le speranze dell'avvenire. Perciò, quando lo Statuto fu sì profondamente scrollato dalle violenze del dì 16 di novembre, e di poi dalla infausta ed inopinata partenza della Santità Vostra, i due Consigli deliberanti, misurando l'opera loro da un lato con la necessità, dall'altro con la legge e il diritto, mostrarono di volere salvo a ogni modo il patto fondamentale; ed eziandio nelle novità transitorie che vennero ad introdurvi, imitarono il più strettamente che fu possibile gli esempj e le pratiche d'altri paesi costituzionali. Di presente, la forza del vero mi stringe a dire alla Santità Vostra, che illusi e sventuratissimi furon coloro i quali mossero Voi, e il cuor vostro sì temperato e benigno, a riprovare con parole tanto assolute e sdegnose le savie deliberazioni de' due Consigli, alle quali tutte mi onoro e compiaccio di aver largamente partecipato. E che giudicio recherete, Beatissimo Padre, d'altri men discreti cittadini, e quale fiera appellazione cader lascerete sovr'essi, quando pure le Camere sono accusate di fellonia e di sacrilegio? Sacrileghi, adunque, e felloni que' cospicui prelati e quegli onorandi patrizj che siedevano nell'Alto Consiglio, e alle anzidette deliberazioni non ricusarono il lor suffragio?

Tanto è sembrato all'universale più dura cotale sentenza, quanto tutti ànno visibilmente riconosciuto nelle due Camere uno zelo e una cura diligentissima di non uscire dai termini del patto fondamentale; dove, per lo contrario, nelle [358] tre proteste non brevi della Santità Vostra neppure un cenno s'incontra, e neppure il nome di esso Statuto, e delle pubbliche libertà e guarentigie; le quali il popolo, affatto innocente degli eccessi e ingiurie di pochi, à diritto patente e pienissimo di veder conservate; massime da Colui il qual dee porgere a tutti i Principi chiaro e continuo esempio di lealtà, e di fede gelosa e incontaminata. Laonde, qual maraviglia se in tempi pieni di dubbio e sommamente corrivi, quel silenzio (al certo stranissimo) induce le moltitudini a credere che il vostro ritornare non avverrebbe senza la morte delle libertà, e l'annullazione delle franchigie costituzionali? Di queste tacciono tutti gli scritti che giungono di Gaeta; e, per amaro compenso, dei diritti del principato ragionano magnificamente, e con tali sentenze e con siffatta forma di stile, che sembrano pensati e dettati quando i regni si governavano con l'autorità del giure divino, e qualunque concessione rimanevasi revocabile; atteso che niuna d'esse riconosceva i diritti del cittadino, ma ogni franchigia era privilegio, e ogni privilegio era grazioso largimento dell'assoluto signore.

Nè mosse, del sicuro, da altro spirito quel consiglio pure infelice dato alla Santità Vostra di sopprimere dentro di voi la gentilezza innata dell'animo, la pronta compassione, l'affabilità e modestia che sempre mai vi governano, e di rispingere indietro non ascoltati, non veduti, i messaggi delle due Camere e del Senato Romano. Che se ciò era contrario alla naturale benignità di qualunque Principe, sembrava poi importabile e fuor del diritto movendo da un Principe, come voi siete, Costituzionale. E dove è più la Costituzione, tuttavolta che gli organi diretti e fedeli del popolo, gli autori e conservatori delle leggi, i primi e inviolabili patrocinatori di qualunque cittadino aggravato ed offeso, trovano interdetto l'accesso e chiuse le orecchie del Capo e moderatore dello Stato?

Ei pare (e tutti i buoni se ne rammaricano) che nella corte di Gaeta o non s'intenda o non si curi di intendere la ragione e l'essenza d'un Governo Rappresentativo, la qual consiste principalmente nella mutua limitazione dei poteri e dei diritti, e nell'impero assolutissimo della legge, che obbliga [359] tutti, e non privilegia neppure il Principe. Che se la intendessero e la curassero quella ragione, non farebbero forza alla Santità Vostra per tirarla ad atti illegali, e di diretto contrarj allo spirito dello Statuto. Certo, ai tempi di Niccolò V e di Giulio II, od a quelli più antichi e più tenebrosi di Adriano IV, nei quali il Principe era lo Stato, e ogni mezzo tornavagli lecito per rimenare al giogo i sudditi sollevati, perchè in lui solo credevasi raccolto il giure di tutti; potea non parere indegno e sleale chiamare l'armi forestiere, e col sussidio di quelle ripigliarsi la corona. Ma ne' dì nostri, e nel reggimento Costituzionale, nessun'azione si può commettere maggiormente odiosa e illegale, ed anzi più sovvertitrice dell'ordine e della giustizia. Conciossiachè, quando nel Principe Costituzionale fosse l'arbitrio di chiamare a sussidio proprio, e senza il consentimento spontaneo della nazione, le armi straniere, niuna libertà troverebbe difesa contro alla material forza; le pubbliche guarentigie sparirebbono tutte dinanzi all'ardore e all'impeto soldatesco, e il giudicio della spada risolverebbe le questioni del buon diritto e della ragion civile; senza qui discorrere l'oltraggio che recherebbesi alla dignità della patria, e il mettere a repentaglio estremo la sua indipendenza. Eppure, v'à di molte persone, Beatissimo Padre, in cotesta corte, le quali non contente di avere interrotta fra voi e il popolo vostro ogni corrispondenza, e frustrato ogni tentamento di composizione e d'accordo, studiansi con ostinazione d'indurvi a chiamare le armi straniere, ondunque vengano e quali che sieno. Tolga Iddio che mai questa persuasione possa entrare nell'animo vostro, e sostener vogliate di rivedere Roma ed il Quirinale circondato da bajonette che non sien quelle de' vostri figliuoli. Ma non è poco errore, Padre Santissimo, il lasciare i popoli in dubbio e in trepidazione sopra tal cosa. Imperocchè mi si condoni la soverchia franchezza, a Voi principe legato a un patto Costituzionale correva l'obbligo di dichiarare e di pubblicare, come, per sentimento e dovere di buon italiano e di buon cittadino, l'animo vostro leale abborra dall'intervento armato di qualunque straniero, e però averne sollecitamente ringraziato le corti che il proferivano. Ma in luogo di ciò, spandesi notizia che [360] sono giunte carissime ed accettissime le esibizioni spagnuole, e che ànno mosso a vivo dispetto le offerte di Francia, da prima sì larghe e sì pronte, poi diversamente spiegate e venute a nulla.[35] Perlocchè, io replico, cresce di giorno in giorno l'apprensione e il timore de' popoli; e si giunge persino a credere dalla moltitudine, che la Corte di Gaeta, disperata d'ogni altro soccorso, non ricuserebbe da ultimo quello stesso dell'Austria. Al quale torto giudicio del volgo porge occasione, pur troppo, il vedere accettato e riconosciuto appresso della vostra sacra persona un ministro e rappresentante della odiata Casa d'Ausburgo, come pegno e testimonio della concordia e amicizia che corre fra li due Stati. Fatto, che la più comunale prudenza doveva almeno indugiare ad adempiere, affine di non avversare ed esacerbare in modo così irritativo il sentimento degli Italiani, e quello in ispecie de' Romagnuoli popoli vostri, ed ancora in considerazione della legalità; essendo che i due Consigli deliberanti ànno sempre, ne' lor discorsi e nelle proposte di legge e negli scrutinj, dichiarato in modo aperto e solenne, essere infensi nemici dell'Austria, e consistere il sommo de' lor desiderj nel vederla sconfitta, e gli avanzi dell'esercito suo costretti di rivalicare l'Isonzo ed il Brennero.

D'un altro gran male e d'un'altra offesa profonda alla legge e al diritto comune vorrebbe cotesto aulico comitato tentar di macchiare l'anima vostra, la quale tutti siam certi che fieramente resiste e diniega. E per fermo, ella è impossibile cosa, che Voi, generoso principiatore del risorgimento nostro; Voi, il più mansueto degli uomini e il più benigno e amorevole, tanto che per abborrimento dal sangue e per affezione uguale a tutte le genti cristiane non sosteneste di muover guerra neppure ai nemici eterni del nome italiano; ora siate per consentire, non dico alla guerra civile, ma sì al pericolo di suscitarla. Non permettete, dunque, o Santissimo, che il nome vostro intatto e glorioso si spenda in impresa ed in trama così scellerata, della quale appajono segni e testimonianze ogni giorno, e le cui fila sono distese e introdotte [361] non pur nelle mura di cotesta città, ma nelle stanze dove abitate.(I)

Costoro, del rimanente, pajono sì forte occupati in tali pensieri e disegni, che dimenticano di ajutare Vostra Beatitudine al reggimento dello Stato, e vi fanno sembrar negligente in cosa senza la quale lo Statuto è lettera morta, e del Principe si dee giudicare o ch'egli intende di cedere altrui il governo, o d'operare fuor della legge e contra la legge. Il fatto è questo, che in tempi di continuo minacciosi e scomposti, la Santità Vostra, qual ne sia la cagione, lascia da ormai due mesi lo Stato senza capo e senza governo. E veramente, la Commissione governativa chiamata da Voi col Motu-Proprio delli 27 di Novembre a comandare ed amministrare, nè mai si è adunata, nè à compito alcuno de' vostri comandi e de' suoi ufficii; ond'ella è rimasta, può dirsi, un desiderio ed una proposta; e l'azione sua invisibile ed impalpabile, dove presumesse di reggere i popoli e di venire obbedita, ricorderebbe la favoletta di quell'ostiere che nudrendo altrui dell'odore dei cibi, fu pagato del suono delle monete.

Tuttociò è da' consiglieri vostri ben conosciuto e da lungo tempo, secondo che l'attesta la Nota medesima del Cardinale Segretario di Stato, poco dianzi venuta in luce. Or perchè, dunque, non vi provvedono essi, e invece di leggi e di ordinamenti fanno solo moltiplicar le proteste e scagliare i monitorj? e come sopportano che la Santità Vostra sembri mancare al debito primo e fondamentale del principato? come non s'avvedono che tolto di mezzo l'uno dei tre poteri, lo Statuto conducesi al niente? come fingono a sè medesimi che di tal distruzione non cada sovr'essi e sul lor Signore nessuna colpa? come non sentono che mancandosi al patto dall'uno de' contraenti, l'altra parte, che è il popolo, si stimerà sciolta d'ogni obbigazione e d'ogni obbedienza?

Ma lasciando stare il giudicio poco appensato e mal fermo delle moltitudini, e raccogliendo il discorso intorno di ciò che dee fare l'uomo prudente, e risolutissimo a seguitare la legge e fuggir le violenze; io primamente ricordo alla Santità [362] Vostra, che a quell'uomo non è lecito di riconoscer la legge nel volere del Principe, ma sì nelle prescrizioni Costituzionali, nelle pubbliche guarentigie, e nell'uso debito e conveniente d'ogni libertà e d'ogni diritto. Vero è che a lui non fa caso se alcuna fazione insorga, e tumultuando sforzi le deliberazioni altrui; nè, per lo contrario, se il Principe, o mal consigliato o da profonde preoccupazioni svolto e sedotto, trasvada nelle opere sue e si soprapponga al diritto; imperocchè questo debb'essere propugnato e salvato così contro gli eccessi delle fazioni, come contro gli arbitrj del Principe: ma egli accade, pur nondimeno, che molte volte l'amore e l'osservanza medesima della legalità meni il buon cittadino a dover contraddire al Capo, uscito affatto dal proprio giure. E, per via d'esempio, egli darà di piglio alle armi e combatterà gli stranieri quali che sieno, e posto pure che in mezzo delle loro file veder si facesse, per isventura, il Sovrano.

Nella Costituzione, pel buon cittadino, è la legge e tutta la legge; e s'altri quella manomette, non gli varrà l'esempio e l'eccitamento per fare il simile. Salvochè, se coloro che la Costituzione debbon guardare e custodire con più gelosia, se ne mostrano osservatori freddi e trascuratissimi, e per vie indirette le dànno assalto e le recano offesa; non troverà l'uomo dabbene argomenti persuasivi e forza di autorità e séguito di gran moltitudine, per ischermire e reggere in piedi quel patto comune e solenne contro di cui gl'ingegni avventati dell'una e dell'altra parte congiurano.

Una cosa poi rimane sciolta d'ogni dubbiezza e a tutti manifestissima; e questa è, che dove il Principe non governa, e dove non commette nè ordina che altri in suo nome ed autorità governi e provveda, è obbligo e necessità insieme al buon cittadino di obbedire a coloro i quali, per vie pacifiche e ragionevoli, tutelano a sufficienza le proprietà e le persone, e impediscono al corpo sociale umano di disgregarsi e dissolversi.

Ma consideri la Santità Vostra un po' più dappresso, e con occhi affatto snebbiati, la condizione presente di questo popolo. In esso è mala contentezza dell'oggi, e dubbietà e paura [363] gravissima del domani. Se volge lo sguardo a Voi, nel quale avea l'abito di riposarsi e sperare, non solo ei vi vede lontano e in paese non vostro, e d'accanto a...

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ma d'intorno a voi scorge indizj e segnali di reazione cieca e veemente, e macchinazioni non molto coperte contro la libertà; scorge il mal celato disegno de' cortigiani di risalire a qual sia costo là onde cadevano, e di ripigliarsi il dominio antico, o per effetto dell'universale scombujameuto e delle civili discordie, ovvero per la invasione ingiusta, violenta e soverchiatrice delle truppe straniere. Per le quali tutte cose, ciò che prima le nostre genti con sincerità desideravano, vale a dire il vostro pronto ritorno, la vostra dominazione, il mantenimento dello Statuto e i modi migliori e più quieti di accordo e riconciliazione, al presente è da esse considerato con vario consiglio; e di una porzione di quei desiderj disperano, dell'altra vivono sospettose ed incerte. Per contra, ciò che prima le sgomentava e parea loro eccessivo ed intollerabile, vale a dire la dittatura del Ministero, l'esigenze ognor rinnovate e crescenti de' circoli, l'annullamento dello Statuto, e il porre in balia d'un'assemblea popolana (già prossima a radunarsi) l'esistenza perfino del principato, quest'oggi è accolto con molta minor ripugnanza, e sarà domani accettato come sola tavola nel naufragio: tanta mutazione ànno operato in breve intervallo le esorbitanze di Gaeta! Nè pensate, Padre Santo, che da ciò le ritraggano minimamente i Monitorj già promulgati, o l'aspettazione di un Interdetto. Imperocchè, ne' savj e mezzanamente istruiti non promuovono quelle scritture altro effetto se non di addolorarli e attristarli dentro dell'anima per lo deplorevole abuso degli anatemi e delle pene spirituali, così con ingiustizia applicate ad atti che non le sopportano, come adoperate indebitamente per cagione affatto secolare e mondana. Gl'idioti poi, che sono i più numerosi, seguono, a simiglianza di gregge, l'esempio dato dai caporioni, e irridono per vezzo e per moda quello che non intendono.

Dopo ciò, che pensieri e che portamenti saranno quelli del cittadino leale e dabbene di cui ragiona questa lettera? [364] La legge e il patto in cui s'affidava stanno per essere spiantati e diradicati; nè scorgendo alcuno che sorga a difenderli e propugnarli autorevolmente, come voi solo, Beatissimo Padre, avreste arbitrio e potenza di fare, egli serberà il suo zelo e l'opera sua a mitigare la foga delle passioni non generose, e dai partiti temerarj ed arrischiatissimi, affrettatamente presi per fondare un ordine nuovo politico; egli procaccerà di dedurre (quanto lo può il privato o parlando o scrivendo) tutto quel più acconcio e quel più ragionevole che gli detterà l'esperienza, la probità ed il senno. Perchè, colpa gli sarebbe di rimanersene inoperante laddove si tratta di campare le nostre provincie dal rischio grave dell'anarchia, della guerra civile e della occupazione straniera; i tre disastri maggiori onde può venir percosso uno Stato. Procurerà, poi, sopra ogni cosa l'unione degli Italiani, l'attiva e forte confederazione delle Provincie loro, e il sollecito rinnovamento della guerra del riscatto; siccome colui che serba in cima d'ogni pensiero, d'ogni desiderio, d'ogni sentimento, il proposito santo e incrollabile della Indipendenza nazionale, e antepone mille volte i rischi e i disastri medesimi della guerra ai danni e ai pericoli dell'anarchia e delle zuffe intestine.

Queste dichiarazioni e questi pensieri ò creduto debito di recare sinceramente a notizia della Santità Vostra, perchè io non vi sembri in nulla diverso da me medesimo, nè possa alcuno accusarmi o di sovvertire le leggi o di perturbare lo Stato. Del resto, la necessità sola di porre i fatti in piena e nitida luce, e di condurre la mente a raccòrne la significazione propria ed intrinseca, m'à mosso a parlarvi con libertà ed ischiettezza, inusitate in qualunque corte, inusitatissime nella romana. Ma il vero, ancorchè troppo nudo, mai non à recato pregiudizio e rincrescimento, e mai non à dispiaciuto agli spiriti grandi e magnanimi. Oltrechè, la inviolabilità della vostra sacra persona, e la nobiltà e purezza non alterabile delle vostre intenzioni tanto disgravano Voi d'ogni colpa, quanto l'accrescono ai diplomatici ed ai prelati che vi attorniano e vi consigliano. A me dura, Padre Santo, in cuore una viva speranza di vedervi fra non molti [365] anni con altre voci e con altri nomi glorificato, senza bisogno alcuno di sindacare le opere vostre, e senza timore di trovarle in nulla dispari alla sapienza divina che in Voi riposa, e alla maestà sovrumana che vi circonda. Allora la Chiesa edificata dallo Spirito tornerà tutta allo Spirito; e sdegnerà quei puntelli e quelle difese di materiale potenza di cui non à d'uopo e i quali per molti secoli non conobbe, fiorendo ciò non ostante di maggior santità, legando i cuori delle nazioni più barbare, e splendendo più che dipoi non facesse nei miracoli e nelle dottrine. Allora la religione vivrà sicura e onoranda in seno d'ogni libertà civile e politica; e per converso, le libertà e i diritti de' popoli si nudriranno di religione, che sarà domandata Umana e Civile per eccellenza. E Voi, Padre e Pastore di tutte le genti, svestito allora della grave cappa di piombo che il dispotico principato favvi addossare, tornerete albeggiante del mondissimo cámice e luminoso della stola pontificale; ed or sull'uno or sull'altro dei Sette Colli, quasi su nuovo Taborre, innalzato e trasfigurato, non mirerete altra cosa sotto di voi che turiboli agitati e fumanti, nè saliranno alle vostre orecchie altri suoni se non di parole d'amore e di laudazione. Allora, infine, salito dalle tempeste mondane e politiche alla serena pace dei dogmi, e scorgendo di quivi alto il penoso affaticarsi delle presenti generazioni, più abili assai per distruggere che per fondare, più per ismuover le terre che per seminarle, più per negare che per affermare; Voi porgerete le innocenti vostre mani a quell'opera augusta e finale, senza di cui tutto il travagliare del secolo è vano delirio; dico alla salda riedificazione dei principj e delle credenze.

Roma, alli 30 di gennajo del 1849.

[366]

APPENDICE.

Terenzio Mamiani, chiamato a sedere nell'Assemblea Costituente Romana dagli elettori della provincia di Urbino e Pesaro, accettò l'onorevole ufficio con la speranza di far prevalere nel congresso le opinioni sue intorno alla forma di governo; essendo che moltissimi deputati sembravano partecipare a quelle opinioni, e volerle difendere con la parola e col voto.

Nella terza tornata dell'Assemblea, cioè subito che si potè, giusta gli ordinamenti, far luogo alla discussione, il rappresentante signor Savino Savini salì in tribuna, e propose di dichiarare in quell'ora medesima essere i Papi scaduti per sempre dal dominio temporale. Allora il Mamiani, chiesto di parlare, ribattè la proposta col seguente discorso, già pubblicato nel Monitore Romano.


Signori,

Pronunziare la decadenza dei Papi è dir cosa che racchiude due molto distinte significazioni, le quali fa gran bisogno di ben chiarire e di ben intendere. Dappoichè l'Assemblea Costituente risiede in Roma, e giudica di essere qui mandata dal Popolo tornato in possesso di ogni diritto, i Pontefici non possono più oltre pretendere alcun impero temporale assoluto, nè alcun principio d'autorità il qual sia superiore e nè manco pari a quello che rappresentasi dall'Assemblea. Con tale sentimento, adunque, assumendosi la proposta della decadenza dei Papi, credo che pochi o nessuno dissentirebbe in quest'Adunanza. Ma per ciò che risguarda l'altra significazione, che comunemente s'intende e s'inchiude in quel pronunciato, e ciò è che i Papi non debbano venire mai più investiti, neppure da voi, di autorità principesca; ella è cosa sulla quale desidero di manifestare e di esporre alcuni miei pensamenti. Godo in primo luogo, che la discussione sia subito pervenuta al suo capo essenziale. Alcuni qui sedenti [367] desideravano assai di procrastinare, e che l'Assemblea volesse avanti occuparsi nella legislazione costituitiva del nostro Stato. Ma io godo (ripeto) che il vero quesito, il principalissimo e fondamentale quesito sia subito posto innanzi; per trattare il quale io accettava l'onore ed il carico di rappresentare in questo consesso la Metaurense Provincia. Per tale subbietto gravissimo, e affine di assistere a così grande e solenne dibattimento; benchè io sapessi che il mio nome è caduto e la mia influenza è annullata; benchè sapessi di non poter più fare assegnamento su quella facile udienza, su quel pronto aderire e su quegli applausi frequenti che seguitavano i miei discorsi in altra Assemblea; pure, sciogliendomi da ogni dubbiezza e acchetando nel cuore qualunque trepidazione, sónomi intieramente affidato alla vostra benevolenza e alla vostra giustizia.

Signori, siamo schietti, e fuggiamo le sottigliezze e l'equivocazioni. In Roma, non ci à via nessuna di mezzo; in Roma non posson regnare che i Papi, o Cola di Rienzo. Mostriamoci dunque franchi e sinceri alla prima giunta, e come s'appartiene più specialmente a un'Assemblea popolana e certa dei proprj diritti, quale è questa appunto qui radunata. Dichiarare la decadenza dei Papi in tutte e due le significazioni anzi espresse, vuol dire nè più nè meno che stabilire in Roma il Governo Repubblicano.

Approfittando della benignità singolare, ed anche della ragionevolezza e rettitudine vostra, per cui vi avvisate di lasciarmi libertà piena di opinioni e di parole, proseguirò ad aprire la mia sentenza con ischiettezza e un poco distesamente, come ricerca la materia gelosa e difficile. Innanzi a tutto, io vi annunzio, che qui non intendo discutere minimamente il valor dei principj. In quanto ad essi, io vo persuaso, che poca o niuna differenza interviene fra me e buona parte di questa Assemblea. Io, nel vero, ò sempre opinato che qualora al poter temporale dei Papi non riesca in niuna guisa di conciliarsi e accordarsi con tutte le libertà e coi sentimenti nazionali; e qualora venir non possa delegato in massima parte e rimesso alle Assemblee ed ai Ministeri e conformato via via con la generale opinione, esso continuerebbe oggi ad [368] essere quello che, secondo il giudizio mio, è stato troppo sovente, un flagello per l'Italia, un flagello per la religione. Similmente io vi dico, che la Repubblica, al mio sentire, è la più bella parola che suonar possa sul labbro dell'uomo; e dove la virtù e il senno dei Popoli sia sufficiente all'uopo, la Repubblica è del sicuro quel reggimento il quale si confà meglio colla dignità della nostra natura, e tocca l'ideal forma della perfezione civile. Io non questiono adunque nè di principj, nè di massime universali, nè di diritti; io voglio solo fermare l'attenzione vostra sull'indole di alcuni fatti, e indurvi a considerarne parecchie sequele gravissime; e che ne esaminiate daddovero l'opportunità e la convenienza: soprattutto, io voglio insieme con voi ponderare ciò che possono apportare quei fatti alla comune salute e alle sorti estreme d'Italia, la quale io so bene essere nel petto vostro il primo, il sommo dei sentimenti e degli interessi.

Quando i Francesi deliberarono di spiantare il trono di Luigi decimosesto, tenevano a requisizione loro, ed esecutrici del lor volere, trecento e più mila militi agguerriti e disciplinati. Io mi volgo a guardare intorno di voi, o signori, e non vedo l'esercito ch'eseguir debbe i vostri decreti; perchè non suppongo bastare all'uopo le non molte migliaja di uomini che noi possediamo, poco agguerriti finora e disciplinati. Ma v'à di più: dallato alle trecentomila bajonette francesi cresceva ogni giorno e abbondava un'altra forza ugualmente o più formidabile ancora, l'attiva e fervososa adesione del Popolo. Quelle plebi sollevate davano volenterose l'ultima goccia del proprio sangue per la causa Repubblicana; e voi sapete bene il perchè. Al sentimento Nazionale, radicato ed innaturato nel cuor de' Francesi da secoli, aggiungevasi un'apprensione ed una paura assai generale, che il furioso manifesto del Duca di Brunswick si avverasse; e cioè a dire che il Popolo minuto tornasse sotto il peso e l'ingiuria delle servitù personali, sotto il peso delle parangàrie, sotto le avanie, gli spregi, i soprusi, e tutte mai le usurpazioni e le concussioni delle classi privilegiate. Per questo principalmente la moltitudine levandosi a stormo e facendo massa, correva ad affrontare il nemico e a romper col ferro la congiurazione [369] dei re; per questo principalmente rinnovò la Francia tredici volte l'eroico esercito suo. Ma non iscordiamo, io vi prego, non iscordiamo, o Signori, che ciò che la Rivoluzione Francese à raccolto di veramente fruttifero ed utile alle classi inferiori, è pressochè in intero accettato e praticato oggi dalle Nazioni più colte e con saviezza governate. La libertà civile e la parità perfetta innanzi alla legge, l'estinzione dei privilegi e lo svellimento fin dall'ultime lor radici delle soperchierie feudali, buona pezza è che, mercè di Dio, vennero procurati e compiuti in ogni Provincia Italiana. Laonde, non si volendo aver ricorso ai delirj del Comunismo e alle speranze vuote e fantastiche de' Socialisti, quello che si può promettere oggi da noi alle moltitudini perchè ci seguano coraggiose e infiammate, perchè versino largamente e con letizia il sangue delle lor vene, si è un profitto ed un bene poco visibile e poco palpabile, non molto certo, non vicino, non bastante ad accendere la fantasia e lusingar l'interesse.

Peraltro, io sento i giovani generosi rispondermi, che la parola Repubblica à suono portentoso e immortale. La vista del vessillo repubblicano, dicono essi, esercita nel cuor dei Popoli un'invincibile attraimento, e sveglia dovecchessia uno spirito sempre nuovo di splendide azioni e uno zelo infinito di Propaganda. Noi dunque, concludono, afferreremo con fede la santa bandiera, e traendola trionfalmente per le contrade tutte Italiane, troveremo quell'armi, que' tesori, quel séguito e ardore di genti e di opere, che alla vittoria finale della notra causa bisognano.

A me, in considerazione della salute d'Italia, fa grandemente mestieri di seguire con l'occhio e un po' più d'accosto indagare ed esaminare questa trionfale processione del frigio berretto. E prima, concedo che non sarà molto malagevole fare repubblicana la vicina Etruria; e confesso che, nel trambusto e scombujamento in cui trovasi quello Stato, tanto è facile imporgli qualunque forma di governo, quanto difficile il conservarvela. Contuttociò, nè anche in Toscana mi avviso sarà senza dolore il piantare la vostra bandiera; perchè, se il gran Duca si rifuggisse (poniamo) in Siena, si avrebbe forse un lacrimevole saggio del Medio Evo Italiano; e noi vedremmo [370] ancora il sangue dei Fiorentini e dei Sanesi bagnare le glebe del più fiorito giardino d'Italia. Pure, ripeto, vi si conceda che la Toscana presto diventi Repubblica; ma non molto di forza, non molto di tesoro, non copia grande di gente, non notabile incremento di armi e soldati recherebbe quella conquista alla causa che voi caldeggiate. Egli bisogna procedere più avanti, varcar la Macra e la Sesia, varcar le frontiere del Piemonte ancora armato ed intatto, perchè là è il nerbo, là il braccio e lo scudo d'Italia. Ora, in Piemonte la conversione non può succedere del sicuro con uguale facilità e con uguale prontezza, perchè ciascuno quivi à la mente e l'animo pieno e informato di regie memorie e di regie tradizioni e costumi. Il Popolo Piemontese, partecipando più d'ogni altra stirpe italiana della natura settentrionale, à la fantasia meno mobile, il consiglio più posato, molta gravità e costanza negli usi, negli affetti e in qualunque intimo pensiero e convincimento. E che lo spirito monarcale di quella provincia non sia fugace e non iscemi rapidamente siccome altrove, si dimostra dalle cagioni. La storia intera del Piemonte è da secoli parecchi la storia sola della casa di Savoja. Tutto il bene e tutto il male provenne da lei, e séguita a provenire. Nè possono i Subalpini dimenticare giammai, che mediante la spada, il valore, la sagacità e la industria de' principi loro sieno divenuti una gente che à moltissima dignità, forza, importanza fra moltissime altre, e che è giunta oggi per effetto di regie vittorie e di regie conquiste a tenersi in mano la più gran parte de' destini della Penisola. So che accosto al Piemonte sta Genova, e so che Genova è, per lo contrario, nutrita di tradizioni repubblicane, e tra costumi repubblicani è cresciuta. Ma colui s'ingannerebbe più che mediocremente, il quale reputasse Genova molto disposta ed apparecchiata ad accettare la vostra bandiera. Genovesi e Liguri sono, innanzi ogni cosa, mercatanti e navigatori; e per l'esperienza raccolta in più di trent'anni, non v'à nessun cittadino colà, il quale non siasi avveduto e non confessi candidamente, che alla città di Genova, così a rispetto del suo commercio, come dell'importanza sua politica e della salute comune d'Italia, torna utilissimo essere congiunta al Piemonte, e rimanere provincia del [371] regno Sabaudo. Ora, ecco il mio discorso a che viene. Chiamando i Subalpini sotto il vostro vessillo, voi non perverrete che ad uno di questi due effetti: o si sveglierà e diffonderà pel paese una oppugnazione micidiale e rabbiosa contro le idee repubblicane e contro le libere istituzioni; ovvero il vedrete riempiersi tutto di partiti e di sètte, di sanguinosi tumulti, e di soppiatte congiure e macchinazioni. Nell'uno e nell'altro caso, il Piemonte verrà senza meno scompigliato e disfatto: cosa per la quale l'esercito Subalpino, nel cui cuore e nelle cui braccia sta la vera e la sola forza italiana, non potrà mantenersi ordinato e disciplinato, nè congiunto e stretto da un solo legame di affetti, nè rivolto al proposito solo della guerra santa del riscatto. A me poi non bisognano molte parole a mostrare le conseguenze di tutto ciò.

L'astuto Radetzky ripeterà inverso del Piemonte quel medesimo che operava a rispetto della Lombardia. Chiuso egli e ben trincerato nelle sue vaste fortezze, venne spiando a grand'agio il luogo, il giorno, il momento opportuno per assaltare e sbaragliare i nemici. Ora, pensate, o Colleghi, che una simile cosa va mulinando colui in risguardo del viver politico degl'Italiani; e visto il Piemonte sossopra e l'esercito disunito e scompaginato, gli piomberà addosso un bel giorno, e in due marciate, con poco sangue e contrasto, si accamperà nella nobil Torino.

Una istanza mi si può movere contro, ed è la presente. La Francia non può del sicuro abbandonare questa od altre Repubbliche nuove, nate dell'esempio suo, perchè ucciderebbe insieme il principio che la fa vivere oggi, e il quale di sua natura è geloso, diffusivo e superbo. Che quando anche a quel Governo non paresse necessità di soccorrere una nascente Repubblica, sua compagna e sorella fidissima, il moverebbe un'altra più certa e più sentita necessità; quella di non poter tollerare i Tedeschi accampati al piè delle Alpi, e vicinissimi alle sue sacre e inviolate frontiere.

A me sembra altresì di udire alcuno che aggiunge: — Forse alla impresa nostra avremo compagna eziandio tutta la parte più animosa e civile del genere umano, scossa e maravigliata della portentosa risurrezione di Roma: i voti, le propensioni [372] e gli sforzi di tutti i Popoli, non ancora in compiuto modo emancipati e sicuri, in noi si convergeranno, e starà con noi come vivo e organato lo spirito democratico di tutte le genti; forse dal nostro esempio, il quale dal luogo e dalle memorie prende valore inestimabile, scoppierà nuova scintilla di universale e inestinguibile incendio, e a noi toccherà la gloria, non tocca a veruno, di avere come cagione prossima affrancato davvero e rigenerato per sempre l'Europa intiera. — Vedete che io non mi adopero punto a celare ed attenuare la copia e il vigore delle vostre risposte, nè le speranze, le congetture, i giudicj e gl'indovinamenti che il nobil cuore e l'ardir generoso vi detta e vi persuade.

Signori, il danno d'Italia si è, che spesso ella incomincia e intraprende ciò appunto che altrove è finito, e procaccia di rialzar quelle insegne che altrove sono cadute: ella, per sua sventura, non sa ben cogliere e usare nè il tempo nè l'occasione. Se alquanti mesi addietro aveste ordito i vostri disegni e le vostre speranze in sulla democratica forma che pigliava tutta l'Europa, io ci avrei ravvisato alcun buon fondamento: ma quest'oggi, invece, non può da nessuno ignorarsi che incomincia a prevalere e predominare in Francia, e per ogni dove, uno spirito gagliardo di conservazione e di resistenza; e che, pur troppo, la falange ordinata e strettissima ch'egli conduce, ha guadagnato assai vittorie sui popoli; e torna peggio che inutile il volerlo più oltre occultare e negare a noi stessi. Già la seconda terribile sollevazione di Vienna è caduta e spenta; l'altra di Berlino s'è tutta rivolta in favore del monarcato; e non mai la Casa di Brandeburgo à di maggiore autorità e preponderanza e di maggiore dignità regia goduto ed approfittato. A Francoforte, o Signori, mentre poco fa nessun principio e forma di reggimento democratico pareva assai larga e assai popolare a quell'Assemblea, oggi non più si pensa ad un presidente di condizione privata, e scelto e foggiato all'americana, ma si pensa e guarda ad un re di vecchia progenie e di antica possanza, e il qual sia imperatore di tutta Germania, e non elettivo come in antico, ma nella linea sua rinascente e perpetuo. La Svizzera, finalmente, la Svizzera stessa che pur si regge a Repubblica, e soscriveva testè un [373] patto confederativo, fondato sopra massime le più umane e le più liberali del mondo; quest'oggi, voi lo sapete, cerca e studia di stringer legami di salda amicizia coi principi che la circondano; e piuttosto si mostra parziale e tenera dei loro interessi, che degli interessi e bisogni estremi e angosciosi dei miseri rifuggiti Italiani.

Queste sono verità, miei Colleghi, positive e di fatto, e però evidenti (almeno agli occhi miei) ed irrepugnabili; e se evidenti non sono, se dubbie, se mescolate di falsità, bisogna ciò provare con allegazione di altri fatti più veri e più certi, e non altramente.

Dopo ciò, voi replicherete ancora, il mondo, l'Europa rimanere con noi; e se non il mondo, la Francia? Signori, a rispetto di quella potente nostra vicina, io mi rimetto assai volentieri alle parole medesime del Lamartine, alle parole solenni del Cavaignac. Io non discopro in esse, e niuno può discoprirvi, se non che espressioni dubbie ed ambigue, frasi artatamente mozze ed involte, dichiarazioni a doppio aspetto, generalità con iscarso o nullo significato; poca volontà al certo di mettere il proprio sangue e i proprj tesori in difesa e in redenzione di alcuna parte d'Europa; e molta volontà invece di serbare le cose quiete, munire le Alpi e assicurar le frontiere con accordi tra Governi e intervenimenti comuni. E se ciò si udiva dalla bocca del Lamartine e del Cavaignac, qual giudicio dee formarsi quest'oggi, che la Repubblica in Francia è stenuata ed agonizzante, e che ognuno aspetta in più o meno lunghezza di tempo un secondo Impero Napoleonico?

Ma tutto questo considerato, e concludendosi a forza che la Repubblica è di presente impossibile, e all'Italia troppo funesta, qual consiglio rimane da seguitare, e che ricisi partiti da vincere? Riappiccheremo noi quelle pratiche che niuno spera di veder pervenire ad alcun durevole risultamento? rinnoveremo e ritenteremo accordi e conciliazioni fatte vane oggimai e impossibili? chiederemo forse perdono di colpe che non si commisero? o rinuncieremo ai santi diritti che la medesima natura à scolpito nel cuore di tutti gli uomini, siccome titoli e note della grandezza dell'esser nostro?

[374]

Anzi ogni cosa, o Rappresentanti, abbiatevi questo per giudicato, che la gran questione che oggi qui ci raduna non si risolve per intero col nostro arbitrio e talento, e pigliasi errore non lieve, a pensarlo.

Per fermo, Voi siete padroni e arbitri della legislazione novella di questa contrada; e in voi sta il potere legittimo, ed anzi lo stretto debito di provvedere con ogni ampiezza alla sua vita civile e politica, ma non più là di quella parte e di quell'ufficio che poco o nulla s'attiene alla sostanziale ed universale salute d'Italia. Certo, a voi non è lecito di far cosa la quale rompa la simiglianza, l'accordo e l'armonia necessaria fra le istituzioni de' nostri popoli; e non dovete imprendere mutazione che metta in compromesso estremo la quiete, l'ordine, e il prossimo e ben augurato avvenire di tutte le Provincie Italiane. Io affermo e sostengo pertanto, che questa gran parte dell'arduo problema non è in vostra facoltà, e non pende dalla vostra sentenza; ma voi dovete riporla nelle fraterne mani della Costituente Italiana: ed aggiungo, che tanto a voi disdirebbe e nuocerebbe di più, miei Colleghi, il sembrare poco guardinghi d'invadere e sopraffare i diritti della Costituente Italiana, in quanto vi avete raccolto il pregio e la lode d'iniziarla e di decretarla; e ciò fareste, o patrioti, quando, in che giorno, in qual congiuntura, in qual luogo? in mezzo di Roma, al cospetto de' vostri fratelli, con atto precipitoso e dispotico, nella vigilia stessa (può dirsi) del dì fortunato che Ella, la grande Assemblea, verrà a sedere sulle cime del Campidoglio.

Questo punto, adunque, del mio discorso rimanga ben chiaro, rimanga ben fermo; che, cioè, pronunziare la decadenza del Papa, nella prenotata ed ovvia significazione di quella voce, non è riposto onninamente nel vostro arbitrio, nè pende dai vostri decreti, ma sì dalla Costituente Italiana. E qualora vi martellasse lo scrupolo o la diffidenza o l'orgoglio di non cedere nemmanco in ciò ogni giudicio a quel tanto Consesso, degnatevi almeno di consultarne il parere, e non isfuggite in sì procelloso e dubbio negozio di avere da lui norma, consiglio, indirizzo ed approvazione; fate al mondo conoscere che siete veri e leali Italiani non men nelle [375] azioni che ne' pensamenti; e nessuna gran cosa voler definire, nessuna deliberare, senza il beneplacito della Nazione, in concordia con tutti i suoi popoli, in conformità con tutti i suoi interessi. L'Italia aspetta da voi o l'ultimo esempio della municipale superbia, o il primo della nazionale unione e docilità.

Prima che io scenda da questa ringhiera, dove troppo lungo tempo mi accorgo d'esser rimasto, ma dove peraltro ò raccolto graziose testimonianze della vostra gran cortesia, favorendomi tutti di una così attenta e vivissima ascoltazione; io voglio solo mettere innanzi alla mente vostra certo concetto che non mi sembra da trasandare nella quistione.

Se lo straniero, o Colleghi, non istesse contro di noi accampato in Lombardia, e cento mila bajonette non convergessero di continuo le punte loro contro le nostre persone, io sosterrei volentieri che voi compiste la troppo arrischiata prova, alla quale volete a forza avventurarvi. Io so bene, e tutte le storie me lo insegnano, ed anche la mia privata esperienza me lo conferma, che il risorgimento dei popoli mai non procede per una via dritta e ben rispianata: ma, invece, può il suo cammino venir figurato assai propriamente da una gran curva, in cima alla quale concorrono e tumultuano le passioni più focose e infrenabili, i tentamenti ed i conati più temerarj, le speranze fallaci e la presunzione infinite volte delusa di attingere immediatamente e di praticare l'idea suprema d'ogni politica perfezione; poi quella curva gradatamente declina e discende, finchè la nazione che la trascorse viensi a trovare in quell'assetto sociale e politico che si conforma coll'indole sua verace e perpetua, si conforma coi suoi costumi, coi suoi bisogni, co' suoi sentimenti; e allora, in fine, nasce e si assoda la pace insieme col diritto, la dignità con l'ordine, la libertà con la sicurezza, e a splender comincia una perdurabile gloria e possanza di leggi, di scienza e di civiltà.

Ripeto che gli eccessi medesimi, qualora eccessi ed enormità sanguinose avessero luogo, non mi sgomenterebbero più che molto; e forse è vero così dei popoli come de' singoli uomini, che niuna esperienza giova loro insegnata o [376] dalle storie o dai savi, ma quella soltanto che fanno eglino penosamente di sè medesimi. Ma quando la guerra è imminente, e i segni e i forieri ne moltiplicano d'ora in ora; quando i Croati ripigliano stanza e dominio in Milano, e Radetzky preme col piede intriso di sangue il petto lacerato e pressochè inanimato della Lombardia; possiamo noi abbandonarci, senza gran colpa, a lunghe, a travagliose, a incertissime prove e saggi di forme di governo? Possiamo noi rischiare di crescere ancor di vantaggio le perturbazioni e le divisioni della patria nostra infelice? Ricordatevi, o Signori, che se aveste oggi pupille così penetranti da speculare i campi Lombardi, voi scorgereste colà i feroci Croati sforzare a torme gli asili innocenti dei più pacifici e più ragguardevoli cittadini; scorgereste quei barbari saccheggiare con egual furia i palazzi dei patrizj e le modeste case dei popolani; e predando ogni cosa e guastando sotto nome e titolo di balzelli e di taglie, vedreste per opera loro le città manomesse, devastate le campagne, le donne contaminate, oppressa la più minuta e misera plebe sotto continue spogliazioni, battiture ed ingiurie. E similmente, o Signori, se fosse per poco tempo fornita agli orecchi nostri una virtù tale da vincer lo spazio che si frappone fra noi e le valli del Po, forse in questo momento medesimo che io vi parlo, udiremmo lo scoppio orribile dei moschetti che mieton le vite dei nostri fratelli, le vite care e generose che non sapemmo difendere, e tanto tardiamo di vendicare.


A tale discorso risposero molti e molti, e due soli rappresentanti favorirono e difesero la sua sentenza.

Volea l'oratore la sera di quel dì stesso provare il suo tèma con argomenti d'altra natura, e con quelli in ispecie che guardano le relazioni di Roma col Mondo Cattolico; ma disperò di venire la seconda volta ascoltato con pazienza e benignità.

Acclamato che fu il Governo Repubblicano in seno dell'Assemblea e fuori, Terenzio Mamiani addirizzò al Presidente di quella la lettera qui infrascritta.

[377]


Signor Presidente.

Fu mia intenzione principalissima, accettando l'insigne onore di sedere in cotesta Assemblea, di combattervi con ogni forza alcune proposte ch'io giudicava perniciose alla santa Causa dell'Indipendenza d'Italia. Ora, essendo chiusi per quelle i dibattimenti; e ad ogni buon cittadino correndo l'obbligo di rispettare le prese deliberazioni; a me rimane di pregare i degnissimi Signori Rappresentanti a voler gradire la mia rinunzia.

Il qual favore io chiedo con tanto più di ragione, quanto la mia salute declinata e mal ferma ricerca la quiete e il riposo di qualche mese. Io spero, Signor Presidente, che alla bontà e cortesia vostra piacerà di ajutare coi proprj offici la mia giusta domanda.

[378]

NOTE E DOCUMENTI.

Nota A, pag. 339.

Il discorso pronunziato fu il seguente:

«Signori,

»Egli è bello e doveroso che le prime voci che s'odano risonare in questo recinto, sieno parole d'ossequio e di gratitudine all'immortale Principe datore dello Statuto. Pio IX nel cuor suo generoso à sentito che la cristiana carità dee potere scegliere il bene migliore e spontaneamente moltiplicarlo, e che la spontanea scelta del bene non è possibile dove è sbandita la libertà. Però in questa nobilissima parte d'Italia, e dopo tanto corso di secoli, il Principe nostro inaugura alla perfine quest'oggi il regno della libertà vera e legale. Le pubbliche guarentigie largite da lui, vengono in atto quest'oggi; e all'arbitrio, ai privilegi, alla tutela strettissima e non sindacabile, succede l'imperio delle leggi e del comune consiglio.

»Non sempre la grandezza de' popoli è da misurare dall'ampiezza del territorio e dalla potenza delle armi. Imperocchè ogni vera e salda grandezza scaturisce dall'intelletto e dall'animo. E però in questa nè molto ampia nè formidabile provincia italiana, noi tuttavolta siamo chiamati a grandissime cose; e noi dobbiamo con coraggio non presuntuoso e con magnanimo sforzo tentare di non troppo riuscire inferiori alle memorie di Roma, e all'altezza augusta del Pontificato.

»Un'opera vasta e feconda s'è qui incominciata, il cui finale risultamento riuscirà come un suggello non cancellabile della civiltà dei moderni.

»Il Principe nostro, come Padre di tutti i fedeli, dimora nell'alta sfera della celeste autorità sua, vive nella serena pace dei dogmi, dispensa al mondo la parola di Dio, prega, benedice e perdona.

»Come Sovrano e reggitore Costituzionale di questi popoli, lascia alla vostra saggezza il provvedere alla più parte delle faccende temporali. Lo Statuto, aggiungendo la sanzione sua propria e politica alla sanzione Cattolica, dichiara che gli atti del Principe sono santi e non imputabili, e ch'Egli è autore soltanto del bene, e al male non può in niuna guisa partecipare. Certo, guardando la cosa da questo lato, se il Governo rappresentativo non esistesse in niun luogo, inventar dovrebbesi per queste Romane Provincie.

»Voi dunque siete chiamati, o Signori, a consumare un gran fatto e profittevole a tutti i popoli, ajutando il Sovrano ad elevare infino al fastigio il nuovo edificio costituzionale; e, oltre ciò, altri due beni notabilissimi arrecherete all'intero mondo civile. Il primo consiste a dare alle libertà e guarentigie della vita sociale e politica quella saggezza e moralità, quell'elevatezza, purità e perduranza, che la Religione sola imprime alle cose umane, e di cui le virtù e [379] l'animo del Pontefice sono vivo specchio e modello. Il secondo bene sarà pur questo, ch'essa medesima la Religione fiorisca oggimai e grandeggi in mezzo della libertà vera e ordinata, ed a sè attragga gli uomini molto più efficacemente con la soave forza della persuasione e della spontaneità, che non coi mezzi del poter materiale.

»A noi impertanto, o Signori, non toccherà solo di abbattere gli ultimi avanzi del medio evo, e gli abusi che necessariamente aduna ed accumula il tempo; ma ci è impartito un largo e nobile ufficio nel trovare e perfezionare, insieme con le più culte nazioni, le forme nuove della vita pubblica odierna.

»Il Ministero che qui vedete presente, o Signori, non è di tanta opera se non una parte minimissima e transitoria. Ciò nondimanco, egli sente l'immenso ed arduo proposito a cui debbe intendere: a lui tardava assaissimo che voi veniste a indicargli le prime mête, e a incoraggiarlo del vostro suffragio, a spianargli col vostro senno le vie scabrosissime che dee calcare. Quando il Principe augusto lo chiamò a reggere la cosa pubblica, la quiete e l'ordine interno parevano assai vacillanti, e in alcuna porzione già manomessi: quindi la libertà stessa nascente, posta a gran repentaglio; quindi la Causa Italiana per indiretto modo offesa e messa in qualche pericolo. Impertanto, il debito proprio e l'ufficio speciale del Ministero, massime nella quasi imminenza dell'apertura de' due Consigli, fu quello di ristaurare l'ordine, ricondurre da per tutto la quiete; e, ricomponendo le menti e gli animi forte commossi, disporli a quella pacatezza ed equanimità, ch'è oltremodo necessaria a fornire la patria di buone leggi e di sapienti istituti. Dio à favorito l'opera nostra; e questo popolo generoso, ancor ricordevole della gravità e moderanza de' suoi antichi, è tornato in sì piena tranquillità e posatezza di spirito, che forse la maggiore non s'è veduta da poi che la voce soave di Pio IX chiamò Roma e l'Italia a nuovi e maravigliosi destini.

»L'altra opera principale a cui c'invitava, e che anzi imperiosamente ci commetteva l'universale opinione, si fu di ajutare per ogni guisa, con ogni sorta di mezzi, con qualunque sforzo e fatica possibile, la Causa Nazionale Italiana. E in ciò non era facile a noi l'adoperarci meglio e più attivamente de' nostri predecessori. Procedendo pertanto assai risolutamente sulle orme di già segnate, io non istimo che ne' pochi giorni del nostro governo noi non abbiamo mostrato, con la prova patente del fatto, le nostre chiare intenzioni, e che lo scopo non sia stato raggiunto, quanto pur si poteva in questa nostra provincia, e coi mezzi certo non abbondanti di cui potevamo far uso.

»Non vi è poi nascosto come, obbedendo più specialmente alla paterna sollecitudine di Sua Santità, noi ponemmo le truppe nostre ed i Volontarj sotto la provvida tutela e il comando immediato di Carlo Alberto; serbando, peraltro, al Pontefice e al suo Governo tutte quelle prerogative e diritti che la sicurezza e la dignità di Lui e nostra chiedevano, come agevolmente voi dedurrete dai termini della convenzione tostochè ne piglierete notizia.

»Del rimanente, appena noi possiamo dire di avere seguito d'accosto l'ardore impaziente delle nostre città. V'à nella storia de' popoli alcuni momenti supremi, in cui lo spirito di nazione così profondamente gl'investe e commove, che ogni forza resistente ed avversa non pure diviene fragile, ma sembra convertirsi in eccitazione e fomento dell'opposta azione. In quel tempo solenne scalda [380] ed invade tutti i cuori un solo pensiero, un sol sentimento, una sola incrollabile deliberazione; e tal subita e gagliarda unanimità, feconda di mille prodigj, parendo maravigliosa a quelli medesimi che ne partecipano, fa loro esclamare con sacro entusiasmo quel motto pieno di tanta efficacia e significazione: Dio lo vuole.

»Testimonio essendo il Pontefice d'un sì gran caso, e d'altra parte abborrendo egli, pel suo Ministero santissimo, dalle guerre e dal sangue, à pensato con un affetto apostolico insieme e italiano, d'interporsi fra i combattenti, e di fare intendere ai nemici della nostra comune patria quanto crudele e inutile impresa riesca ormai quella di contendere agl'Italiani le naturali loro frontiere, e il potersi alla perfine comporre in una sola e concorde famiglia.

»Il Ministero di Sua Santità, appena fu consapevole di cotale atto memorando di autorità Pontificia, sentì il debito pieno di ringraziarnela con effusione sincera di cuore; e segnatamente, per avere Ella statuito, a condizione prima e fondamentale di concordia e di pace fra i contendenti, che fossero alla nazione italiana restituiti per sempre i suoi naturali confini: e oltre ciò, perchè sperava il Ministero che quella implicita dichiarazione della giustizia della Causa Italiana spandesse novelle benedizioni sulle armi generose che i popoli nostri impugnarono, e al re Carlo Alberto crescesse animo di proseguire senza tregua nessuna la sua vittoria.

»Nelle relazioni politiche con le altre Provincie Italiane, noi, compresi sempre dal debito massimo di secondare e caldeggiare al possibile la Causa nazionale, abbiamo súbito manifestato un gran desiderio di entrare con esse tutte in istretta e leale amicizia, rimossa ogni gelosia funesta ed ignobile dell'altrui ingrandimento, e pensando sempre ed in ogni cosa a ciò solo, che l'Indipendenza sia conquistata, e la concordia interiore sia mantenuta. E intorno a questa ultima, noi vi dichiariamo, o Signori, che appena prese le redini dello Stato, súbito abbiamo procacciato di rannodare le pratiche più volte interrotte circa una Lega politica tra i varj Stati italiani; ed altresì possiamo annunziarvi, che in noi è molta e ben fondata speranza di cogliere presto il frutto delle nostre istanze e premure, dalle quali vi promettiamo di non desistere insino all'adempimento del bello ed alto proposito.

»Quanto a ciò che risguarda le relazioni coi popoli oltramontani, esse, come nelle mani del Sommo Gerarca sono di necessità estesissime, abbracciando tutti i negozj dell'Orbe Cattolico, nelle nostre mani invece essendo quelle cominciate soltanto da pochi giorni, non possono non riuscire scarse e ristrette. Dalla qual cosa noi ricaviamo per al presente piuttosto consolazione che altro: conciossiachè quello di cui insieme con tutti i buoni italiani nutriamo maggior desiderio, si è di essere lasciati stare, e che noi possiamo da noi medesimi provvedere alle nostre sorti. La massima forse delle sventure che cader potesse a questi giorni sulla nostra Nazione, saria la troppo fervorosa ed attiva amicizia di alcun gran Potentato.

»In risguardo poi dell'Austria e della Nazione Germanica, noi ripetiamo assai volentieri in vostra presenza quello che altrove affermammo; cioè a dire, che da noi non si porta odio, ed anzi si porta stima ed amore alla virtuosa e dottissima Nazione Alemanna; e che agli Austriaci stessi siamo pronti ed apparecchiati a profferire la nostra amicizia in quel giorno e in quell'ora che l'ultimo suo soldato [381] avrà di sè sgombro l'ultimo palmo della terra italiana. E come l'Italia è lontanissima da ogni ambizione di conquiste, e da qualunque disegno di valicare i certi confini suoi, perciò ella desidera sinceramente di stringere molti legami di buona vicinanza e amicizia coi finitimi popoli. Noi, di ciò persuasi, abbiamo sollecitato e pregato principalmente il Governo Sardo a spedire abili Commissarj con queste intenzioni medesime appresso la valorosa Nazione Ungherese; e noi giunge notizia certissima, che il Ministro delle relazioni esteriori del Regno Sardo ha tanto più volentieri accettata e assentita la nostra proposta, in quanto egli aveva (secondo che scrive) rivolto di già il pensiero a quel subbietto medesimo.

»Ripiegando al presente il discorso sui nostri interni negozj e sulle politiche condizioni di queste Provincie, varia, abbondante e faticosissima è l'opera che da far ne rimane. Imperocchè non è parte del pubblico reggimento, la qual non domandi larghe riforme ed utili innovazioni; e se l'opera in ciascun suo particolare è laboriosa e difficile, essa è tale infinite volte di più nel suo tutto insieme, volendolo bene ed intrinsecamente coordinare ed unificare; la qual cosa ricerca un vasto sistema preconcepito di civile e politico perfezionamento: e a tale sistema intenderà il Ministero con tutte le forze sue.

»Ciascuno di noi vi esporrà tra breve, o Signori, lo stato del suo special Dicastero, e le mutazioni necessaire e profonde che fa pensiero d'introdurvi. Il Ministro delle Finanze segnatamente v'intratterrà delle condizioni attuali del pubblico erario, e vi proporrà quei partiti che, dopo maturo esame e finissima diligenza, egli reputa esser migliori per ristorare così il Tesoro come il credito pubblico, e affine che ciò si adempia col minore aggravio possibile delle popolazioni.

»Ai Ministri sta pure a cuore di presto sottoporre al giudizio e deliberazione vostra quelle proposte di legge che lo Statuto promette, e sono organi principali alla vita nuova costituzionale in cui, la Dio mercè, siamo entrati. Principalissime fra gl'istituti e le leggi nuove e fondamentali a cui dovrete por mano, saranno la costituzione dei Municipj, e la risponsalità effettiva e non illusoria dei Ministri e dei pubblici funzionarj. Lo istruirvi e ragguagliarvi quest'oggi sopra i particolari moltissimi di tali proposte e di somiglianti, non credo che riuscirebbe opportuno. Presto l'esigenze del nostro ufficio condurrànnoci a farlo con quella chiarezza e puntualità che domanda ciascuna materia.

»Signori! i tempi corrono più che mai procellosi. Nei popoli è una soverchia impazienza di tramutare gli ordini, e perfino i principj e le fondamenta della cosa pubblica. Tutto ciò che i secoli effettuarono e stabilirono con fatica e lentezza, vien minacciato di súbita distruzione. Ma dopo aver atterrato, conviene rifabbricare con gran saldezza e con felice magistero; e da questa opera sola potrà giudicarsi il valore della moderna sapienza civile. Il Ministero à piena fiducia che voi radunati nella Città eterna, daccanto all'immobile seggio del Cristianesimo, varrete a compiere l'impresa difficilissima del riedificare e ricostruire; e che voi in queste arti di pace e di civiltà saprete pareggiare la gloria de' nostri armati fratelli, che là sulle rive del Mincio e dell'Adige rispondono con eroica bravura allo straniere insolente, che lanciava sul nostro capo inerme e infelice l'accusa bugiarda di slealtà, d'ignavia e di codardia.»

[382]

Parrà molto strano al lettore oculato e imparziale, che questo discorso moderatissimo e tutto conciliativo, nè d'altro acceso che di vero spirito religioso e civile, abbia soggiaciuto ad amare censure, e provocato da ultimo una riprovazione più che solenne. Certo, accaddegli in sulle prime il contrario, e infinite lodi raccolse dall'ordine prelatizio; ed è notissimo in Roma, che fu letto e consentito dal Principe, il quale si degnò farvi di proprio pugno alcune ammende e postille. Ma la setta farisaica ed aggiratrice che mai non si scosta da lui, ed à i liberali tutti per reprobi, e ogni sentenza loro per abbominosa ed eretica, persuase a poco a poco al Pontefice, che in quel discorso si nascondeva molto veleno, e le intenzioni n'erano maligne, disleali e sovvertitrici; onde alla fine egli dubitò, se proseguiva a tacersi, di gravare la propria coscienza; e però, nell'Allocuzione sua del 20 aprile del presente anno,[36] dopo alquante parole fatte sul ministro Mamiani, aggiungeva queste altre, visibilmente relative al prefato discorso: — Atque idem ipse (minister) haud multo post ea de nobis palam asserere non dubitavit, quibus Summum Pontificem ab humani generis consortio ejiceret quodammodo et dissociaret. — Ai, lettore, da un lato il discorso, dall'altra la interpretazione romana; sei pregato di giudicare.

Le altre accuse contro il Mamiani sono così nell'Allocuzione significate: — Memineritis, Venerabiles Fratres.........., quomodo civile ministerium nobis fuerit impositum, Nostris quidem consiliis ac principiis et Apostolicæ sedis juribus summopere adversum...... Unus ex illis Ministris asserere non dubitabat, bellum idem, Nobis licet invitis ac reluctantibus, et absque Pontificia benedictione, esse duraturum. Qui quidem Minister gravissimam Apostolicæ Sedi inferens injuriam, haud extimuit proponere, Civilem romani Pontificis Principatum a Spirituali ejusdem Potestate omnino esse separandum. —

Può darsi che il Ministero del 2 di maggio venisse dagli abitatori del Quirinale accettato come una dura e molto increscevole necessità. Ma certo di essa non fu nè autore nè strumento il Mamiani; il quale avendo prima usato quanta efficacia possedeva di parole e preghiere per sedare i tumulti, e ricondurre ogni cosa per entro i confini della legalità e dell'ordine, chiamato poi a consulta dal Principe, non propose nulla che non rimanesse nei più stretti termini della Costituzione; e mai, nè dallo spirito nè dalla lettera di quella si dipartì. Vero è che dopo non molto tempo, nacque, per isventura, dissentimento tra il Principe e i suoi nuovi Ministri; ma, giusta le massime costituzionali, eglino subitamente pregarono Sua Santità di accettare la lor rinunzia, alla quale non facendosi luogo, fu appresso alquanti giorni ripetuto quell'atto con instanze più vive, e similmente senza frutto; insino a che trascorse le cose agli estremi, le rinunzie furono date in modo assoluto ed irrevocabile, e senza aspettare accettazione. In tal guisa quei Ministri permasero (come dicesi oggi) dimissionarj la più parte del tempo che tennero in mano il governo, e non ebber licenza nè di lasciarlo nè di condurlo a lor modo, e a modo pure dei Consigli deliberanti, in ciascuno de' quali il maggior numero de' suffragi fu sempre e abbondevolmente con quelli. Come ciò rassembri a sopraffacimento e a violenza, e quanto sia ingiurioso ai principj e ai diritti della Sede Apostolica, aspettiamo di sapere dall'opinione dei savj.

[383]

Circa alle altre frasi testè trascritte dell'Allocuzione, è primamente da confessare, che il Mamiani à in fatto desiderato assai di separare quanto più fosse possibile e conveniente la potestà principesca dalla pontificale; ma però sempre con l'azione dello Statuto e nei termini da esso prescritti; e se quelle parole omnino esse separandum niente più di ciò non vogliono intendere, il Mamiani non se ne tiene punto aggravato, anzi se ne loda e compiace. In fine, rispetto al proposito rimproveratogli di aver voluto proseguire la guerra dell'Indipendenza Italiana in sino a che rimaneva alle armi nostre speranza d'onore e di buon successo, ciò è tanto vero e manifesto, quanto non è che dalla tribuna o nelle sue circolari o in qualunque altro atto ufficiale e pubblico del suo ministero abbia egli significato quella deliberazione nel modo e nei termini che l'Allocuzione riferisce. Poco fedeli rapportatori, pertanto, sono stati coloro ch'ebbero cura ed ufficio di ragguagliare di tali cose il Pontefice; la colpa e l'eccesso de' quali è da misurare dall'importanza e solennità che soglion ricevere i fatti rammemorati, e ciascuna sentenza e ciascun giudicio espresso nelle allocuzioni pontificali, dette in presenza del consesso Cardinalizio, use a trattare i maggiori negozj della cristianità, e a censurare le sole opinioni eterodosse, e quegli uomini di perduta fede che sono scandalo e pregiudicio a tutto il mondo cattolico. Dal che si vede ch'era riposto nella mente di que' pessimi referendarj di assaltar la fama del Mamiani con parole autorevolissime, e così straziarla a loro agio ed ucciderla: perchè contro esse parole, per ordinario, o manca l'ardire della difesa o il mondo non l'accetta; e però possono venire applicate come aguzzi coltelli addosso a persona sprovveduta ed imbavagliata. Ma non pensavano i referendarj, che v'à richiamo quest'oggi da ogni qualunque sentenza la più assoluta e imperiosa; ed anzi, la parità del diritto al gran tribunale dell'opinione è tanta e così perfetta, che concedesi a tutti di giustamente recriminare e dar libello di falsità e di calunnia.

Qui poi si tace il racconto (strano e curioso sopra ogni credere) che far potremmo delle vicende di quel discorso ministeriale poc'anzi riferito; e il quale, in considerazione appunto della guerra che gli fu mossa e delle menzogne che se ne spacciarono, abbiamo voluto riscrivere a lettera, e con tutte le mende e le negligenze di stile con cui fu dettato allora, sì per la fretta e sì per l'animo inquieto, e d'altro preoccupato che di grammatica. Ciò non pertanto, porzione di quella storia aneddota può leggersi nel Libro secondo sullo Stato Romano di L. C. Farini, dov'è inserita eziandio la bozza d'un'Allocuzione che il Mamiani scriveva a nome e d'ordine di Pio IX.

Nota B, pag. 340.

Ristampiamo volentieri quella Proposta di legge, non meno per la novità e utilità del concetto suo, come per meglio chiarire la falsità delle accuse scagliatele contro. Del resto, sfortunata e soppressa negli Stati Romani, trovò approvazione in Toscana, dove al Ministero dell'istruzione pubblica fu aggiunto l'officio di tutelare e dirigere la pubblica beneficenza. Nella infrascritta Proposta noi preghiamo altresì il lettore a voler notare un tentamento non ispregevole dell'arte difficilissima ed utilissima di dare all'opera del Governo quell'ampiezza e quell'efficacia, che accordasi compiutamente con qualchessia libertà di privati, e con ogni trasformazione e progresso nello spirito [384] di socialità e di consorteria. Sopracchè riman di vedere quello che l'autore ne discorse di poi nell'Accademia di Filosofia Italica.[37]


PROPOSTA DI LEGGE PER LA ISTITUZIONE DI UN MINISTERO SPECIALE DI PUBBLICA BENEFICENZA.

Ragione ed economia generale della Legge.

Sorgente prima ed inconsumabile di beneficenza è la carità, cioè quella dilezione attiva ed eroica in verso del prossimo, che ci vien persuasa e insegnata principalmente dalla religione.

Ma la carità operar deve bene ordinata,[38] e torna impossibile oggi il credere di avere ogni cosa fatto e ogni cosa provveduto a sollievo dei poveri, quando siensi, non che largite, ma eziandio profuse le proprie sostanze in profitto di quelli. E similmente, non è ragionevole il reputare che agl'istituti di beneficenza fondati da' padri nostri non bisognino molte e sostanziali riforme, e non rimanga oltre ciò da promuovere e da creare gran numero d'altri istituti o poco o nulla noti agli antichi: in fine, vietano i nostri tempi di giudicare che la carità bene ordinata possa procedere al vero vantaggio e conforto de' miseri senza attingere mille variate cognizioni ed applicazioni alla Economia pubblica, alla Statistica, all'Igiene, all'Industria, all'Agricoltura, alla Tecnologia.

Ora, tale funzione della carità illuminata e bene ordinata appartiene così al Governo come a qualunque uomo particolare.

Il mondo civile, siccome il fisico, è composto di antagonie. Quindi, nessuna risoluzione dei problemi civili è buona se volge le cose a un solo dei due estremi. V'à chi vuole lasciar imprendere e provvedere il tutto ai Governi; chi invece toglie loro pressochè ogni incumbenza, e si commette per intero e in ogni negozio all'opera de' privati e de' municipj. Ma come la natura, ogni volta che nelle sue creazioni vuol porgere lo splendente modello di alcuna perfezione, ci mostra sempre un temperamento mirabile dell'uno nel vario, e della vita vigorosissima delle membra congiunta e organata con la vita interiore e suprema del lor composto; così nel corpo sociale umano erra chi vuole, opprimendo l'agire spontaneo dei singoli cittadini e la libertà dei municipj, costituire una violenta unità e uno smoderato concentramento ministrativo. Ed erra del pari chi stima che il bene massimo della repubblica sia per uscire unicamente dall'azione disparata e sconnessa degl'individui e dei comuni, e senza bisogno di procurare e attuare al possibile la collegazione e l'unità dei principj, delle intenzioni e dei fini, e certo moto iniziale e universalmente direttivo.

Con queste considerazioni è meditata la proposta di legge che a Voi rechiamo, o Signori, intorno al nuovo Ministero di pubblica beneficenza.

In tale proposta vedrete, le opere del Governo e il suo legittimo ingerimento non ledere e non turbare per nulla le libertà del municipio e i diritti del privato; conciossiachè il modo d'azione sarà pur sempre o di mera tutela o completivo od esemplare; cioè a dire che il Governo o difende e protegge appunto quelle libertà e quei diritti [385] ovvero supplisce alla insufficienza delle facoltà d'ogni particolare uomo e d'ogni comune, o per ultimo s'ajuta e sforza di porre nel cospetto dei cittadini un modello e un esempio luminoso e imitabile. Certo, il geloso rispetto a ciò che non dee cadere in guisa diretta e immediata sotto la potestà governante, se in ogni cosa è giusto e proficuo, in materia di beneficenza è al tutto necessario, non dandosi atto al mondo più nobile e santo, ma insieme più spontaneo e meno isforzevole della privata e pubblica carità.

TESTO DELLA LEGGE.

IL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Considerando che tra gli uffici principali e più degni di un governo probo ed illuminato si è quello di soccorrere e di educare le classi indigenti;

Considerando che le dottrine e le pratiche della beneficenza pubblica sonosi ne' nostri tempi mirabilmente accresciute e affinate, e domandano studio ed occupazione moltiforme e continua;

Conseguita l'approvazione de' due Consigli deliberanti;

Avuta la sanzione Sovrana,

Decreta

1. È instituito un Ministero speciale di pubblica beneficenza.

2. Le sue pertinenze e funzioni sono dichiarate da un respettivo ordinamento.

3. Le pertinenze del Ministero dell'interno dinumerate nella distinzione 6ª e nella distinzione 9ª dell'articolo 19 del Motu-proprio sul Consiglio de' Ministri, divengono pertinenze del Ministero di pubblica beneficenza.

4. Agli stipendj e alle altre spese d'officio del detto Ministero sono assegnati 9,500 scudi, e 1,000 per le spese del primo assetto.

Dal Quirinale li..... di...... 1848.

Ordinamento del ministero di beneficenza pubblica.

§ 1.

Funzioni generali del Ministero.

1. Il Ministro procura in genere la riforma, il perfezionamento e la moltiplicazione degl'istituti e delle opere di beneficenza che già sono in atto, e la fondazione e l'avviamento degl'istituti e opere nuove, conosciute per veramente salutari ed insigni e convenevoli al tempo ed al luogo.

Invigila da pertutto sulle condizioni delle classi più disagiate, sui lavoranti, i contadini e i necessitosi di ogni ragione.

Invigila e cura ogni istituzione ed ogni opera conducente alla educazione morale e intellettuale delle infime classi.

2. Procura con mezzi mediati o immediati d'approssimare le opere tutte di beneficenza a certa unità e collegazione, affine che se ne aumenti da ogni lato l'efficacia, e non ne sieno gli effetti o troppo parziali o manchevoli.

3. Promuove appresso i Consigli deliberanti le leggi e gli ordinamenti giovevoli alle classi indigenti e al popolo minuto.

4. Sopraintende agl'istituti laicali di beneficenza da lui fondati o dal Governo posseduti, e a qualunque disegno e impresa da lui o [386] dal Governo attuata, e la quale intende al sollievo e alla educazione delle classi inferiori.

5. Sopraintende similmente a quegl'istituti e opere laicali di beneficenza e di educazione popolare, le quali sono poste dai fondatori sotto il riguardamento e la cura immediata di chi governa.

6. S'ingerisce, d'accordo coi municipj o coi rettori privati, nel regolamento di quegl'istituti ed opere comunitative o private, alle quali viene il Governo in soccorso con la pecunia pubblica, o con altra maniera efficace e ragguardevole di ajuto.

7. Quanto alle fondazioni e congregazioni, e similmente a qualunque specie ed atto di pubblica beneficenza, dipendenti al tutto dai municipj o dalla carità di privati, e che si rimangono esclusi dalle tre predette categorie, il Ministro ne piglia cognizione esatta e particolareggiata, ed esige copia autentica degli statuti e regolamenti.

Invigila che non contravvengano in nulla alle leggi universali dello Stato.

Promove e propone in seno de' Consessi legislativi quelle provvidenze e cautele che impediscono alle beneficenze d'istituto municipale o privato di fuorviare e corrompersi.

Risponde ai consigli richiesti, e invita per via officiosa a modificare, migliorare, propagare e in ogni guisa perfezionare l'opera della beneficenza.

Invita similmente e procura la colleganza e reciprocazione degli uffici e degli ajuti fra l'uno istituto e l'altro, e in genere favorisce e caldeggia per ogni modo l'azione loro.

§ II.

Funzioni speciali.

1. Le pertinenze peculiari del Ministero si raccolgono tutte in due vaste categorie.

La prima inchiude le opere di beneficenza riparatrice.

La seconda le opere di beneficenza preservatrice. Non però che l'una non si meschi quasi sempre nell'altra; onde si distinguono solo per la prevalenza dell'uno ufficio sull'altro, cioè della beneficenza riparatrice sulla preservatrice, o viceversa.

2. Nella prima categoria s'inchiudono principalmente:

3. Nella seconda categoria s'inchiudono principalmente:

§ III.

Funzioni straordinarie.

1. In ogni grave perturbazione civile, e sopravvenendo le carestie, l'epidemie, i commerciali sconvolgimenti, i subiti stagnamenti de' traffichi, ed ogni altro sinistro che offenda e flagelli in guisa immediata il popol minuto, crescono di necessità le cure e gl'ingerimenti del Ministero.

2. In que' casi, il Ministro o propone al Parlamento o delibera co' suoi Colleghi sul modo di recare straordinarj sussidj alle classi più povere. Propone e delibera:

E sopra ogni altro mezzo e spediente di sollecita ed efficace riparazione e confortazione.

§ IV.

Relazioni speciali con gli altri Ministeri.

1. Le relazioni più frequenti e speciali sono:

Col Ministero della istruzione pubblica, a rispetto della istruzione primaria e delle scuole tecniche popolari.

Col Ministero della Giustizia, principalmente per la patrocinazione dei poveri, pe' luoghi di pena e per le discipline penitenziali.

Col Ministero del commercio, dell'agricoltura e dei pubblici lavori, per la condizione de' lavoranti e dei contadini.

Col Ministro o prefetto di Polizia, pe' malviventi e gli accattoni, e per le abitudini e costumanze del basso popolo.

2. Regolamenti peculiari, accordati con tutti i Ministri e dettati secondo la mente del Motu-proprio sul Consiglio dei Ministri, definiranno più per minuto, e secondo che occorre, la materia e il modo delle relazioni, i limiti delle pertinenze e la reciprocazione degli uffici.

§ V.

Consiglio privato.

1. Il Ministero di beneficenza à un Consiglio privato, presieduto dal Ministro medesimo, il quale lo chiama a consulta appresso di sè due volte almeno in ciaschedun mese, e più spesso ne' casi straordinarj.

2. Il Consiglio non può essere composto di meno di Undici membri.

[388]

Due vi stanno ascritti perpetuamente a cagione di loro dignità, e sono:

Il Segretario della Congregazione dei Vescovi, e il Senatore di Roma.

3. Tutti gli altri Consiglieri sono eletti dal Principe.

4. Essi vengono scelti in modo da comporre, quanto è possibile, l'ordine qui segnato:

5. Le funzioni di Consigliere sono assolutamente gratuite e meramente onorifiche.

§ VI.

Congregazioni di Carità.

1. In ogni città Capo di provincia risiede una Congregazione di carità.

2. I suoi componenti non possono esser meno di Cinque nè più di Sette.

3. Ciascuno di loro è scelto e deputato dal Principe.

4. Oltre questi, siedono nella Congregazione per diritto di dignità il Vescovo e il Gonfaloniere della città, e ne sono membri onorarj perpetui.

5. Tutti i componenti la Congregazione, così gli eletti dal Principe come gli onorarj, adempiono l'ufficio loro senza emolumento alcuno.

6. Si adunano appresso il capo della provincia (loro presidente) una volta almeno per settimana, e più spesso nei casi straordinarj.

7. La scelta de' componenti cade in genere sulle persone più dotte e specchiate e zelanti del bene delle infime classi.

8. Ogni triennio la Congregazione si rinnova di un terzo.

9. Pei due primi triennj, gli uscenti sono estratti a sorte. Appresso, seguono l'ordine di anzianità.

10. Passato un triennio, ciascuno degli uscenti può venire rieletto.

11. La Congregazione è consultata sopra ogni riforma ed innovazione in qualunque istituto ed opera caritativa della provincia.

È consultata sull'amministrazione ordinaria di essi istituti, e le vengono presentati i bilanci di quelli che sono retti dal Governo e dai suoi delegati.

Può venirle commesso dal Presidente qualche officio determinato e particolare intorno alla Beneficenza.

Consegna e può raccomandare ad esso i memoriali e i richiami intorno al subbietto medesimo.

La Congregazione elegge fuor del suo seno il suo segretario, e gli assegna uno stipendio.

[389]

Gli atti di ogni sua tornata sono depositati nella cancelleria del Governo della provincia, e se ne manda copia al Ministro.

§ VII.

Segretariato.

1. Il Ministro mantiene assidua corrispondenza officiale coi Presidi delle provincie, e altri rappresentanti del Governo, intorno all'opera di beneficenza, e per mezzo de' primi à relazione pure continua con le Congregazioni provinciali di Carità.

2. Similmente, à corrispondenza officiale coi rettori e direttori di tutti quegl'istituti e opere caritative e di educazione popolare, le quali dipendono dal Governo, o dal Governo sono riguardevolmente soccorse.

3. Carteggia poi in via officiosa, e in esercizio ed uso dell'azione sua direttiva e morale,

Coi municipj, in quanto fondano ed amministrano istituti e opere di beneficenza dipendenti al tutto ed unicamente dall'autorità loro;

Con le private congregazioni e consorterie e coi particolari uomini che fondano ed amministrano a conto proprio ed a bene pubblico esse opere ed istituti;

Col Cardinale Prefetto della Congregazione de' Vescovi e Regolari, intorno al buon andamento degli atti ed istituzioni caritative di mera fondazione ecclesiastica.

Similmente e per la stessa cagione carteggia coi Vescovi, ed altri rettori e direttori di quegli atti ed istituzioni.

§ VIII.

Ordinamenti speciali e dichiarativi.

Articolo Unico. Ognuna delle materie partitamente trattate nei superiori paragrafi, riceverà di mano in mano maggiore dichiarazione e più minuta distinzione dai respettivi regolamenti e dalle circolari ministeriali.

Terenzio Mamiani.

Nota C, pag. 340.

Tra l'altre proposte di legge fatte alle Camere dal Ministero del 2 di maggio, è da citare quella sul secreto postale; un disegno di Banco Nazionale; varie proposte di legge per provvedere alle crescenti spese straordinarie; una sulla regolarità dei pesi e delle misure; una sull'ordinamento delle Guardie Civiche mobili; una sulla costruzione dei telegrafi. Più proposte di leggi sugli armamenti e le leve; una sull'abolizione dei fedecommessi e dei maggioraschi; una sulla trasformazione della tassa del macinato. Intanto, al Consiglio di Stato che ricevè vita ed ordinamento dal medesimo Ministero, erano stati dettati i principj e le norme per compilare la legge sulla istituzione dei Municipj, quella intorno alla nuova forma dei tribunali, l'altra sul rimutamento dell'ufficio del Controllore, ec.

Nota D, pag. 345.

Il Consiglio dei Deputati, nelle prime parole che pubblicò, e fu il dì dopo della partenza del Pontefice, riconobbe in modo aperto [390] e compiuto la legalità dei Ministri e del loro mandato, dicendo: «Dev'essere manifesto che nell'assenza del Principe il governo dello Stato permane costituito nelle medesime forme e colle medesime autorità. Il Consiglio dei Deputati, sempre fermo nell'esercizio de' suoi diritti e nell'osservanza de' suoi doveri, si accorda di tutta sua volontà col Ministero al quale il Santo Padre à conferito i poteri e nell'assenza sua raccomandato l'ufficio di tutelare l'ordine pubblico.»

Nota E, pag. 351.

Forse al lettore gradirà di leggere qui per intero tal Nota, e vedrà da quanta ragione e moderazione insieme venisse dettata, e come fosse una voce debole sì ma sincera (e doveva esser l'ultima) di conciliazione e di pace, alzata in mezzo ai tumulti e agli strepiti delle fazioni.

N. 9681.

DAL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI.

Circolare al Corpo Diplomatico

Roma, 29 novembre 1848.

Gli ultimi casi di Roma, principiati da un atroce assassinio, e terminati con la improvvisa e soppiatta partenza del Principe, possono agevolmente far sorgere nella mente dei Ministri e Rappresentanti Esterni un concetto non giusto e non vero inverso coloro i quali reggono ora lo Stato, e i quali, invece, reputano di aver adempiuto un atto di gran devozione alla Patria, consentendo di sedere al Governo e di tutelare l'ordine pubblico.

Il sottoscritto giunse in Roma parecchi giorni dopo i fatti violenti del 16 di novembre, e non accettò il Ministero, al quale lo chiamava il Principe con dispaccio dell'Eminentissimo Segretario di Stato, se non quando vide la Patria in pericolo estremo e a tutti visibile di rimanere senza Governo, e quando un Autografo del Santo Padre, indiritto al Marchese Sacchetti, Custode dei Sacri Palazzi, riconfermava ciascun Ministro nel proprio officio, e voleva ad essi raccomandata in ispecial modo la quiete e l'ordine pubblico.

Rispetto poi ai degni Colleghi del sottoscritto, certo è che la sola parte ch'ebbe alcuno di loro negli avvenimenti del 16 di novembre, fu d'interporsi continuo fra il Popolo sollevato ed il Principe, affine di procacciare una composizione onesta e pacifica. Quanto al deplorevole ammazzamento del Rossi, il presente Ministero à, come poteva il meglio, soddisfatto al debito suo, col comando espresso e ripetuto che fece ai respettivi ufficiali, di procedere vigorosamente e speditamente alla scoperta e alla punizione del reo.

Tutta Roma intanto aderisce in modo sollecito e manifestissimo al Ministero, e mai non s'è veduta maggiore e più intima unione fra i varj ordini di magistrati, come apertamente lo mostra il Proclama del Consiglio dei Deputati, quello dell'Alto Consiglio súbito dopo venuto in luce, e quello infine del nuovo Senato della città. Il che basti per istruire i Ministri e Rappresentanti dei Governi Esteriori intorno alla legalità perfetta del presente Ministero Romano, e alla integrità e schiettezza delle sue intenzioni. Dopo ciò, il sottoscritto à l'onore di porre in considerazione dei Ministri e Rappresentanti dei Governi Esteriori certi fatti e disposizioni morali di gran momento, e acconcissime [391] a ben discoprire altrui l'indole e l'importanza degli ultimi accadimenti di questa metropoli.

Prima cosa da notare si è, che il Santo Padre mai non à sostenuto la men che minima forza e minaccia, in qualunque esercizio ed atto dell'autorità sua pontificia. La tempesta più volte insorta con fiera e minaccevole furia, à sempre quietate e spianate le onde sue a piè dell'Altare.

La seconda cosa, degna sopramodo di venir ponderata, si è, che d'ogni accidente più duro e d'ogni violenza occorsa negli ultimi tempi in Roma e nelle Provincie, è stata occasione e cagione perpetua il problema difficilissimo di convenientemente accordare il temporale dominio collo spirituale; desiderando i popoli tutti di questa contrada, con pieno ed unanime voto, che fra i due poteri intervenga una divisione profonda e compiuta, salva rimanendo la unità di ambedue nella stessa Augusta Persona; laddove dall'altro lato si è voluto e sperato più che ostinatamente di tenerli, come per addietro, in istretto modo congiunti e confusi. Alla soluzione quieta e durevole di tanto problema, abbisognava un mutuo spirito di tolleranza, di conciliazione e di longanimità; e soprattutto facea mestieri l'azione lenta del tempo e degli istituti, e la forza degli abiti nuovi e dei nuovi interessi. Ma le passioni di entrambi gli estremi partiti, e quella impazienza temeraria ed improvida che spinge in ogni parte di Europa e del mondo le presenti generazioni a rompere tutto ciò che di súbito non si piega e non muta, condussero in Roma la resistenza e il conflitto, e le rapide e forse immature trasformazioni.

À poi meschiato ed aggiunto asprezza e impetuosità al conflitto il sentimento nazionale non soddisfatto, e il credersi in questi ultimi tempi che venisse a contesa colla politica nuova italiana la vecchia politica della romana curia, la quale à pensato troppe volte di scampare ed avvantaggiare sè sola nel naufragio della Nazione.

Da tutto ciò il sottoscritto piglia arbitrio di concludere, che le agitazioni e le rivolture dello Stato Romano mettono radice in un sentimento universale, e in un bisogno fondatissimo ed incessante; il quale non verrà, del sicuro, attutato e distrutto dai temperamenti e uffici dei Diplomatici, e nemmanco dall'uso dell'armi quali che fossero. Elle sgomenterebbono temporaneamente gli spiriti senza mutarli nè vincerli; e li vedremmo ad ogni occasione ribollir più feroci e meno placabili, simiglianti a finissime molle, che altri può comprimere e storcere, ma non impedire che mille volte risorgano e scattino. Quindi reputa il sottoscritto, che niuna azione, niun ingegno, niun'arte e modo d'intervenzione straniera riuscirà a quetare e a sopprimere quella rinascente e durissima necessità delle cose, la quale à pur resistito alla forza attraente e soave delle virtù evangeliche, della bontà specchiata e della infinita e inalterabile mansuetudine del Sovrano Pontefice, ed à eziandio prevaluto all'amore riconoscente dei popoli inverso l'Iniziatore Augusto della nazionale rigenerazione.

Terenzio Mamiani.

Ai termini di questa Nota, fattesi a voce da alcun nostro Commissario le debite chiose, le quali venivano, la più parte, dedotte dalle norme caute e prudenti allora seguite e che la presente Lettera accenna più sopra, ambedue i Governi, Francese cioè e Inglese, mostraronsi soddisfatti, e promisero d'interporsi tra il Principe e il popolo, come discreti e pacifici mediatori. Certo è che, innanzi alla convocazione [392] della Costituente romana e all'acclamazione della repubblica, sebbene dal Cavaignac fu mosso discorso d'intervento armato e cominciátane l'esecuzione, non potè il disegno venir proseguito, mancando affatto i pretesti. Dell'Inghilterra basterà dire, che in ogni dispaccio di lord Palmerston intorno al proposito, raccomandavansi caldamente tutte le guise opportune e possibili di conciliazione e d'accordo, e biasimavasi con ricise parole qual si volesse intervento ed uso di forza straniera. Non per questo si presume da noi di negare, che rotto l'esercito italiano a Novara, diventava probabile assai l'invasione austriaca nelle Provincie Romane, quantunque mantenute si fossero nella suggezione del Papa, e dentro gli angusti limiti dello Statuto. Ma l'amore del vero e l'amor d'Italia ci forzano a dire, che gli ultimi rivolgimenti di Roma e della Toscana nocquero più che mediocremente al buon esito della riscossa; e ad ogni modo, l'Austria sola invadente arrecato avrebbe non altro che odio e scredito immenso alla fazione prelatizia che la chiamava. Forse mancato sarebbe allora la possibilità eziandio di abolir lo Statuto rimasto sempre in atto, e dimorando dal lato nostro intatti e compiuti la ragione e il diritto. Più certo è che non avrebbe potuto Leopoldo abolire il suo proprio in Toscana, nella quale senza le mene repubblicane ogni cosa sarebbesi mantenuta quieta. Ma praticandosi sino alla fine la politica iniziata dall'autore di queste lettere, ciò che del sicuro veniva impedito, era il fatto funesto e misero sopra tutti, d'una specie di Santa Crociata che l'Europa Cattolica à messo insieme per rialzare la potestà temporale dei papi, e rialzarla assoluta, e secondo le pretensioni e le massime del giure divino dei Monarchi. Onde, tanto sono ora angosciati e disanimati i popoli, quanto imbaldanzita e infreneticata la setta nemica d'ogni concessione e d'ogni interesse nazionale italiano; e a cui sembrano quasichè ritornati i tempi di Gregorio VII e d'Innocenzio III. Nè mai si può deplorare quanto ragion vorrebbe quest'uscio aperto e spalancato oggidì in Italia all'intromessione armata di tutti i forestieri nelle nostre faccende, sotto sembiante di reggere e puntellare il principato ecclesiastico.

Oh! vi puzzano, dunque, le glorie che i repubblicani sonosi guadagnate, ed anzi ànno guadagnato all'Italia, combattendo in guerra disugualissima e senza speranza? Amiamo le vostre glorie, e come Italiani ne andiamo alteri. Ma lottare a morte contro l'Austria non era certo men bello che contro la Francia; e le file de' combattenti, sarebbero state più folte, il diritto più intero, la colleganza europea renduta impossibile, rimosso dalla patria un gran principio di divisione, strappato a forza il suffragio di quanti uomini liberi e onesti illumina il sole.

Nota F, pag. 351.

I termini della Protesta furono gl'infrascritti.

Il Generale Cavaignac, nel dì 28 del mese scorso, significò all'Assemblea Nazionale di Francia, che giuntagli nuova dei casi succeduti in Roma il dì 16 di quel mese stesso, aveva, mediante i telegrafi, comandato fossero di presente imbarcati 3500 uomini sopra tre fregate a vapore, e diretti verso Civitavecchia, affine di assicurare la persona del Santo Padre, la sua libertà e la riverenza che gli si debbe. Nelle norme poi scritte e mandate dal Generale al signor de Corcelles, e lette all'Assemblea nazionale in quel medesimo giorno, s'incontrano [393] queste formali parole: — Voi non siete autorizzato ad intervenire in alcuna delle questioni politiche in Roma agitate. Spetta solamente all'Assemblea Nazionale il determinare la parte che vorrà far avere alla Repubblica nei provvedimenti coi quali s'instaurerà uno stato regolare di cose nei dominj della Chiesa. —

A noi sottoscritti è necessità di notare in primo luogo, siccome il dare ordine di entrare armata mano in un territorio straniero, non assentendolo i suoi abitanti e chi lo governa, è per sè medesimo atto contrario alle massime fondamentali del gius delle genti, ancora quando si compia con intenzione di assicurare la vita e la libertà del Principe quivi imperante. Conciossiachè ogni popolo è arbitro in casa sua d'ogni qualunque suo fatto, e giudice solo de' proprj interessi; e ne' Principi (giusta le dottrine universalmente ora accettate, e massime in Francia) non risiede una tal signoria e non vive un diritto tanto assoluto e divino, che facciali superiori ad ogni altro diritto sociale e politico, e li separi affatto dalla indipendenza e dalla sovranità nazionale.

Secondamente, osservano i sottoscritti, come nella istruzione data dal Generale Cavaignac al signore de Corcelles, il primo inciso del periodo poc'anzi allegato contraddica patentemente al secondo. Imperocchè nel primo comandasi al De Corcelles di non intromettersi punto nella questione insorta tra il popolo ed il suo Principe; e nell'altro, è considerato il caso che l'Assemblea Francese deliberi e voglia in diretto modo partecipare ai provvedimenti più idonei per ricondurre lo Stato ecclesiastico in situazione regolare e pacifica. Il primo inciso, pertanto, sembra volere escludere l'intervento politico, e nel secondo si annunzia come possibile.

I sottoscritti, tacendo per brevità molte ragioni concomitanti, e parecchi altri principj del giure internazionale che militano in lor favore, ristringonsi a ricordare al Generale Cavaignac la prescrizione chiarissima dell'articolo 5º della Costituzione nuova di Francia, col quale si decretò che le armi francesi mai non saranno adoperate a detrimento veruno delle libertà dei popoli. Ora, la prima, senza meno, delle libertà loro è la indipendenza nazionale, e il rimanere arbitri sempre e signori delle proprie sorti nel proprio Stato, arbitri e signori dell'interno assetto della cosa publica.

Ma il Pontefice, si obbietta, oltre al signoreggiare tre milioni di sudditi, è Capo e Moderatore di tutto l'Orbe Cattolico; e però ad ogni Potentato che professi la Cattolica Religione, importa di aver sicurezza che il sommo Gerarca non sostenga mai veruna violenza, e nemmanco patisca grave e frequente perturbazione nell'esercizio piano e spontaneo della pontificia podestà.

Noi non c'intratterremo qui nè a combattere nè a commentare cotesta massima, nella sua maggiore astrattezza considerata. Ma vogliasi riconoscere ad ogni modo, ch'ella dee venire applicata e addatta ai veri e congrui casi, non ai supposti o simulati od alieni dal subbietto. Ed oltre a ciò, egli farà bisogno sempre di convenire e accordarsi per innanzi sul modo di praticare con equità e imparzialità quella massima, e salvando scrupolosamente i diritti che a ciascun popolo alla indipendenza, alla libertà e al franco e intero maneggio de' suoi proprj negozj.

Il che presupposto, diciamo in primo luogo, che l'intervento non può venire all'atto giammai, qualora la spirituale autorità del Pontefice non sia negli uffici suoi nè impedita nè perturbata. Ora, [394] la differenza sorta fra il Santo Padre ed il popolo è meramente e unicamente politica. E neppur l'ingegno della calunnia potrebbe tanto aguzzarsi, da dare apparenza di verità a qual si voglia asserzione contraria. La Chiesa è intatta ne' suoi diritti, nelle sue pertinenze, ne' suoi esercizj d'ogni specie e d'ogni ragione.

In secondo luogo, fermato pure il caso, che il sacerdozio supremo non sia con la debita libertà e spontaneità esercitato, in guisa niuna potrebbesi consentire che una sola delle nazioni Europee si arrogasse il diritto e l'arbitrio d'intervenire da sè ed armata mano in un paese a lei forestiero, sia qualunque la ragione e il pretesto che ponga innanzi. Se il Re di Francia (quando era in seggio) ebbe nome di Cristianissimo, l'Imperatore d'Austria fu ed è chiamato Apostolico, il monarca di Spagna Cattolico, e Fedelissimo quello di Portogallo; titoli tutti grandi egualmente e solenni: e però a ciascuno di tali Principi s'addirebbe il privilegio medesimo, e competerebbe un egual diritto d'ingerimento in Italia; e non già alla sola Francia repubblicana, come sembra opinare il Generale Cavaignac.

Infine, nella fatta supposizione, occorre, come accennammo, che l'intervento non calpesti per nulla il dritto de' popoli, e, oltre di ciò, riesca durevolmente utile ed efficace. Imperocchè senza tali due condizioni, dell'equità per un lato e della utilità ed efficacia per l'altro, l'intervento sarebbe vano ed ingiusto, e però dannoso e riprovevole. Al presente, diciamo ch'egli è manifesto che l'intervento armato de' forestieri negli Stati della Chiesa non può succedere senza impedire ed offendere direttamente e in modo enormissimo le pubbliche libertà e franchigie del popol Romano, e per indiretto quelle d'ogni altro Stato d'Italia; e d'altra banda, non può tornare durevolmente utile ed efficace, e ben consuonare col fine. Problemi siffatti non si risolvono col taglio della spada, nè con qualunque atto e adoperamento di materiale forza. E perciò, tutta la parte assennata, temperata e virtuosa dei popoli pontificj à pensato e procurato di sciogliere l'arduo problema per vie razionali e pacifiche, correggendo le prime cagioni e non gli ultimi effetti, la sostanza e non gli accidenti, e procacciando di sbarbicare le vere e profonde radici dal male. Per ciò, essa fece plauso grandissimo al programma ministeriale delli 5 di giugno,[39] in cui si annunciava la lieta speranza di veder separata per sempre, e in guisa adatta e sincera, la potestà temporale dalla spirituale; comechè ambedue unite nella stessa Augusta Persona. E perchè avvi alcune azioni ed usi speciali del potere monarchico i quali il Pontefice afferma di non poterli accordare con la sua paterna e apostolica autorità, egli è grandemente mestieri che quella porzione di regio potere sia delegata e rimessa ad altrui in maniera conveniente e pratica, affine che i popoli dello stato Romano non vengano ad ogni tratto oppugnati nel desiderio legittimo il quale nutrono costantemente d'ogni ragionevole libertà e d'ogni progresso civile; e sopra tutto non vengano mai combattuti nel sentimento lor nazionale, e nella prima e sostanzialissima di tutte le condizioni sociali e politiche: quella, cioè, di vivere indipendenti e signori e moderatori delle proprie lor sorti, e di potersi con gli altri Italiani insieme affrancare dal giogo oltraggioso e durissimo dello straniero.

Ma tornando ora al discorso del generale Cavaignac, a noi si [395] rappresenta come molto credibile, che dopo aver egli saputo da' suoi commissarj e corrispondenti la quiete profonda in cui vivesi Roma e lo Stato sin dal dimane del giorno 16 di novembre; dopo conosciuta la concordia mirabile in cui si stringono ogni dì più il Ministero, le Camere, il Municipio, la Guardia Civica e tutte l'altre parti del popolo; dopo considerato come ciò mantenga in Roma e in ciascuna provincia un ordine veramente esemplare, e come in seno alla libertà illimitata di pensieri, di scritti e di opere in cui trovansi queste genti, non iscorgesi un atto ed un cenno non pure contrario alla fede Cattolica, ma nettampoco irriverente, e il quale offenda in alcuna parte e frastorni le pratiche numerose e le cotidiane dimostrazioni, apparati e cerimonie di culto esteriore; infine, dopo avere quel Generale considerato, che il Ministero, le Camere ed ogni altra magistratura nulla ànno che fare con le passioni del popolo nè con gli eccessi deplorevoli che ne possono rampollare, e come invece tutti essi que' governanti e que' magistrati mantengonsi fermi nella legalità e nello stretto esercizio de' loro diritti e de' loro doveri; si sentirà costretto a mutare opinione e deliberazione, e non verrà con la forza e l'impeto soldatesco a difficoltare e tardare quella leale conciliazione, la qual dee nascere spontaneamente con segni di perduranza e con reciprocazione perfetta; e così per virtù dell'amore e della persuasione, come per la necessità delle cose meglio conosciuta e sentita d'ambe le parti.

Ma quello che sia di ciò, la deliberazione del Generale Cavaignac, alla quale mal ci soffre l'animo di credere che partecipi di buon grado la generosa Nazione Francese, reca un'umiliazione e un'ingiuria gravissima a tutte le genti Italiane. Sotto qualunque colore, e per qualunque ragione onesta e plausibile, il Generale Cavaignac intenda d'intervenire a mano armata in Italia, ciò è un fatto che, non consentito dalla Nazione e da chi per legge la rappresenta, costituisce una violazione vera e flagrante dell'universale diritto dei popoli.

Il Generale Cavaignac neppure accenna alcun precedente accordo nè coi popoli nè coi Principi della Penisola. Egli non fa motto della richiesta o, per lo manco, dell'aperto e pieno accettare e aderire di Pio IX; la qual richiesta e il quale accettare e aderire noi neghiamo d'altra parte, che possa mai essere stato. Pio IX è il più mansueto de' Principi, ed à cuore alto e italiano. Però, come potrebb'egli voler tornare tra' suoi figliuoli e nella sua sede preceduto e fiancheggiato d'armi straniere? Chi ciò afferma, ed anzi chi ciò suppone di lui, crudelmente l'oltraggia. Oltre di che (non è soverchio il ripeterlo), trattandosi qui non dell'ufficio suo venerando e apostolico, ma unicamente delle differenze politiche nate tra lui e i suoi popoli, tornare in mezzo di loro mediante le armi e la violenza de' forestieri, saría compiere l'atto il più diametralmente contrario che far si possa ai principj del reggimento costituzionale, e alle massime più manifeste e volgari del dritto pubblico.

Ciò tutto considerato, noi sottoscritti protestiamo formalmente e solennemente in faccia all'Italia e all'Europa contra la invasione francese deliberata e apprestata dal Generale Cavaignac; e dichiariamo che alle sue truppe verrà, secondo le nostre forze, impedito lo sbarco, e l'entrare e violare, dovechessia, il territorio nazionale. Il che facendo, noi intendiamo di difender l'onore non solamente di queste Provincie Romane, ma dell'Italia tutta quanta, e di [396] secondare la volontà e la deliberazione fermissima di tutti i suoi popoli. E similmente facciamo caldo, espresso e, più che si può da noi, solenne e veemente richiamo ai Potentati di Europa, ed al senso loro di equità e di giustizia. Imperocchè la causa e l'ingiuria è comune a tutte mai le Nazioni gelose dell'indipendenza, e altere di aver conquistato la politica libertà.

Roma, 8 dicembre 1848.

Nota G, pag. 352.

La Commissione provvisoria di Governo, soli tre dì innanzi all'apertura della Costituente Romana, promulgò e sancì di proprio arbitrio quella legge medesima sui Municipj, che il Mamiani presentava al Consiglio dei Deputati il 21 di decembre. Qualche leggier mutazione ed aggiunta vi fu introdotta; ma, per fortuna, elle cadono sulle parti meramente disciplinali, e punto non alterano la sostanza e l'economia della legge. La sola disposizione nuova da notarsi, è questa: «Il diritto di decretare le imposte potrà, dopo l'esperienza di tre anni, venire limitato da una legge nazionale, che determini ed uniformi al sistema generale alcuni almeno degli oggetti della imposizione.»

Tale riserva e cautela è superflua, dappoichè ne' consessi legislativi permane sempre la facoltà di limitare e modificare, secondo ragione e in vista dell'universal bene, l'uso dei diritti comunitativi; e ciò per massima di gius pubblico; e per dichiarazione speciale della legge di cui discorriamo, ove s'incontrano queste formali parole: «I limiti del potere deliberativo de' Municipj sono determinati...... dalle leggi universali dello Stato, dalle deliberazioni de' Corpi legislativi, ec.»

Nota H, pag. 354.

Non inutili forse alla storia sono le parole con che l'autore domandò, il dì primo dicembre, alla Camera facoltà piena di trattare coi Governi della Penisola intorno al Congresso Costituente italiano. Ogni memoria che concerne il tentamento fatto in que' tempi per unire gli Stati Italiani in confederazione, ci sembra che mai non debba cadere dall'animo degli ottimi cittadini; perchè in quel concetto solo è chiusa la salute e la redenzione vera e fattibile della Patria. Le parole, adunque, del Mamiani furono le seguenti.


«Se apriamo i libri di parecchi gravi politici dell'età nostra, noi vi leggiamo questa sentenza; che, cioè, il mutare ed il progredire degli Stati d'Europa ànno principalmente mirato al fine di sciogliere i piccioli reami ne' grandi, e costruir da per tutto una salda e poderosa unità di governo. Il pronunziato di tali scrittori è vero in gran parte, nè io mi pongo qui a negarlo od a menomarlo. Per altro, io mantengo fermissimamente, che non debbesi in quel fatto avvisare e riconoscere sotto veruno aspetto l'ultima perfezione del moto civile dei popoli. A quella incorporazione di tante e sì vaste provincie diè molto minor cagione la mutua benevolenza e il mutuo vantaggio dei docili abitatori, che il material successo delle conquiste, l'accidente delle eredità, e i convegni e i maneggi dei principi. All'unità poi rigorosa e sempre cresciuta dei governi, porsero avviamento o occasione [397] non la saviezza maggiore delle nazioni e il prezioso incremento e accomunamento della scienza politica, ma la successiva estinzione d'ogni ordine e d'ogni autorità intermedia fra i monarchi ed i sudditi, ma l'odio de' privilegi, e la naturale dittatura onde furono investiti i re per isbarbare gli ultimi dritti feudali.

In ogni modo, a me non sembra cosa eccellente e perfetta l'adunare e addensare le forze civili e politiche in un solo ed unico punto, e quasi impedire le facoltà più svegliate e nobili de' provinciali, e sopprimere ogni forma diversa e spontanea di vita comune nel rimanente ed amplissimo corpo della repubblica. E s'io non temessi di parlarvi un linguaggio troppo accademico e inopportuno al luogo ed al tempo, v'inviterei, cittadini, a ben divisare le opere della natura, le quali quanta maggior perfezione organica ne dimostrano, tanto in ciascuna porzione e in ciascun membro e viscere dell'ente animato rivelano maggior varietà, vigorezza, implicazione e incremento di vita propria, bene armonizzata e congiunta colla vita centrale e moderatrice del composto.

Ma come ciò sia, sembrami ora certissimo che la Provvidenza apparecchi all'Italia questo gran bene di mantenere in ciascuna sua parte la originalità, il vigore, la varietà e il maraviglioso dispiegamento delle sue forze e virtù speciali e individuali, in debita guisa contemperate ed unificate con la potenza e virtù generale e sopraeminente del tutto. Cagione di tal miracolo sarà senza meno la Confederazione Italiana, il cui patto fondamentale, le cui pertinenze e gli uffici verranno determinate e in perpetuo fermate da un Congresso Costituente.

Allorchè io dico, o cittadini, Congresso Costituente, credo col nome solo aver chiaramente annunciato, ch'io non piglio a discorrere di una confederazione fra i principi soli, ma sibbene de' principi insiememente coi popoli; non di una confederazione transitoria ed accidentale, ma immobile e persistente, ma sostanziale e feconda; non di tali azioni o tali altre per accordo particolare pensate ed effettuate, ma di un potere e d'un reggimento centrale, comune e perpetuo, pieno di efficacia e d'autorità, saggio, illustre, imparziale e venerabile a tutti, sicchè ne' supremi ed universali interessi della Nazione non isdegnino di obbedirgli i coronati reggitori de' singoli Stati.

Il Ministero vostro è pieno di fede nella Confederazione Italiana. Imperocchè un popolo diviso per lunghissima età in Istati diversi ed indipendenti, avvezzi a leggi, istituti, governi, usi, costumi, tradizioni e parlari lor proprj, e soliti da qualche secolo a inorgorglirsi e presumere della natura loro e disistimar quella di tutti gli altri; un popolo così fatto, io dico, non si scioglie e non si confonde in una sola provincia, se non per effetto della conquista o d'alcuna violenza interiore: e questa, io nol nego, può riuscire in più casi ed in più maniere, ma in nessuna sarà durabile; e un po' di conflitto che sorga negl'interessi e nelle ambizioni, il mal sopito egoismo delle provincie ridarà su rabbioso e funesto; e quella fortunata violenza o sorpresa che voglia chiamarsi, avrà da ultimo non altro fatto che apparecchiare i semi delle discordie intestine, e forse anche della guerra e del sangue civile. E però a quel popolo di cui parlo, o sarà impossibile sempre di ben comporsi in vero e durevole essere di nazione; o gli converrà aver ricorso alla forma confederativa, la quale tornerà poi tanto più salutare e fruttifera, quanto più stretta e maggiormente fornita di facoltà e prerogative. [398] Nè tralascerò di notare, come una stretta Confederazione, chi ben la considera, non osteggia ed anzi prepara le cose e gli uomini a qualunque specie di maggiore unità politica; dove, per lo contrario, le unioni e incorporazioni subitanee e premature, e più assai comandate ed imposte che accettate e volute, possono convertirsi più tardi in cagioni avverse e disturbatrici di una leale e spontanea Confederazione. Nè già l'indole di questa e le disposizioni e le regole che si appropria sono così determinate e inflessibili, che mal si riesca a piegarle e adattarle alle differenti contingenze e necessità che incontra la lunga e rimutevole vita d'una nazione. L'ingegno e l'arte politica può invece disegnare e attuare un patto confederativo sufficiente ad ogni varietà di fortuna; ed ora simile a una dittatura e capace d'ogni unità e veemenza d'azione; ora così largo da somigliare più presto una compagnia ed un'amicizia, che altra cosa imperativa ed obbligatoria. Per contra, se v'à al mondo forma tenace ed aspra e poco arrendevole, si è del sicuro l'unità di governo assoluta ed onnipotente; come tuttogiorno il dimostra alcuna nazione europea troppo forse celebrata, e poco opportunamente imitata.

Io salgo, pertanto, in ringhiera col grato ufficio di annunziarvi, che il Ministero vostro intende quest'oggi medesimo di dare cominciamento ad attener la promessa già fatta dinnanzi al popolo sinceramente e solennemente; che, cioè, sarebbesi spesa ogni estrema cura, sostenuto ogni fatica, adoperato ogni zelo affine che la Costituente Italiana possa quanto prima venire ad effetto.

E certo, se l'impresa nobilissima e santa pendesse dal solo nostro arbitrio e giudicio, noi saliremmo qui a proferirvi un disegno di legge per iscegliere e convocare i Deputati Costituenti; e presto munita quella proposta dell'adesione e sanzione vostra, che altro rimarrebbe se non godere del fatto insigne, e nella vista del desiderato Congresso pascere lungamente gli sguardi e gli affetti? Ma, pur troppo, alla consumazione di tale atto bisogna il consentimento e l'unione di tutti gli Stati italiani, o di pressochè tutti. E però il Ministero presentasi dinanzi a voi fiducialmente a chiedervi d'esser fornito delle congrue facoltà per entrar subito in negoziato con essi Governi. E perchè voi non volete, com'è ragione, e mai non dovete, così mezzo alla cieca e senza un'antecedente e piena cognizione di causa, investire i Ministri di facoltà sì importanti e gelose; imperò noi veniamo a significarvi pochi principj, ma sostanziosi e precisi, coi quali intendiamo di condurre le pratiche coi Governi italiani. E l'espressione di que' principj fatta chiara, semplice e breve al possibile, si è la seguente.

1º Gli Stati Italiani eleggeranno e convocheranno un'Assemblea Costituente comune, alla quale si confiderà il mandato supremo di compilare un Patto Confederativo, che, rispettando l'esistenza e l'autonomia dei singoli Stati, e lasciandone inalterata la forma di governo e le leggi fondamentali, valga ad assicurare la libertà, l'Unione e l'Indipendenza assoluta e perpetua della Nazione, e a promoverne ogni qualunque prosperità e grandezza.

2º All'Assemblea Costituente ogni Stato manderà un numero uguale di Deputati rappresentanti.

3º Questi verranno eletti in ciascuno Stato giusta il modo che ciascun Governo e Parlamento delibererà di usare.

4º L'Assemblea Costituente si radunerà in Roma.

5º Il modo col quale i paesi d'Italia occupati al presente dallo [399] straniero esser dovranno rappresentati nell'Assemblea, rimarrà a trattarsi fra i Governi che aderiranno all'Atto Confederativo.

6º L'Assemblea Costituente, innanzi pure di procedere alla discussione e compilazione del Patto, delibererà sui provvedimenti comuni richiesti dall'urgenza somma dei casi e fatti necessarj al pronto e compiuto conseguimento dell'Indipendenza Nazionale.

Ecco i fondamenti e i principj secondo i quali il Ministero proponesi di entrar di subito in accordo coi varj Stati della Penisola intorno al disegno d'un Congresso Costituente. Se a voi gioverà di approvarli, noi, troncando ogni indugio, inizieremo il trattato prima col Governo Toscano; siccome quello che è gran zelatore della Costituente Italiana, e pur testè ci à fatto sapere che assai di buon grado porrà alquante modificazioni e restrizioni alle massime da lui promulgate intorno al proposito, essendo egli desiderosissimo di conciliazione e concordia. Venuti esso e noi in perfetto convegno (la quale opera non credo nè lunga nè malagevole), useremo entrambi ogni studio e tutte le forze dell'intelletto e dell'animo per accostare al nostro disegno e a tutte le nostre comuni intenzioni il Governo Piemontese.[40]

Ciò conseguito, il Ministero tornerà innanzi di voi col risultamento dell'una e dell'altra pratica; e il vostro terminativo giudicio porrà in atto alla fine il desiderato e sospirato Congresso Costituente.

Dirò schietto e franco, che sta molto discosto da noi il dubio che voi non siate per impartirci le facoltà le quali chieggiamo. Conciossiachè voi discernete, del sicuro, nella nostra proposta un gran mezzo (forse anche l'unico) per ovviare ai mali d'Italia, e i già cominciati e presenti ispegnere e riparare. Troppo la nostra Patria comune è mutata in questi ultimi tempi, ed anche in peggio è mutata. Un primo e solo disastro, rammentatelo o cittadini, sull'armi Subalpine caduto, una sola battaglia non vinta riuscì bastante a gittare per terra le anime nostre; ed ora eccediamo, per quel ch'io ne giudico, nello scoramento e nell'abbandono di noi medesimi, quanto eccedemmo da prima non in ardire generoso, ma in giovanile baldanza e in temerità sconsigliata.

Signori, egli è grande necessità di provvedere alle condizioni sempre più misere di questa Patria comune, che a noi drizza gli occhi e tende le braccia, e mostra i campi Lombardi nel servaggio ricaduti, e Venezia stretta da fiera ossidione, e Napoli insanguinata e la Sicilia piena di strage civile.

Io non mentirò all'animo mio, e dirò che la discordia, il sospetto, la diffidenza e l'orgoglio ànno la massima parte di que' mali su noi rovesciata, e ricaccian l'Italia nelle antiche sventure. Nè v'à oggimai provincia della Penisola che sia sana ed intera, non un palmo di terra in cui le sètte e i partiti ferocemente non si combattano. Eppure, a me sembra di udir tuttora il suono degli inni caldi e infiammati di fratellevole amore. Stannomi ancora dinnanzi agli occhi quelle giojose dimostranze, quei raduni senza tumulto, quei congressi senza contese, quelle feste piene di pura e fiduciale letizia, e in cui gli ornamenti, gli addobbi, le insegne, i simboli, le iscrizioni e ogni cosa ricordava e ammoniva la somma necessità dell'unione; ed anzi, la voglia testimoniava e il proposito fermo e inconcusso della concordia [400] generale e perpetua. Ma tutto ciò è durato quanto la fragranza dei fiori e delle ghirlande che ai fraterni banchetti c'incoronavano, quanto il fumo degli incensi che ardevano per le chiese a ringraziare Iddio del risorgimento italiano. E però io v'annunzio col più ponderato giudicio e col più profondo convincimento dell'animo, che la unione e concordia nostra o per sempre sono perdute e distrutte, o non possono rigermogliare e rinascere che dal seno fecondo della Costituente Italiana.

Nota I, pag. 364.

A prova di ciò, ricorderemo un sol fatto tra molti. Durante il Governo Provvisorio, vennero le truppe Svizzere comandate, per volere espresso del Pontefice, di lasciare Bologna, dove stanziavano, e condursi in Roma. Le popolazioni, com'era da tenersi per più che certo, insorsero a mano armata per impedire il passo alle truppe; le quali non altrimenti potean forzarlo, che empiendo quei luoghi di molta strage. Vinse negli Svizzeri un sentimento di umanità, e non osarono di partire. Il quale atto così è giudicato dall'Allocuzione del 20 aprile: — Quae (Helvetiorum copiae) huic nostrae voluntati haudquaquam obsequutae sunt, cum præsertim supremus illarum Ductor in hac re haud recte atque honorifice se gesserit. —

Del resto, se la bontà di Dio più che la prudenza umana ci preservò dal sangue civile, tutti gli altri mali dall'Autore presentiti e temuti fanno guasto e strazio crudele delle sfortunate Provincie Romane. L'oppressione e la servitù loro è già piena e consumatissima, e svaniron con essa le speranze magnifiche di tutta Europa, anzi di tutta Cristianità, di vedere il papato rigenerarsi, e la Chiesa procedere al fine di pari passo con la civiltà e gli alti concetti del secolo. Torna ostinato e funesto, come per innanzi, il dissidio antico tra il pontificato e la libertà, tra gl'interessi dello Stato Ecclesiastico e quelli della Nazione Italiana; e alla mente di ciascuno si riaffaccia con dolore la terribile comparazione di Machiavello della pietra incastrata fra le labbra della ferita, sì che mai non può guarire nè chiudersi.

All'autore di questo scritto rimane, per ultimo, il debito di protestare, siccome fa, con tutte quante le forze dell'animo e tutta l'efficacia e la santità del diritto, contro l'abolizione violenta, perniciosa, illegale e per ogni modo ingiusta e tirannica delle libertà costituzionali nelle Provincie Romane. Egli, afflittissimo del presente e oltre misura spaventato dell'avvenire, non può non ripetere spesso in cuor suo, con angoscia affannosa e divinatrice: — Sventurata Roma, sventurato Pontefice! —

[401]

PARTE TERZA. ULTIMI TEMPI.

[403]

Collochiamo in quest'ultima parte ciò che in materie politiche dettò e pubblicò il nostro Autore dall'abolizione dello Statuto Romano in poi.

Viene per primo quel che inseriva Egli del proprio nel sol giornale di opposizione liberale che scrivéssesi in Roma durante il governo republicano, e dove difese la libertà, come prima e sempre avea fatto, e farà in sua vita. Ma interruppe (com'era ben di ragione) la sua dignitosa e franca censura, quando gli stranieri sbarcarono, e la Città ebbe animo di salvar l'onore delle nostre armi e del nostro vessillo.

[405]

SULLA DISDETTA DELL'ARMISTIZIO.

20 marzo 1849.

L'armistizio è disdetto; la guerra sacra è intimata; e in quest'ora medesima forse in che noi scriviamo, le aure lombarde spirano nuovamente nel vessillo italiano. Il moto primo del cuor nostro si è di ringraziare umilmente il Padre delle nazioni e il Datore eterno di libertà, per avere infuso ne' Subalpini e nel Principe loro tanta magnanimità e fortezza da non dubitare di rompere una seconda volta la guerra, quantunque si vedano pressochè abbandonati dal rimanente d'Italia, e debban riporre migliore speranza nei popoli del Danubio che ne' proprj fratelli. À pure piacciuto al benigno Iddio di non permettere ch'elli si sgagliardissero per divisione e si scompigliassero per furore di partiti e di sètte, e à lor persuaso di non aspettare che germinassero i mali semi di diffidenza e di fanatismo sparsi di soppiatto da mani abilissime a sconciare e disordinare. Stretti, disciplinati e raccolti intorno al lor Principe, ànno, benchè soli, protetto l'Italia e contro gli stranieri e contro le interne follie. Ora, la spada è di nuovo snudata, e in quegli animi generosi non può capire che un sol pensiero: redimer l'Italia e vendicare le sventure di Somma Campagna e di Custoza.

Non che il frasario ampolloso e superlativo delle nostre gazzette, ma neppur lo stile dei sommi scrittori basterebbe, noi crediamo, a descrivere la gioja coraggiosa e terribile che invade in questi giorni il petto d'ogni Lombardo. Troppo ravveduti e corretti alla scuola dell'infortunio, essi più non son per cadere nelle funeste incertezze, nelle superbie municipali, e negli stolti e ingiuriosi sospetti ai quali eziandio tra l'armi e in mezzo alla guerra sconsigliatamente davano luogo. Deh! l'infortunio e l'esperienza corregga noi pure; e finchè, almeno, dura la prova pericolosa e finale contro dell'Austria, torni la misera Italia a quella invidiata concordia e a quella fiamma di fratellanza e d'amore che fece cara e maravigliosa all'intero mondo civile l'aurora del nostro risorgimento. Anche il medio evo conobbe le tregue di Dio: [406] non conoscerem noi per l'Italia una tregua di partiti e di smoderate opinioni? Certo, per nostro avviso, ciò è tanto più doveroso a coloro i quali, la vigilia medesima della guerra, osarono di suscitare in alcune parti della Penisola nuove e feconde cagioni d'odio, di scontentezza e di dissensione.

(Dalla Speranza dell'Epoca.)

SULLA NECESSITÀ DEL CONFEDERARSI.

27 marzo 1849.

L'Italia, chi può negarlo? ogni dì più si sconvolge, ogni dì più si slega e disgiunge nei fatti, nelle opinioni e negli interessi. Ufficio pertanto del buon cittadino è impedire che scompigliandosi e dividendosi tuttavia, smarrisca i nobilissimi fini a cui vuol pervenire, ed i quali sono principalmente la Indipendenza, l'Unione, e la Libertà. E qui pure sembra mestieri che risovvenga a tutti la massima del Machiavello, che per riordinare gli umani istituti occorre di risospingerli inverso i principj. L'Italia diè cominciamento al risorgere suo con la universale concordia e armonia delle menti e degli animi; mostrò di abborrire da ogni fazione, e di voler conciliare con fina e generosa industria i pensamenti, le mire e i desiderj di tutti. L'ardenza e l'impeto delle passioni non volle adoperati e sfogati nelle sètte e nelle brighe interiori, ma rivolti contro dell'Austria, intesi al magistero delle armi, ai pericoli della guerra e a quelle imprese ardite e magnanime che il riscatto della patria comune ricerca ed inspira. Fra i mezzi e gli apparecchi più acconci per menare a bene il fiero conflitto, conseguire l'indipendenza, acquistare vita e abito di nazione, indicò e raccomandò con ardore tutti i modi e tutte le vie per giungere a qualche notabile grado di consenso e di unione tra i membri della gran famiglia italiana; e desiderò fortemente in fra essi una leale ed intima Confederazione. Volle per ciò medesimo, che in ciascuna provincia le istituzioni fossero tanto larghe, e tanto almeno vi si godesse di libertà, quanto ne bisogna per concorrere speditamente [407] e con buon successo alla cacciata degli stranieri e all'unione confederativa; il rimanente giudicò doversi lasciare, e trattare a guerra finita. Volle poi quella libertà uguale per tutti, avversa ad ogni violenza, amica d'ogni ordine di cittadini, tutrice spassionata d'ogni diritto, d'ogni prerogativa, d'ogni possesso; libertà vera, insomma, e non finta ed inorpellata da nomi e simboli grandi e pomposi; libertà fondata sulla giustizia comune e imparziale, servita da ministri e ufficiali così abili come integri, osservatrice scrupolosa e severa delle leggi, promovitrice della pubblica educazione, massime di quella del popol minuto, calda di spiriti religiosi e caritativi, e informata soprattutto dal sentimento profondo e radicatissimo del dovere.

Noi di queste massime e di queste pratiche, le quali tutte furono fin da principio espresse e acclamate dal buon senso della nazione, saremo indefessi propugnatori. E non è nostra colpa se torna utile ed opportuno, per non dir necessario, il ripetere e raccomandare all'Italia verità così ovvie ad un tempo, e così salutevoli. Noi aderiremo con fede a tutti i governi che mireranno con zelo instancabile ad effettuare l'indipendenza e il patto d'unione; a tutti i governi aderiremo non ripulsivi ed intolleranti, non agitati e predominati da focoso amore di parte, ma professanti equità, moderazione, assennatezza, e capaci di annegazione e di sacrificio.

Da tutto ciò si raccoglie, che noi poco o nulla ci occuperemo in questo Periodico delle forme di reggimento politico, e assaissimo della bontà delle leggi; e però con diligenza e studio ne indagheremo e invigileremo l'applicazione e l'esecuzione. Noi (per venire in ispecialità a Roma e al suo Stato) in qualunque atto dell'Assemblea, e in qualunque del Comitato esecutivo e del Ministero, esamineremo anzi tutto e con massima cura le attinenze che avrà col bene comune d'Italia, con la guerra del riscatto e col bisogno e l'aspettazione del patto confederativo; poi con le condizioni particolari di queste nostre provincie, e sempre con gli eterni principj della moralità, della libertà e della giustizia.

Gli uomini passano, le istituzioni non buone si posson mutare, le leggi oppressive abrogare. Ma le basse cupidigie [408] svegliate, il credito affatto spento, i nodi ministrativi disciolti, ogni principio d'autorità sbandito, il dispotismo sotto nome di libertà, le coscienze violentate, l'odio, il sospetto, la diffidenza, la discordia in ogni canto seminate, sono mali tanto peggiori e più profondi e durevoli, in quanto che rendono inefficaci e tardivi i rimedj, e corrodono e guastano la tempra stessa degli animi e la probità universale, che è il primo e l'ultimo fondamento del viver civile.

Il tempo è giunto che l'opinione dei moderati si mostri aperta ed intera, smettendo le reticenze ed i blandimenti. Tempo è giunto che la lor falange numerosissima raduni e stringa ordinatamente le proprie file, e proceda innanzi a bandiere spiegate, usando per la sua Causa, che è la Causa d'Italia, quell'attività e quel coraggio che gl'immoderati adoperano per la loro.

Tuttociò, rispetto al generale sistema, e alla franca e ferma ragione di Stato che noi professiamo. Venendo ai casi del dì d'oggi, il che vuol dire alla guerra santa di già scoppiata, le parole e i pensieri nostri non possono nella sostanza differire in nulla da quelli d'ogni buon patriota e d'ogni vero italiano, qualunque sia l'opinione e il partito al quale s'accosta. La guerra è il gran fatto, il nobile scopo, il supremo interesse di tutti; e quanto l'opera della penna, quanto l'ufficio d'un'effemeride la può ajutare e giovare, tanto sarà da noi praticato con sempre viva e premurosa sollecitudine. A noi non istanno in cuore gelosie e sospetti dell'altrui fede ed ingrandimento, nè si fa gravosa e terribile alcuna delle conseguenze della vittoria. Non potrà Carlo Alberto profittare mai tanto de' suoi trionfi per sè e pel monarcato, che non riesca infinitamente maggiore il bene e il profitto recato dalla sua spada all'Italia, dandole seggio fra le nazioni, e arbitrio e impero sopra sè stessa.

(Dalla Speranza dell'Epoca.)

[409]

DEL PARTECIPARE ALLA GUERRA LOMBARDA.

27 marzo 1849.

Jeri dal rappresentante del popolo Pietro Sterbini era consigliata l'Assemblea di non punto inviare in Lombardia le nostre milizie, se il governo di Piemonte non dichiarasse prima di riconoscere la nova sovranità della Repubblica Romana. A questa opinione singolarissima noi non avremmo neppur pensato di contradire, se non ci fosse da più bande riferito, tale essere altresì la sentenza del Comitato Esecutivo, o almeno di parecchi de' suoi. Nè per questo, vogliam credere ancora allo strano proponimento. Imperocchè troppo doloroso riuscirebbe all'animo nostro di vedere Roma ed il suo governo in sì basso stato caduti, da patteggiare e mercanteggiare, quando trattasi del riscatto de' nostri fratelli, trattasi dell'indipendenza italiana, anzi di questa medesima libertà nostra, che siam gelosi di dilatare e di mantenere.

E che? la guerra di Lombardia è forse agli occhi dei Triunviri una faccenda monarchica, e non una guerra nazionale e italiana? Se il re Carlo Alberto fu primo a sguainare la spada per la patria comune, gloria a lui in perpetuo, gloria a' que' generosi che fra i cimenti e i pericoli lo seguitarono. Ma ciò non toglie l'obbligo formale e rigoroso a noi tutti di accorrere, almeno secondi, alla comune difesa.

E che? dopo avere sì altamente gridato la guerra del popolo, e riempiuto di frasi magnifiche gazzette e proclami, macchina forse il governo della repubblica di vilmente disertare dalla Causa Nazionale? No, noi ci ostiniamo a non crederlo, e respingiamo con grave sdegno le parole acerbe e ingiuriose che ne' giornali di Francia scagliavansi sopra il Mazzini ed i suoi seguaci, accagionandoli di codardia, e di cessarsi ognora dal luogo dove ferve il combattimento e sovrasta il pericolo. A noi sovviene con gran diletto, come parecchi fra loro marciassero alla guerra lombarda, e d'ésservi prove di bel coraggio e di ardore vivissimo per la indipendenza comune. Ma ora ch'elli soli timoneggian lo Stato, ora [410] che desso il Mazzini col voto unanime dell'Assemblea viene acclamato cittadino romano, e ch'egli è tantissima parte dei pensamenti e provedimenti del nostro governo; che cosa farebbe dire e opinare di lui, che cosa de' suoi proseliti, quando Roma e chi la regge non operasse a questi giorni con la prestezza, lo zelo e la veemenza, che il rinnovarsi della terribile lotta ricerca e vuole dagl'Italiani?

Un sol ricordo daremo al Governo, ed è questo: che se Roma e le sue provincie lasciarono buttare a terra la potestà temporale dei Papi a cagione principalmente che non sembrò fervorosa e infiammata abbastanza per la Causa Nazionale, non rispetteranno certo il potere e i diritti della Repubblica, s'ella mostrerà o lascerà indovinare la benchè menoma esitazione ad ajutare con tutte le forze e tutto lo ingegno la santa guerra Italiana.

(Dalla Speranza dell'Epoca.)

SULLA VERITÀ NELLA POLITICA.

28 marzo 1849.

Una sentenza magnifica si va ripetendo da molti; e questa è, che il fondamento d'ogni sistema politico e d'ogni forma di governo debb'essere la verità. Noi pigliamo volentieri in parola tutti coloro che pronunziano e propagano oggi con gravità e sussiego, tale aurea sentenza, e desideriamo forte che i fatti non vengano a contraddirli giammai. Intanto prenderemo arbitrio di far loro qualche discreta interrogazione, per levar di mezzo i dubj e gli scrupoli che ci molestano, e forse contro ragione.

E prima, chiederemo se certi repubblicani, quando parlano di libertà, esprimono il vero od il falso; perchè da una parte accusano ogni governo costituzionale di fondarsi sulle finzioni, e d'impedire e sopprimere molte preziose franchigie; dall'altra, pervenuti essi al comando e póstisi alla prova del maneggiare lo Stato, si vede troppo sovente che la violenza occupa il luogo del diritto. Chiediamo di poi, se operandosi e [411] favellandosi sempre in nome del popolo, qualora la grande pluralità di questo o non curi o dissenta o dispregi, sia mettere innanzi una verità od una menzogna. Chiediamo se lo spacciare per effettivo e legittimo il suffragio universale, qualora in moltissimi luoghi consista nel voto di poche dozzine di uomini, e in altri venga indettato e manipolato dai capi soli di un partito, non debba considerarsi come una certa e patente finzione. Chiediamo se le ballottazioni e se gli scrutinj parlamentarj, eseguiti con pochissima libertà e sotto l'influsso prepotente e continuo di un clamoroso uditorio, debbansi reputare sinceri e spontanei, o rassegnare anch'essi più giustamente nel novero delle finzioni. Chiediamo se l'imporre ad un popolo alcuna forma di politico reggimento, alla quale si sa e vede che la più parte di lui mal volentieri aderisce, e per la quale non è per niente apparecchiato e disposto, sia un recare ingiuria alla verità od un soddisfarla. Infine, ci sentiamo astretti di chiedere con istanza e premura, se da un lato il gridare guerra e indipendenza della patria comune, e dall'altro il produrre uno stato di cose che a quella guerra non si confà, e sturba e difficulta l'unione di tutti gli animi, venga a fondare la Causa italiana nel vero o nel falso.

Noi frattanto non taceremo, che da questo cumulo appunto di dissimulazioni e menzogne nasce lo sconforto e il disdegno generale dei buoni; perlochè temiamo con gran ragione che il popolo se ne stanchi, e pigli ad odiare ed a fastidire la libertà; od almeno si lasci andare al dubio, all'indifferenza, all'irrisione e allo scherno, rinfacciandoci mille superbe promesse, e gridando ad una voce: d'ogni cosa i liberali ànno mentito; promettevano la libertà e ci dierono la violenza; promettevano un buono e santo governo, e ci dieron lo scredito, la povertà, la discordia e l'universale scontentezza.

(Dalla Speranza dell'Epoca.)

[412]

INVITO ALLA CONCILIAZIONE.[41]

3 aprile 1849.

Poc'arte e poca dissimulazione bisognerebbe affine di dare al nostro Periodico una sembianza vistosa e gradevole a tutti coloro i quali può la sventura d'Italia mettere in grado fra breve di dispensare dignità ed onori. Ma nessun'arte, nessuna dissimulazione si occulterà mai nelle nostre parole; a cagione che l'intento a cui miriamo è purissimo, e non abbiamo chiesto nulla e nulla aspettato da verun partito. Pregati alcuni di noi e sollecitati a condurre a bene la cosa pubblica, il fecero con lealtà e zelo, usando temperanza e longanimità, insino al punto che non ne venivano offesi i principj da lor professati; ed onesto fu l'uscire come l'entrare, perchè l'orgoglio e l'ambizione non daranno mai crollo alle nostre coscienze. Già disse un Greco, essere troppo rara fortuna veder salire la filosofia accanto al seggio de' principi. Noi diciamo che altrettanto è raro veder salire la libertà vera e compiuta accosto al seggio d'ogni maniera di governanti; perchè, in genere, le passioni, gl'interessi ed il fanatismo così avversano la libertà, come s'insinuano di leggieri nel cuor de' potenti. Da questo deduciamo, che sarà forse ufficio nostro perpetuo lo sgradire ai dominanti e censurarne le opere; ma non muterà per ciò la Impresa che noi scegliemmo, e nella quale sta scritto a grandi lettere d'oro: Tutta la libertà, e per tutti. Ciò basti a significare con piena sincerità e franchezza le nostre intenzioni, delle quali peraltro crediamo istruito e persuaso ciascuno che ci conosce. Il sindacato ch'esercitiamo sugli atti di coloro da' quali al presente riceve il nostro paese e leggi e comandi, non vuol ferire le persone, e non dubita del buon volere. L'inesperienza, la giovinezza, l'accensione dell'animo, l'esorbitanze della fazione contraria scusano per avventura fra noi la più parte dei neo-montagnardi, che, senza troppo avvedersene, menan le cose alla peggio. Ma ci è forza di accusare e di rampognare i frequenti e gravissimi loro sbagli, affine che il popolo, affatto nuovo alla vita [413] politica, odiando la licenza, non odii la libertà, e non confonda la interezza e generosità dei principj con l'uso improvido che alcuno ne fa. Del rimanente, noi sappiamo distinguere i tempi ed i casi; e quella nuda schiettezza di parole o acerbità di giudizio che jeri conveniva assai bene contro la baldanza e la presunzione, può disdire quest'oggi, che le vicende, pur troppo, sono mutate. Noi, certo, non insultiamo la sventura e l'abbassamento di alcuno, non solo perchè è la pessima delle vigliaccherie, ma perchè insulteremmo eziandio noi stessi, colpiti quanti altri mai e crudelmente trafitti dal comune infortunio. Sventura grave non è che una forma di governo perisca, ovvero che tali uomini invece di tali altri ascendano in alto e braveggino. Ma sventura somma e terribile è che la santa Causa Italiana pericoli d'estrema ruina nei campi della Sesia. E tanto siamo alieni dalla volontà di redarguire e recriminare, e dallo spargere tossico sulle ferite dell'animo, che a noi sembra nessun cittadino essere in fatto esente di colpa, e tutti dover confessarsi di molti errori in faccia alle nuove sciagure d'Italia. E che? i moderati ànno forse molto meno degli altri fallito? Ma se nella schiera numerosissima de' moderati fosse comparso di buon'ora quel coraggio civile, quella vigorezza assennata, e quel risolvere pronto e reciso che alle dure emergenze de' tempi si confaceva, sarebbe forse l'Italia trascorsa agli estremi? avrebbero avuto voce o séguito gli ultra-democratici? Sarebbesi ogni cosa empiuta di sospetto, di diffidenza e di confusione? Adunque, candidamente si dica: Iliacos intra muros peccatur et extra; e siamo l'uno inverso l'altro indulgenti e benigni. Purghiamo i nostri affetti e le nostre opinioni nel comune dolore. Poco è naturale, ed anzi impossibile, che scordando affatto noi stessi, e solo pensando e lacrimando d'Italia, Dio non ispiri le menti nostre, e non le consocii e affratelli in qualche concetto salutare, in qualche generosa risoluzione, che a tutti i buoni Italiani debba ugualmente gradire, e venir da tutti voluta e operata con quella pronta efficacia che le paurose necessità della patria dimandano.

(Dalla Speranza dell'Epoca.)

[414]

SULLA GUERRA DE' NAPOLETANI CONTRO I SICILIANI.

5 aprile 1849.

In quest'ora medesima che noi scriviamo, la guerra, anzi il fratricidio di Napoli contro Sicilia è già forse incominciato. Avvenimento funesto, e pel quale non si può formar voto e augurio buono e sincero! Vittorie e disfatte sono deplorabili in egual modo, e le bandiere che vi si spiegano debbono andar tutte coperte di negri veli, come dietro i funebri cataletti. A noi muove gran meraviglia che alcune gazzette italiane ne parlino come se non fosse guerra civile; come se il risultamento finale, qual ch'egli sia, non debba crescere di necessità fra i due popoli l'odio, la rabbia e il comune servaggio, e una sete profonda ed abbominevole di mutua vendetta.

Incredibile a dirsi, il medio evo non è peranco finito in Italia. Si mutino solo le date, e crederemo di assistere alle battaglie infami di Chiozza e della Meloria. Appena un poco di libertà è ricomparsa in Italia, che noi scelleratamente ne profittiamo per lacerare le viscere della patria, là con l'aperta guerra dell'armi, qua con l'occulta delle fazioni. E, per nostra maggior vergogna, quel coraggio ostinato e quel furore di popolo che mal sappiamo suscitare ed adoperare contro gli Austriaci, mostrasi vivo e terribile nel civile conflitto.

In Gaeta è un venerando personaggio a cui debbono più che ogni altra cosa del mondo muover dolore ed orrore le guerre fraterne degli Italiani, i primogeniti della Chiesa. Perchè non esce dal suo ritiro, perchè non entra coraggioso fra i due popoli contendenti, perchè non tenta con l'augusta presenza sua di far cadere d'ambe le parti le armi inique e crudeli? Èvvi ufficio più degno del Gran sacerdote? Èvvi coraggio e ardimento speso in causa migliore e con migliore speranza di bene? Chè quando, per cagioni a noi sconosciute, gli sia impossibile di ciò fare e tentare, non sostenga almeno di rimanersi testimonio quasi incurante e impassibile di tante colpe e miserie italiane.

(Dalla Speranza dell'Epoca.)

[415]

DEL MODO DI AJUTARE LA GUERRA.

6 aprile 1849.

Nei pericoli estremi della patria comune conviene attutire ogni discussione che non miri alle armi e alla guerra. Ogni governo, purchè sia Italiano e la guerra Italica ajuti di cuore, dee venire obbedito con lealtà e speditezza. Ai sonori proclami, alle enfatiche declamazioni sia fine. Mano ai fatti; e le parole si spendano solamente a suggerire opere utili daddovero, e a consigliare alcun partito praticabile e pronto. Che si può quest'oggi medesimo mettere in atto per ajutare i Piemontesi in modo efficace e sollecito? Ecco, a nostro avviso, l'oggetto principalissimo, ed anzi unico, nel quale dobbiamo occuparci. Apparecchi nuovi, nuovo ordinamento di nostre schiere, metodi migliori d'istruzione guerresca, e simili cose, come sono desiderabili e ottime, così al presente giungebero tarde ed inopportune. Quante milizie regolari, quante guardie mobilizzate, quanti volontarj abbiamo, si mandino tutti oltre Po a congiungersi con le truppe del General Pepe; si mandino a lui subitamente per via di terra o di mare, secondo che torna fattibile. Se l'armistizio non è accettato e la guerra prosiegue, egli ne farà buona cerna, e i meno atti a combattere porrà a difesa della città di Venezia e a guarnigione nei forti; gli altri menerà seco a più ardite fazioni. In tal guisa il Pepe, avendo possibilità di condurre contro al nemico meglio di venti mila uomini scelti e bene ordinati, recherà gagliardo soccorso all'esercito subalpino, o promovendo la sollevazione del Veneto, o assaltando alle spalle alcun corpo smembrato d'Austriaci, o in più altri modi; perchè parecchi ne può scegliere, e, secondo le circostanze, cambiare le mosse e gl'intenti. Appigliamoci a questo disegno, che è il solo proporzionato alle nostre forze, confacente allo stato di nostre truppe, atto eziandio a impedire l'invasione delle Romagne, e che ricerca per eseguirsi nè molto danaro nè molto tempo.

(Dalla Speranza dell'Epoca.)

[416]

SULLA PENA IMPOSTA AI CANONICI DI SAN PIETRO.

11 aprile 1849.

Abbiamo, non con le parole soltanto ma col fatto cotidiano, mostrata la risoluzion nostra di non crescere la scontentezza e inasprir le passioni con quelle gravi censure che le pubbliche cose meriterebbero. Ciò nonostante, quando i principj stessi pericolano e l'opinione universale degli uomini può venir pervertita, parlare è necessità; e noi il faremo con quella schiettezza che la verità e la giustizia prescrivono, e con quella moderazione che la temperie dei tempi e consiglia e comanda.

Leggesi nel Monitore di jeri un decreto dei Triumviri, col quale i canonici del capitolo Vaticano sono accusati, condannati e puniti, per avere reiterato il giorno di Pasqua il rifiuto di prestarsi alle funzioni sacre, ordinate dal Governo. Il decreto chiama criminosa cotale ripulsa. È dunque materia non pure di polizia correttiva, ma di giustizia penale e di Corte d'Assise, come direbbesi in Francia. Dopo ciò, vennesi da noi cercando nel foglio, così l'atto d'accusa e il compendio del processo, come la sentenza formale dei giudici, l'allegazione del testo delle leggi rispettive violate, e l'applicazione della pena. Ma il foglio tace di tutto questo, ed è notorio all'intera Roma, che nessun atto di tribunale e nessuna specie ordinaria o straordinaria di giudicio à qui avuto luogo. Or come? s'incolpa e si taglieggia una congregazione intera e numerosa di ecclesiastici senza veruna formalità e legalità di giudicio; e da quelle persone medesime da cui move l'accusa, move altresì la condanna e la punizione? Ma in qual mondo siam noi? nel bel mezzo d'Europa, nella civilissima Roma sotto il più libero de' governi, ovvero in alcun pascialatico della Romelia o dell'Asia Minore?

Una cosa, intanto, è certissima: che, cioè, qualora il dritto comune stato fosse rispettato, e avessero i magistrati ordinarj assunto, secondo lor debito, di conoscere e giudicare l'incolpazione, sarébbene uscita di necessità una sentenza [417] di pienissima assoluzione. Imperocchè nessuna nozione di dritto, nessuna massima di gius publico, nessun principio di equità e di naturale giustizia, indurrà mai il retto e imparziale giudice a riconoscere in alcun cittadino il perfetto dovere civile di compiere certi atti di culto, e recitar certe preci a tal giorno, a tal'ora, per comando di chicchessia. E siamo noi che pigliamo arbitrio di chiamar criminose siffatte ricuse! noi propugnatori d'ogni libertà, noi banditori dell'inviolabile diritto delle coscienze!

E dopo tanto gridare contra ogni maniera di materiale costringimento in fatto di religione, noi stessi diamo ora l'esempio della violenza; e non tolleriamo che altri neghi di porger mano ad un'opera spirituale per timore, o giusto od erroneo, di commettere fallo dinanzi a Dio? Guardando all'intimo della cosa e non agli esterni accidenti, in verità che pochissima differenza si scorge tra queste nuove multe e condanne, e le carceri e gli altri cruciati del Sant'Uffizio; e tanto esce dal dritto e dall'equità il prete il quale usa come argomento di persuasione la forza esteriore, quanto il magistrato civile che pretende con la corporal forza di astringere il prete ad un atto di culto e di mera pietà religiosa. Nella fede e nel culto vive ed opera (chi non lo sa?) un intelletto ed una natura morale e spontanea, e però abborrente da coazione; e la storia del medio evo è piena di sangue e di lacrime, appunto per avere così i principi come il clero dimenticata o disconosciuta, ciascuno dalla sua parte, una tanto solenne e salutifera verità.

Noi di quelli non siamo che disperano facilmente dell'efficacia dei principj, e credono la libertà e la giustizia essere piuttosto un nobile desiderio de' buoni che un'asseguibile realità. Confessiamo pur nondimeno, che questo veder ripetuti gli errori antichi, e ripetuti da coloro che senza dubbio professano massime affatto opposte, ci perturba e ci affligge più che mediocremente.

La salvezza pubblica è grande e famosa parola, e può di molti arbitrj e di molte fiere deliberazioni essere causa e scusa ad un tempo. Ma non si pronunzino almeno in simili casi i nomi di colpa e di pena, di virtù e di dovere; perchè [418] nessuna potenza e nessuna necessità umana potranno alterare e scambiare giammai la indefettibile essenza della verità e del diritto, di ciò ch'è innocente e di ciò che è reo.

(Dalla Speranza dell'Epoca.)

STUDJ SUL PROGETTO DI COSTITUZIONE DELLA REPUBLICA ROMANA.

I.

21 aprile 1849.

Nel disegno di Costituzione che jeri l'altro fu letto dal deputato relatore signor Agostini, molte cose riescono di necessità le medesime che in altri Statuti fondamentali; ma parecchie sono nuove, o, a dir meglio, sono innovate e ringiovanite. Ai compilatori del Progetto è sembrato convenevole, che trattandosi di ordinare e dettare una Costituzione repubblicana in Roma, dovessero ricomparire alcune di quelle forme politiche, venerande di antichità e di gloria, le quali governavano dal Campidoglio tutto il mondo civile. Perciò, parecchi concetti e ricordanze classiche, come direbbero i letterati, campeggiano in questo disegno di legge costitutrice. I Consoli, il Tribunato e i Comizj vi sono risuscitati non solo nel nome, ma, in qualche porzione almeno, eziandio nel fatto. La questione sta a definire se quelle forme vetuste e dagli uomini (rispetto all'uso) dimenticate, posson o tanto o quanto ripigliar vita e recare profitto. Appresso i Romani, Consolato, Tribunato e Comizj erano parti d'un gran tutto bene insieme congegnate e connesse, prodotte e compite dalla invisibile azione del tempo e dalla lenta conciliazione degl'interessi, e conformate a poco a poco alle singolari e non più ricomparse condizioni di quel popolo miracoloso. Tentare oggi di ricondurle fra noi, benchè a pezzi e frammenti, si è come incastrare nella basilica di Firenze un colonnato di Vitruvio, e porre a riscontro del Mosè di Michelangelo l'Apollo del Belvedere.

[419]

Oltre di che, ogni pensatore politico è persuaso quest'oggi, che le antiche istituzioni si reggevano molto di più per l'efficacia dei costumi, che per la virtù e maestria delle leggi; e più assai per la forza della religione e dell'uso, che per la sapienza ordinatrice interiore. Per contra, l'età nostra procaccia di supplire con l'intima bontà delle leggi e degl'istituti al difetto delle tradizioni e all'inefficacia de' costumi. I tre libri De Republica scritti dal dottissimo dei Consoli e giaciuti occulti per tanti secoli, poi ritornati inopinatamente alla luce, non ànno niente di più ajutato gl'ingegni a capire e scoprire la economia del governo romano; quella economia intendiamo che induceva effetti e compiva imprese maravigliose a tutto il mondo moderno.

Due consoli in Roma stavano più che bene, e facevano gran profitto alla cosa pubblica, perchè studio cotidiano di quella città erano la guerra e la conquista. Laonde, il più del tempo, l'uno de' consoli guidava gli eserciti, l'altro provvedeva ai negozj civili. Spartivansi parimente fra loro non pur gli ufficj, ma le provincie; e con siffatti temperamenti, e forse con molti altri che mal conosciamo, evitavasi la discettazione e il conflitto in fra due persone investite di egualissima potestà e incumbenza.

Ma i due consoli di questa nostra repubblica, nessuno intende come faranno a procedere sempre d'accordo. Il sì dell'uno vale quanto il no dell'altro, nè più nè meno; e come la legge non partisce fra loro nessun officio e nessuna giurisdizione, così quell'altercazione del sì e del no può insorgere ad ogni momento e per ogni cosa, e non è provveduto alcun modo di farlo cessare.

Manco male, se i consoli venissero eletti dall'Assemblea; perchè quivi i rappresentanti più savj e sperimentati potrebbero convenire, e dare i suffragj a persone il men che si può disformi di genio, d'opinione e di scienza. Ma i consoli, giusta il disegno, escono essi pure dallo scrutinio popolare; quindi, per li diversi umori delle provincie, accadrà sovente di vedere appajati uomini differentissimi. E neppure è lecito di credere che la stanchezza e la noja ovvero l'urgenza dei casi costringali a cedere l'uno all'altro secondo i [420] tempi e gli accidenti, o a convenire in continui mezzi termini per giungere a qualche atto e deliberazione comune. Imperocchè, sopra que' poveri consoli pesa una sì tremenda e incessante malleveria, da spegnere qualunque buon desiderio di mezzi partiti e di mutua condiscendenza. Nelle altre Costituzioni sono i parlamenti che tengono arbitrio di sottoporre a un'imputazione criminale i capi non inviolabili del Governo; ma nella nostra, ogni cittadino può con un semplice suo memoriale promuovere l'accusa e la condannagione dei consoli. Nè solo debbono essi render ragione delle faccende della repubblica ad ogni sei mesi, e quante volte sieno dall'Assemblea ricerchi di ciò; ma usciti appena d'uffizio, vengono per disposizione suprema di legge posti a sindacato dai Tribuni, i quali possiedono facoltà di tradurli di poi in giudicio. In Francia, presidente e ministri incontrano tutt'insieme una pari obbligazione di mallevare; ma la nostra Costituzione fa imputabili di colpe di stato i soli due consoli, e ogni mancamento de' primi ufficiali del Governo rovesciasi loro sul capo.

Abbiamo finito? non già, perchè riman di notare in questo medesimo subbietto un altro grave disconcio. Conforme il disegno di cui parliamo, ogni anno all'uno dei consoli tocca di uscire di magistrato, e vien supplito dal console nuovo. Per tal guisa, colui che rimane, dopo avere per avventura assai faticato e sudato a comporsi nelle massime e nella pratica col suo collega, dee ricominciar l'opera e la fatica con l'altro che sopraggiunge; al quale altro avverrà dopo un anno la sorte medesima; e così senza fine. Oh Consolato degno di poca invidia e di molta commiserazione!

II.

23 aprile 1849.

La vita politica delle nazioni, simigliando a quella dei corpi animati, non può sussistere nè prosperare senza un artificioso contrasto delle sue parti. Ma il contendimento in fra esse debb'essere tale, che invece di uscirne la disgiunzione e la distruzione, e invece che le virtù e le forze contrapponendosi [421] vengano a sminuire e cessare, moltiplichino per lo contrario la lor vigorezza e la loro efficacia, e compongano, quasi a dire, una discorde concordia, piena di varietà e di ordine insieme.

L'arte, pertanto, dei filosofi politici consiste a trovare una felice e durevole antagonía (mi si conceda il vocabolo) delle forze civili, donde provenga continuamente l'ampliazione e la sicurezza delle libertà pubbliche e del comune perfezionamento. Per contra, quelle costituzioni in cui signoreggia un solo principio e una sola forza qualechessia, portano entro sè la cagione dello scadimento e ruina propria. Le monarchie assolute appena ebbero consumate le reliquie della feudalità e ogni specie di gerarchia interposta tra esse e il popol minuto, soggiacquero alla violenza di ripetute sollevazioni, e cessero il luogo ai governi rappresentativi. Per simile, le aristocrazie di Venezia e di Genova, dopo avere in sè accumulata ogni potestà ed ogni diritto, si disfecero nella dissolutezza e nell'ozio. L'aristocrazia inglese, in quel cambio, ponendo argine a sè medesima e alla sua prepotenza con la Camera dei Comuni e con altre popolari franchigie, non solo è ancor sussistente e gagliarda, ma non sembra dar segno nessuno di decadenza e di prossimo disfacimento. Grande errore farebbe colui il quale stimasse che i governi popolari vadano esenti da questa legge. I Fiorentini, quando ebbero divelto dal seno loro ogni ordine di patriziato e ogni autorità senatoria, e raccolto tutto il potere in mano delle Arti, non perciò si quietarono, ma si divisero in sètte più numerose, e la città e lo stato riempirono di tumulti e sollevazioni.

A coloro, impertanto, che si travagliano di ordinare e costituire in maniera durevole le moderne democrazie, debbe star ferma in pensiero cotesta massima fondatissima: di non permettere che la forza e autorità popolare non abbia contrasto legale alcuno, e la vita così politica come civile non esca sempre rinnovata e rinvigorita da un ben congegnato sistema di antagonía.

A rispetto di ciò, debolissima e molto pericolante, a credere nostro, è l'ultima Costituzione di Francia, e sarà tale [422] qualunque altra le voglia rassomigliare. Quivi una sola è la fonte e l'emanazione di ogni dignità e di ogni potere; senza che alcuna prescrizione di legge od ufficio di magistrato curi e provveda se non a impedire, almeno a scemare notabilmente gli sconci assai gravi che il suffragio universale conduce seco, e i quali dal lato degli elettori sono principalmente la volubilità, l'ignoranza e la seduzione. Quivi una sola assemblea, originata da quel suffragio, fa e delibera tutte le leggi e ne veglia l'esecuzione. Quivi il capo del governo trae l'autorità e l'ufficio suo transitorio dallo stesso popolare scrutinio; e non possiede per moderare alcun poco la onnipotenza dell'assemblea verun altro mezzo, che farla richiedere dai ministri entro il termine solo di un mese, di voler sottoporre a nuova deliberazione la legge per innanzi approvata; e può l'assemblea non accedere alla domanda. Quivi, pertanto, è una sola ed unica potenza e dominazione, la volontà delle moltitudini; le quali di lor natura, come dicemmo, riescon voltabili e passionate, nè si posson difendere quanto è bisogno contro la propria ignoranza e l'altrui seduzione. Ora, nessun rimedio à trovato la Costituzione nuova francese ai difetti e all'eccesso del regno assoluto delle moltitudini, e alle esorbitanze del parlamento che discorre ed opera in nome di quelle. Tutt'i poteri sono soverchiati continuo da una forza incircoscritta e infrenabile; e l'antagonía salutare della vita politica è sciolta e annullata.

In America, alla prevalenza cieca del numero e all'arbitrio pieno del popolo minuto contrasta primamente la forma di governo confederativo; la quale induce meno impeto nel consiglio e nell'opere, e commette al congresso centrale la sola trattazione degl'interessi effettivamente comuni, e però assai più larghi e meno mescolati ed intorbidati di passioni e preoccupazioni. Secondamente, l'abbondanza inesauribile del lavoro e l'alto prezzo delle mercedi, fa la plebe di necessità meno inquieta ed astiosa, e ne' suoi pensieri e suffragi più temperata. In terzo luogo, ognun sa che la potestà legislativa è spartita in America tra la Camera dei Comuni e il Senato, e che non procedono entrambi dal suffragio universale, nè sono eletti con una medesima ragione [423] proporzionale; imperocchè il Senato componesi secondo il numero degli Stati, e la Camera de' Comuni secondo quello dell'universale popolazione. E similmente, non dal suffragio delle plebi, ma da certo modo particolare e ristretto di eleggere, esce il nome del presidente a ciascun quadriennio.

Ora, non sussistendo nulla di tutto ciò in Francia, egli occorreva di speculare e indagare altra natura di spedienti e altra efficacia di rimedj: il che non fu fatto nè procurato.

Ai degnissimi cittadini che lungamente meditarono l'idea della Costituzione romana, sembra che siffatti pensieri e difficoltà o non sieno sorti nell'animo, o non li abbiano piegati ad altre cogitazioni e risoluzioni. Certo è, che nel lor disegno di legge fondamentale incontrasi, come appunto nella francese, una sola assemblea, una sola forma di elezione, una sola origine di autorità e di potere. Ma in Francia ogni proposta accolta nel parlamento dee, per avere forza di decreto, venir messa a partito e vinta tre volte consecutive; e oltre di ciò, il presidente, innanzi della promulgazione a lui affidata, possiede come notammo, la facoltà di richiedere una quarta e ultima deliberazione. Giusta il disegno di Costituzione di cui parliamo, un consimile temperamento può venire usato dai Tribuni. Di questi, adunque, diremo un po' alla distesa, e con sempre uguale franchezza e sincerità di discorso.

III.

25 aprile 1849.

Chiunque ricorda il tribunato romano antico, pensa una tremenda magistratura che, per effetto delle sue interdizioni, de' suoi giudizj e de' suoi plebisciti, non solo la forza contrappesava e l'autorità del Senato, ma non di rado soprapponeva il diritto e la volontà della plebe alle giurisdizioni e alla potenza di tutto l'ordine dei patrizj. Nel nostro Progetto dì Costituzione il tribunato è cosa molto più innocente e leggiera, e tra tutti gli ufficj della repubblica è del sicuro il più scioperato ed agevole; tanto che sembrerebbe costituito per serbare in Roma alcuna memoria e figura dei Benefizj Semplici, [424] quando il tempo e i costumi li sopprimessero. Per vero, ad esso non è attribuito altro incarico peculiare e continuo, se non quello descritto dall'articolo 33, con queste formali parole: «Sopra le leggi adottate con maggioranza minore di due terzi, possono i tribuni richiamare il suffragio dell'assemblea; e se dopo la seconda discussione sono adottate con meno di tre quarti di suffragi, i tribuni hanno il diritto di richiamarle a nuova discussione. Dopo la terza discussione, se la legge è adottata a qualunque maggioranza, viene eseguita.»

Nella proposta neppure è indicato l'idoneo modo col quale il tribunato esercita cotal suo diritto; cioè se il debba mettere in atto per messaggio all'assemblea, o se per organo dei consoli od altri primi ufficiali, ovvero presentandosi egli medesimo nel parlamento, e quivi annunziando essere sua volontà che la discussione di tal legge o di tal altra, benchè compiuta, si rinnovelli. Ma certo è che la legge fondamentale non gli fa obbligo nemmeno di significar le ragioni ond'è mosso a chiedere la rinnovazione dei dibattimenti e la prova del bossolo.

Ciascun vede, pertanto, che comoda magistratura sia quella del tribunato, scarica affatto di pensieri e di occupazioni, e non dovendo ragione ad alcuno del proprio operato; imperocchè ella sola, secondo la proposta, non incorre in veruna malleveria, e non riconosce potere alcuno che le stia sopra.

Dicemmo nel primo Articolo, che in questo disegno di legge fondamentale, chi porta davvero un basto ingrato e pericoloso, sono que' tapinelli de' consoli: onde qui Cicerone non avrebbe per lo certo di che compiacersi oltremodo, e non morderebbe sì spesso ne' suoi discorsi que' tanto numerosi e protervi qui honori inviderunt suo. E si avverta di passata la ingiusta parzialità che interviene tra i consoli ed i tribuni. La proposta di Costituzione prescrive nell'articolo 22, che i consoli debbono conseguire nei generali comizj non meno di centomila suffragi; ai tribuni basta la pluralità ordinaria; e ciò non pertanto i consoli sottostanno al sindacato dei tribuni. Questi poi, come i prediletti e i beniamini [425] dello Stato, sono mantenuti e spesati dalla repubblica; del mantenimento dei consoli la Costituzione non parla: eppure la lor bisogna e la briga è grandissima; quella dei tribuni è pressochè nulla. Onde ci par di sentirli ogni giorno, desinando nel nuovo Pritaneo, sclamare per gratitudine: Populus nobis hæc otia fecit.

Ma, rivenendo al primo proposito, egli si può dire che l'officio sopradescritto del tribunato poco importa al corpo da' cittadini se riesce lieve o gravoso a chi lo sostiene, quando torni in effetto di gran momento e di gran salute per la repubblica. Ma qui appunto la mente nostra si smarrisce in cercando i principj e le massime che ànno condotto i compilatori della proposta ad immaginare questo lor tribunato; il quale è inopportuno e soverchio per un rispetto, e per un altro è inefficacissimo e vano. Soverchio, all'intento di conseguire nuove discussioni e nuovi scrutinj, e soverchio altresì, come vedremo più tardi, per sindacare l'azione dei consoli; inefficacissimo e vano, per porre limitazione alla prepotenza popolare, e introdurre nello stato una saggia e provvida antagonia; inefficacissimo, infine, per mantenere nella repubblica una giusta misura fra i due elementi costitutivi d'ogni progresso civile, la conservazione vogliam dire e l'innovazione.

Tanto è discosto da verità, che l'ufficio di domandare una discussione nuova esiga la creazione di una sì alta e insigne magistratura qual'è il tribunato, che in Inghilterra viene a ciò soddisfatto e supplito da un semplice articolo di regolamento parlamentare, e in Francia da una speciale prescrizione della legge costitutrice, là dove tratta delle pertinenze e funzioni dell'assemblea. Ma sì in Francia e sì in Inghilterra tale precetto di rinnovare i dibattimenti e dare più d'una volta i partiti, non ad altro serve, salvo che ad impedire la troppa sconsideratezza e precipitanza delle deliberazioni. Nè l'opera dei tribuni può recare in ciò maggior bene, eziandio per questa considerazione, che l'autorità loro appresso i deputati del popolo è men che mediocre, venendo eletti, siccome quelli, dagli stessi comizj e a pluralità ordinaria di voti: quindi, a rispetto del valore e dell'importanza morale, i tribuni agli [426] occhi dell'assemblea sono dodici contro dugento; sono dodici muti ed inoperanti, contro dugento che discutono e che risolvono.

Secondo la proposta, i consoli, terminato l'ufficio loro, ne rendono conto ai tribuni. A questi poi appartiene o approvarli o proporne l'accusa. Con ciò, non v'à dubbio, il tribunato ritroverebbe, una fiata almeno ogni due anni, qualche giorno di briga e di occupazione. Ma si consideri che innanzi a quel termine, ai consoli tocca per quattro volte di render conto all'assemblea dello stato de' pubblici affari; la qual cosa include di necessità l'esame e il giudicio minuto e specificato dell'opere loro: ed anche intralasciamo di ricordare che debbono i consoli ripetere punto per punto quell'atto, sempre che ciò venga nel desiderio dell'Assemblea.

Posto, dunque, ch'essi della ministrazione loro sieno usciti netti e incolpevoli, e niun cittadino gli abbia accusati od abbia potuto far giungere l'imputazione insino alla forma del giudicio, la quinta ispezione e indagine de' lor fatti e portamenti diventerà di leggieri, piuttosto che altro, una formalità ed una sovrabbondanza. In caso poi che il contrario avvenisse e proponessero i tribuni l'accusa dei consoli, l'assemblea sarà pochissimo disposta ad approvarla e continuarla; perchè moverebbe da gente non guari mallevadrice dell'atto, sprovveduta di autorità grande, chiamata a supplire i consoli per tutto il tempo del giudicio; e più ancora, perchè l'assemblea confesserebbe la incapacità propria e la negligenza, col non aver saputo o voluto prevenire i tribuni intorno al sindacare le azioni dei consoli.

Rimane di far parola d'una straordinaria incombenza data ai tribuni; d'invigilare e conoscere, durante la dittatura, se il pericolo della patria è cessato. Merita la cosa che noi ne discorriamo a più bell'agio nel prossimo foglio; e vedremo quanto curiosa e piacevole invenzione riesca questo aborto di Tribunato.

(Dalla Speranza dell'Epoca.)

[427]

SULLO SBARCO DEI FRANCESI A CIVITAVECCHIA.

26 aprile 1849.

Lo sbarco delle truppe francesi in Civitavecchia è avvenimento gravissimo, nel quale sta inchiusa una questione di fatto e una questione di alto diritto. Sebbene, in quanto al diritto, la parola questione è forse impropria ed equivoca; imperocchè, al sentir nostro, la violazione del diritto è patente, e non può muovere alcuna ragionevole controversia. Per ciò noi ringraziamo di cuore i Triumviri per avere prontamente e con solennità protestato; ed altre grazie avremmo ad essi reso, se per compire lo sbarco fosse ai Francesi tornato necessario il venire a qualche atto di forza e all'uso dell'armi, e i superiori e magistrati del luogo fossersi ritratti in Roma o in altra terra sicura, secondo che in simiglianti frangenti è costume di fare. Sì nel proclama dei Triumviri e sì in quello dell'Assemblea, per ciò che spetta all'invasione del territorio, sono adoperate parole piene di giusta indignazione e di romana alterezza. Ma ci avrebbe gradito assai che le legittime rimostranze non fossero unicamente state fatte nel nome nostro, ma di tutta la Nazione Italiana; perchè non è lecito mai di scordare che noi siamo provincia d'Italia e nobile parte del territorio nazionale comune, il quale gli stranieri ànno offeso e violato, offendendo e violando il nostro particolare. E in questi sensi per appunto fu dettata la protestazione del Ministero del 16 di novembre contro il minacciato invio di truppe francesi; in questi sensi parlò il ministro Mamiani al Consiglio dei deputati, i quali tutti nella sua sentenza convennero con pieni applausi ed unanime deliberazione.

Ma, salvato il principio, e fatto conoscere agli stranieri che alla Nazione Italiana se manca tuttora il nervo non manca il senso, e che l'altrui forza può bene opprimerla ma non ingannarla, nè indebolire in cuor suo la coscienza piena che à racquistata del proprio diritto, deesi considerare con gran diligenza la questione del fatto.

[428]

Noi preghiamo strettamente ogni buono e leal cittadino a ponderare con fermo giudicio, se nelle condizioni presenti d'Italia e nella disposizione più generale degli animi, e dopo cadute le armi subalpine a Novara, sia probabile o no di trovare mezzi copiosi, séguito e ardore di gente, ostinazione invitta e magnanima non diciamo per far trionfare il diritto, ma per difenderlo con dignità. D'altro lato, è grandemente mestieri di porre eziandio in esame, se la calata de' Francesi non abbia per cagion vera e impellente la necessità di prevenire altre violente occupazioni, ben davantaggio odiose e malefiche, e di gente nimicissima d'ogni libertà nostra e del sacro nome d'Italia. Uopo è di considerare se nel pericolo sommo in cui si travaglia la patria, e sul punto di naufragare e perire, non le corra debito di gettar via nell'onde qualche insigne parte del carico perchè tutto il restante si salvi. Infine, veggano e considerino gl'ingegni integri e imparziali, se in tanto bisogno di concordia e di fratellanza, non divenga ufficio doveroso e pietoso insieme di rimovere quelle poche cagioni di differenza che peranco insorgono in mezzo di noi, e impediscono che noi ci stringiamo tutti in un sol pensiere e ci affatichiamo in un solo studio, e il qual sia di campare ed assicurare alcuna porzione di libertà, e quanta almeno i nuovi infortunj d'Italia e la prepotenza degli stranieri ne posson lasciare intatta e sincera . . . . . .

(Dalla Speranza dell'Epoca.)

[429]

ELOGIO FUNEBRE DI RE CARLO ALBERTO

detto da Terenzio Mamiani nella Metropolitana di Genova il dì IV ottobre MDCCCXLIX.

[431]

In sul cadere di giugno del 1849, entrati i Francesi in Roma, e appresso a pochi giorni intimato insolentemente all'Autore di uscirne, egli si rifuggiva in Genova, dove ogni maniera di ospitali dimostrazioni e carezze lo accolse e riconfortò. In quel mezzo tempo, giunse nuova della morte di Carlo Alberto, e Genova si apparecchiava a riceverne le amatissime ceneri con riconoscente dolore e con funebre pompa. Allora fu scritta al Mamiani la seguente lettera:

«Chiarissimo signor Conte.

«Il Municipio di Genova, mosso dal desiderio di tributare un estremo omaggio di devozione riconoscente alla memoria del Propugnatore dell'Italica Indipendenza, del Monarca Legislatore, cui i Popoli Subalpini sono debitori dello Statuto, deliberava che in occasione del passaggio per questa città delle venerate spoglie di Carlo Alberto, gli fossero celebrati solenni Ufficii di espiazione nella Chiesa Metropolitana.

«Bramoso, oltreciò, il Municipio che i pregi e le azioni del Principe magnanimo e sventurato formassero in tal congiuntura il subbietto d'una Orazione funebre, e che i sentimenti da cui i Genovesi sono animati per Carlo Alberto fossero espressi da chi sapesse rendersi degno interprete d'un dolore che tutti i veri Italiani debbono partecipare, ebbe ad ascrivere a sua ventura che la presenza in Genova di un Terenzio Mamiani gli porgesse il modo più acconcio di soddisfare all'intento.

«Al Corpo Civico non solo son noti i meriti letterarii e scientifici che rendono la S. V. uno de' più specchiati ornamenti d'Italia, ma stanno dinanzi i servigi segnalati ch'Ella generosamente prestava alla Patria Comune, ed insieme il particolare affetto ch'Ella nutre per questa città, la quale tanto si pregia di essere da V. S. Chiarissima stata eletta a sede ospitale.

«Queste considerazioni determinando l'unanime assenso del Consiglio Delegato a commettere a V. S. l'incarico della Orazione da recitarsi dopo la sacra cerimonia, fanno concepir la fiducia ch'Ella [432] vorrà accondiscendere alla preghiera che per mio mezzo Genova tutta Le porge.

«Gradisca, chiarissimo signor Conte, l'attestato del riverente ossequio con cui ho l'onore di proferirmi

«Di V. S. Chiarissima

22 agosto 1849

Devotissimo Obbedientissimo Servo
Il Sindaco Antonio Profumo

L'Autore rispose:

«Signor Sindaco.

«Di tutti gli onori e favori segnalatissimi che questa Città insigne e ospitale si è degnata parteciparmi, il maggiore senza dubbio è quello che la S. V. mi proferisce col suo foglio di jeri, invitandomi nelle prossime esequie di Re Carlo Alberto a recitarne publicamente le lodi. Ragionare convenientemente di quel gran Personaggio, e farsi organo fedele e diserto del popolo Genovese in tanto suo lutto e dolore, è certo impresa da sgomentare non pure il mio povero ingegno, ma quello eziandio de' più provetti e felici oratori d'Italia. Ma d'altra parte, ricusare un sì nobil ufficio e un'offerta capace da per sè sola d'illustrare tutta la mia bassa vita e fortuna, e in cui risplende un carissimo testimonio della rara predilezione per me di tutto questo glorioso popolo, ha sembrato al mio giudicio più presto un atto d'orgoglio che di modestia, e il quale non passerebbe senza qualche odiosa apparenza d'ingratitudine. A me corre obbligo, adunque, accettando l'onore ed il carico, di fare ogni sforzo ed ogni fatica per rimanere meno discosto che io potrò dalla grandezza del têma, e con lo zelo almeno e lo studio mostrare alla S. V., a suoi Colleghi onorandi e alla intera Città, che la riconoscenza mia e la devozione inverso di loro, se negli effetti è scarsissima, è somma e perpetua nel sentimento e nel desiderio.

«Mi creda pieno d'osservanza e d'ossequio

«Della S. V.

«Li 23 di agosto 1849.

Umilissimo e Obbedientissimo Servo
Terenzio Mamiani

[433]

I.

Dei veramente grandi e buoni è l'orazion funerale dettata prima d'ogni altro dal popolo; e dove questo si tace, non vale facondia e abilità d'oratore. A niun tristo principe, morente sicuro in suo letto, è accaduto mai di non avere accanto al suo feretro un gonfio panegirista, il quale osi di adulare e mentire eziandio tra le pareti del tempio, alla presenza più viva e più manifesta di Dio. Se non che, in quel caso, l'ostinato silenzio del popolo accusa e sbugiarda il celebratore. Per lo contrario, dove l'amore e l'ammirazione delle genti accompagna la morte d'un giusto re, nessuna eloquenza pareggia forse il buon sentimento di quelle; come alla vista del feretro suo, nessuna forza, nessuna astuzia, nessun pericolo potría ne' petti stagnar le lagrime, e il lutto e il rammarico seppellirvi. Quando le ceneri di Germanico per mare venute toccaron terra, da ogni loco eziandio non vicino piovean le turbe accorate, e con ansia amorosa di vederle e onorarle; nè astenevasi alcuno di mostrare e provare al mondo, che lui sfortunato e tradito avean caro sopra tutti i potenti e felici, e volevanlo glorificato al par d'un Iddio. Ora, quell'accoramento medesimo, quell'affollarsi da tutte bande, quel gemere luttuoso ed universale s'è pure udito e veduto in questo porto di Genova, appena vi salía la nave che riconduce a noi dall'esilio la salma d'un re sventurato ma grande, e la quale accoglievano afflitti e in gramaglia que' Senatori e Rappresentanti a cui lasciava egli in perpetuo retaggio la libertà; e circondavanla le milizie di que' segni stessi e di quelle bandiere (ahi dimesse oggi e abbrunate!) ch'egli volle sopra tutte le torri della Penisola inalberare, e farle in ogni terra e sopra ogni mare franche, temute e trionfatrici.

[434]

Ma quanto è maggiore la perdita, più sentito il dolore, il tribolo più generale e sincero, altrettanto l'anima del dicitore se ne sgomenta; perch'egli non può fare come il pittore Timante che figura Atride nascondentesi dentro le palme il viso; ma sì è costretto di ragionare mentre non vorrebbe che piangere, e mentre in cambio di parole, gittar vorrebbe muti sospiri e flebili suoni interrotti. Or che dirò della povera mia loquela, o Signori, innanzi a sì alto subbietto, e in faccia a sì grande, sì vero e non esprimibil dolore di tutta questa città, che nell'ardore de' nobili affetti a niun popolo cede, a moltissimi entra innanzi? Ma d'altra parte, io vo pensando che qui non si tratta di sole funeree lamentazioni, e di solo sfogo al comune e soverchiante cordoglio; e nemmanco si tratta di esimia palestra oratoria, e di spiegare innanzi alla vostra curiosità sfoggiate bellezze d'arte e di stile. Ben altra cosa domandano la santità e solennità del luogo e del rito, l'anima augusta per cui preghiamo, l'Italia infelice che a questa terra rimira, ultimo asilo e sostegno della sua libertà e delle sue speranze, ahi già tanto superbe! Lasciamo alle prefiche e alle femminette l'abbondanza del pianto e le inconsolabili nenie. Nessuna cosa è più degna d'un popol civile raccolto d'intorno alla spoglia mortale di strenuo principe, che il chiudersi in grave mestizia e meditabonda, piena d'alti documenti e consigli, e che sia lume e preparazione di migliori destini.

II.

Suole gran parte di coloro che studiano nelle storie, uscire dalla notizia e considerazione di quelle con l'animo troppo diverso e fuor misura disingannato, e odiando quasi la luce che d'indi è lor balenata. Imperocchè stimano averne raccolto questo insegnamento più generale e più certo: che, cioè, il genere umano vive e si pasce, come durevolmente fanciullo, di perpetue illusioni; la fortuna governare le cose nostre con usuale insolenza e perfidia; quei popoli acquistare grandezza e quei principi venir lodati e famosi, che son fortunati. Le imprese comechè giuste e nobili, gli sforzi comechè [435] dolorosi e magnanimi, quando il buon successo non gli accompagni, o si estinguono nel silenzio, o con dispregio son ricordati. Se il cuore fu schietto e sublime, il tentamento generoso, le intenzioni benefiche, la volontà invitta e incrollabile, non si chiede. Invece, molti nomi permangono illustri e molte opere ricordate nei secoli ed ammirate, le quali la giustizia condanna, e la bontà deplora ed abbomina. Insomma (sentenzian costoro), la lealtà, il coraggio, la rettitudine, la bontà e l'annegazione sola valgono nelle storie meno che nulla, e di lor si fa caso unicamente allora che menano seco la forza, l'ingegno, l'abilità, la fortuna; e l'abilità, l'ingegno, la fortuna e la forza valgono, pur troppo, e prevalgono anche sole. Ora, a tale sentenza sconfortatrice e del sicuro non tutta falsa, ognun sa che dovrebbe il virtuoso e il cristiano non si perturbare; essendo notissimo a lui, che il mondo è cieco e strano dispensiere di fama, e il volgo si lascia pigliare alle splendide e strepitose apparenze; notissimo è a lui, che la virtù è rara e divina cosa per ciò appunto che tragge i premj da entro sè stessa. E fuori di sè, non agli uomini li domanda ma sì a Dio immortale, e dei parziali e sciocchi giudizj umani alteramente sorride. Ciò resta vero; ma la virtù comunale e generalmente usata non è profonda nè coraggiosa; e d'altra parte, ànno le storie del medio evo mostrato e provato assai, quanto torni pericoloso il porre tutte mai le speranze e tutti i pensieri fuori del mondo. Ei si fa necessario, pertanto, che qualche preludio almeno di gloria, qualche cenno di spiritual premio, qualche segno e testimonianza visibile di laude e di onore, segna presto o tardi l'animoso ed il buono eziandio quaggiù in terra, e gli tenga luogo di lieti successi e d'ogni altro bene.

Al presente, io mantengo che quel preludio di gloria, quel segno d'onoranza più, direi, celeste che umano, e il quale o non mai o rarissimo può mancare alle virtù grandi benchè infelici, sì è l'amore appunto di tutti i buoni, e la compassione e insieme l'invidia di tutte l'anime generose e gentili; si è il giudicio e la sanzione del popolo, il quale tuttavolta che non vien soprafatto dalle arti maligne degli ambiziosi e de' prepotenti, serbasi retto nell'assegnar la sua [436] stima, e scuopre e indovina assai bene la probità delle intenzioni e dei fini; e dove non possa altrimenti, sfoga con segrete rammemorazioni e qualche nascosta lacrima l'affetto riverente e pietoso.

In tal guisa, e contro i ludibrj della fortuna e a preferenza d'altri re abilissimi e potentissimi, l'amore, l'ammirazione, l'encomio, il compianto di tutta Genova, di tutto il Piemonte, di tutta l'Italia accompagna, circonda, onora e quasi non dissi adora l'estreme reliquie di questo Re, e lui caduto due volte nel santo intraprendimento, udiam tuttavia chiamare e salutare un eroe.

Insegnamento sublime e più che altri mai profittevole, il quale esce da queste esequie! Oggimai dee sapere qualunque Italiano, che quando anche o dagli accidenti o dalla natura fossegli contrastato e interdetto di segnalarsi per doti peregrine ed eccelse d'ingegno e d'arte, sempre gli rimarrà, se lo voglia, il tesoro non dissipabile d'un eroico sentire e d'un forte operare; e che gl'infortunj più fieri e impensati mai non varranno a frodarlo della tacita maraviglia e dell'affezione ossequiosa di tutti coloro che il pregio dei pensieri e dell'opere umane indagano e pesano alla stadera e al lume della coscienza, e riscontrandole esattamente coi dogmi eterni della giustizia e del bene. Il qual lume e il quale riscontro c'insegnano oggi appunto con gran sicurezza, che il peccato dei destini, la crudele indifferenza d'Europa, gli eccessi delle fazioni e i funesti errori di tutti, contrastarono e soprafecero le intenzioni più alte e schiette e magnanime che sieno sorte e dimorate pur mai nel petto d'un re; e che sì le opere, i benefizj e i tentamenti di Carlo Alberto inverso la patria comune, sì ogni mezzo voluto e prescelto da lui nell'adempimento di essi, furono tutti impressi e lucenti di quella prodezza antica e di quella civile santità, che sola può salvare e riordinare, non che l'Italia, ma il secolo, e queste viventi e le nasciture generazioni.

III.

Famoso è nelle storie d'Erodoto quel discorso di Solone a Creso re dei Lidj, col quale fece il savio ateniese divisare [437] e conoscere, come per dar giudicio della bontà e felicità della vita convenga soprattutto aspettarne e considerarne il termine; e che le ultime parti di quella (quando già non sia dalla vecchiezza troppo consunta) ne racchiudono il maggior pondo e valore, perchè ne sono, come a dire, il portato a cui preparare trascorsero gli anni antecedenti. E sebbene questi non paressero tutti laudevoli, o non quanto gli ultimi, fannosi di leggieri dimenticare, sembrando tener simiglianza con quelle foglie e quei tegumenti che bene allegato che abbia il frutto, si diseccano e cadono. Per contra, dove l'ultima maturità della vita non riesca corretta e gloriosa, poco o nulla stiman gli uomini le virtù e i pregi anteriori. Certo, non è senza maraviglia il pensare, come i trascorsi e la ferità di Ottaviano Augusto vengano quasi tenuti in non cale per considerazione della sapienza e liberalità posteriore. Nè comparisce meno strano, che il saper morire da forte e da generoso tramandasse ai posteri il nome di Ottone pressochè mondo d'ogni sozzura. Ma, per lo contrario, trapassò dubia e macchiata in sino a noi la fama di Teodorico, soltanto per avere una vita tutta bella e incolpevole bruttata, in sul finire, d'un fallo unico, incrudelendo contro que' due gran giusti, Simmaco e Boezio.

Ciò bene osservato, a voi non parrà disdicevole che io, stretto dal tempo e dal proseguimento del rito e di sue cerimonie, e sceglier dovendo il meglio e il più sostanzioso della vasta materia, raccolga il mio ragionare quasi tutto negli ultimi anni della vita di Carlo Alberto; ne' quali, d'altra parte, un secolo intero sembra esser trascorso, e ai quali porterà invidia in qualunque età qualunque principe d'alto sentire, e che abbia cuore d'innamorarsi della sventura e di non tremare il martirio.

Io dico e ripeto, impertanto, con gran fermezza, che i concetti e le mire di Carlo Alberto, quali segnatamente negli ultimi anni si palesarono a tutto il mondo, ed alle quali accomodò ogni pensiero e ogni azione, furono le più pure insieme e le più eccelse e benefiche a cui può voltarsi una elevatissima mente e un petto generoso ed intrepido; e al mio giudicio, procede da esse sole tal merito, da tenere viva e onorata in perpetuo la sua memoria. Nel vero, di molte e varie [438] accidenze di guerra e di molti imprendimenti formidabili e strepitosi ragiona la storia; e più a lungo ed enfaticamente assai, con quanto maggior sangue e maggiore perturbazione e ruina di cose si consumarono. Ma se dalla giustizia ed utilità del fine lecito fosse di misurare la bellezza e splendenza loro, quante di esse imprese pensiamo, o Signori, che si rimarrebbero degne d'encomio e di ammirazione? Certo, lasciando pure intatta ed inesplorata l'antichità, io vorrei che in qualche dotto e prudente uomo fosse stato arbitrio d'interrogar d'improvviso o Carlo quinto, o l'emulo suo Francesco, o Luigi decimoquarto, o Carlo di Svezia, o (mi si dia licenza d'aprir tutto il vero) quel Genio stesso tragrande che regnò, non à molti anni, dal mare germanico al mar siciliano e dalla Loira alla Vistola, e osò portar guerra ad un tempo medesimo sulle terre Gaditane e sulle Moscovite. Io vorrei, dico, che in alcun giorno de' più radiosi e beati del viver loro, quel savio che io mi figuro avesse inopinatamente potuto a ciascun d'essi addirizzare queste o somiglianti parole: — Creatura mortale e peccabile, che pensi, che imprendi, ove guardi? Veggo gesti rumorosi e magnifici; veggo battaglie e conquiste, paesi sconvolti, ordini antichi mutati; ma i fini proporzionati del bene e dell'utile, e la necessità e giustizia delle cagioni non veggo. Degna mostrarmi il largo e perpetuo profitto che il genere umano intero, od almanco la tua nazione, è per trarre da sì gran copia di sangue, da sì profondi guastamenti, da guerre sì lunghe e sì disastrose. — Del sicuro, a interrogazioni cotali non avrebber fallito risposte ingegnose e magniloquenti da ciascuno di que' famosi. Ma negli occulti del cuore e negli ultimi penetrali della coscienza un subito scompiglio sarebbe pur nato, e una involontaria e amarissima dubitazione intorno alla bontà e legittimità del proposito. Interrogato in quella vece di ciò medesimo Re Carlo Alberto in qualunque tempo e in qual sia frangente di cose, chi di noi nol vede e non l'ode speditamente rispondere, con pacata serenità e alterezza dal profondo dell'animo attinte: — Chiedi quello che io voglio e ch'io fo? io la più santa e legittima voglio e procuro di tutte le imprese, l'affrancamento d'Italia. —

[439]

D'ogni e qualunque azione civile, la principale e migliore per merito, per dignità, per bellezza, per santità, per fama, sempre fu reputato il procacciare, con arduo sforzo ed eroico, la liberazione della patria dalla tirannide dei forestieri. Imperocchè, fondamento d'ogni libertà e d'ogni diritto è la politica indipendenza; rimossa la quale, può solo sussistere un'apparente libertà e un apparente diritto. Del pari, nella indipendenza è il principio vero e spontaneo e la cagione efficace e sempre ubertosa di ogni prosperità e grandezza sociale; essendo che l'ordine morale del mondo à determinato e prescritto ab eterno, che le nazioni, primamente e originalmente da natura costituite, rimanendo signore ed arbitre de' proprj destini, arrechino all'intera famiglia umana quella stessa varietà d'indole e quella eccellenza stessa speciale di attitudini e di talenti, che può ogni singolo uomo arrecare alla propria città; onde risulta l'armonia portentosa delle differenze, il cambio e la mutuazione degli uffici e dei comodi, e in fine l'incremento e il progresso del comun bene. Il perchè, oppressare l'autonomia naturale dei popoli si è rompere guerra scelleratissima alla Provvidenza, la quale a ciascuna nazione liberalmente concesse di veder meglio che tutte le altre una sembianza del vero e del bene eterno, e assegnò qualche proprio e nobile ascendimento su per l'immenso scaleo della perfezione civile. Da ciò procede, che l'antichità e la modernità puntualmente concordano ad anteporre ad ogni specie di nome illustre quello di coloro che, impugnata con retto animo la spada di Matatia, spesero i sudori, il sangue e la vita per purgare la terra degli avi dal contatto pestifero degli stranieri. Da ciò procede eziandio, che il tempo e la vecchiezza consumatrice di tutte cose, in luogo di nuocere e logorar come tarlo le memorie di quelli, le riforbisce di mano in mano, e le cinge di lampi e splendori: tanto che si trasmutano in simboli e in figure ideali ed archetipe, e sono segno e subbietto alle tradizioni popolari e alle fantasie de' poeti; i quali, in tal caso segnatamente, la storia e la favola tessono insieme non già per trastullo, ma con intuito secreto d'una verità più alta e più vera della storia medesima. Così d'Erminio è accaduto appresso i Germani, così di Guglielmo [440] Tello appresso gli Svizzeri, così di Giovanna d'Arco in mezzo a' Francesi, e di Giovanni da Procida tra' Siciliani, e del Cid e de' suoi cinque figliuoli tra' Castigliani. Ed io stimo medesimamente, che dai nostri tardi nepoti non verrà nelle canzoni loro popolaresche taciuto il nome di Carlo Alberto, nè andrà egli senza onore di simboliche figurazioni; chè anzi, quanto più travaglio e sangue e sudore costerà agli Italiani il vendicarsi in essere di nazione, con quanta maggiore felicità e amplitudine ripiglieranno di poi il corso delle preterite glorie e ritroveranno le orme dell'antica fortuna, altrettanto diverrà chiara e di giorno in giorno più rinnovata e ringiovanita la tragica memoria di questo principiatore eccelso della risurrezione italiana; conciossiachè gli uomini delle cose grandissime ammirano sopra modo i principj, e gli reputano come divini.

IV.

Ma io non vorrei, uditori, lasciarvi pensare che io vo derivando in parte le lodi del mio personaggio dalle fonti della poesia. Chè anzi, spiacemi oltre misura di non possedere parole tanto significative e semplici insieme, da mostrare la materia che tratto nella sua nuda e maestosa grandezza, fuggendo i fiori e gli stratagemmi della rettorica.

Pericle pregato dagli Ateniesi di dir le lodi solenni e publiche de' cittadini morti nel primo anno della guerra peloponesiaca, usò d'un artificio notato dai buoni maestri dell'eloquenza; e ciò fu lo spaziarsi da prima con isplendente e copiosa orazione nelle lodi d'Atene e della republica, descriverne i pregi, dinumerarne i gran capitani, narrarne i gesti più chiari, espor la sapienza delle leggi, i miracoli dell'arti e dei monumenti; poi, con subito trapasso e non aspettato, conchiudere: — per sì fatta città e republica, per sì gloriosa cittadinanza sono combattendo caduti e morti costoro. — Convenientissima cosa a me pur sarebbe, o Genovesi, il misurare dalle grandezze, come dalle sciagure estreme d'Italia, la nobiltà e grandezza dei fini, dell'ardimento e dei beneficii di Carlo Alberto. A me pure, dove il subbietto [441] chiedesse ornamenti ed amplificazioni, bello sarebbe stato entrar nelle lodi d'Italia, e concludere dicendo: — per questa patria comune, la più gloriosa fra tutte, come altresì la più sventurata; per questa madre onoranda della civiltà dell'intero Occidente; per l'Italia due volte dominatrice del mondo e legislatrice; per la culla sublime de' più sacri ingegni che la stirpe umana abbiano mai decorato; per gli eredi del nome latino e della magnitudine vera e pur non credibile del romano impero, è insorto, à combattuto, à sofferto, è dal trono disceso, à la vita in travagli e angosce trapassata e chiusa l'Eroe che qui celebriamo. —

Ma non sono ben degne di Carlo Alberto le lodi che a molti si possono accomunare. Assai gli basta (e vel proverò) ciò che à di singolare e di proprio; e vi giuro con sincerissima lingua, che io il miro collocato in una cima di gloria, ove abita solo. E per rispetto all'Italia, potrebbesi egli tacere ciò che il distingue veracemente fra tutti, e che forse non tutti ànno a dovere considerato? Io vel dirò molto in breve. Antichissima è certo la gentilezza di nostra patria, e comparsa adulta e matura fra gli uomini infinito tempo prima di quella delle moderne nazioni; imperocchè poco meno di trenta secoli di civiltà ricorda e narra, giù per continue trasmutazioni, la storia italiana. In tanto corso, adunque, di tempi e di avvenimenti, egli è da cercare a quanti principi e capitani (chè degli uni e degli altri è innumerevole copia) à gradito di sguainare il ferro e pericolarsi a morte per salvare e redimere la patria comune. A quanti? Dio immortale! a nessuno. Ricorderemo noi forse gl'imperatori tedeschi che, facendo d'Italia un feudo alemanno, assumevano come per ischerno il titolo di romani e di augusti? O, per lo contrario, ricorderemo gli autori e conducitori della Lega Lombarda? Ahi lombarda l'appellarono con ragione, e non italiana, dacchè tanta parte d'Italia ne venne esclusa. Gran dicería si fa (e torna utile che si faccia) del proposito fermo e virile che dicesi avesse Giulio secondo di smorbare l'Italia dai barbari. Pienamente voglio credere all'alto e animoso disegno, non malagevole ad effettuarsi in quel tempo dai Papi, quasichè onnipotenti. Ma mentre il fatto non à provato la [442] verità di quel desiderio, bene col fatto si prova, che da verun altro ricevè Carlo VIII impulsi più frequenti ed acuti per iscendere alla conquista di Napoli, da veruno gli furono più raccorci gl'indugi, e meglio acchetati e rimossi i dubbj e vinte le esitazioni, quanto da esso Giulio, allor Cardinale: e certo, divenuto Pontefice, non incominciava egli da buon italiano la impresa italiana, collegando seco Francesi e Tedeschi a danno e sterminio dei Veneziani. Fu inutile presente della fortuna, che quel magno e terribile delle cui vittorie l'età nostra non si stanca di ragionare, uscisse dal nostro sangue, e stringesse in pugno tutti i nostri destini. Sotto il costui impero, Roma, Firenze, Torino, e tu, Genova, foste città francesi; e il Regno che portava il sacro nome d'Italia, stringevasi tutto fra l'Olona e il Clitunno. Da ultimo, menzioneremo noi quel soldato forestiero e audacissimo, che, certo di cadere dal trono regalátogli poco dianzi da Buonaparte, gridò per estremo suo scampo — Indipendenza italiana, — pronto a spartire di poi col cognato la illustre preda, qualora quegli non ruinasse? Chiudiamo il discorso. Questa meraviglia dovranno attestare i futuri, di questa nessuna storia potrà tacere: che, cioè, tra l'immenso numero de' potenti a cui venne per li tempi commesso il freno d'alcuna parte delle Belle Contrade, tu, CARLO ALBERTO, fosti il primo e il novissimo che snudavi la spada per riscaldare tutta quanta la terra Ausonica; nè leggiermente o per poco il pensasti e volesti, ma sempre, e con tutte mai le potenze dell'animo e le forze della mente e del braccio; nè porzione alcuna dell'essere tuo rimásesi non addetta, non devota, non sacra all'Italia insino alla morte; e morte desiderasti nella guerra liberatrice, e che qualche salvezza ed onore all'Italia fruttificasse.

V.

Proviene da ciò, che ne' funerali questo dì celebrati nessuno scorge una solennità genovese o ligure o piemontese, ma italiana ed universale; e vi assistono in desiderio e in ispirito le genti della Penisola quante ci sono. E al nostro [443] gran lutto risponde per ogni intorno il lutto della Nazione, e in ogni cuore trapassa il nostro compianto, e da innumerabili petti esce un solo sospiro. Che se al giusto e pio dolore degl'Italiani non fosse dalla violenza o straniera o domestica vilmente interdetto il manifestarsi con publico rito, in qual parte riposta e remota del Bel Paese, in qual minima città, in qual villaggio, oso dire, non vorrebbesi suffragare ed esequiare in comune, e con accompagnamento di vere e caldissime lacrime, l'anima gloriosa di questo Monarca? il quale unico tra gl'infiniti signori di nostra patria, e quasi non dissi fra i privati cittadini altresì, amò tutte le genti italiane con dilezione ugualissima di fratello e di padre; e, contro l'esempio e le inclinazioni de' suoi medesimi precessori, in cambio di aver cari gli altri Italiani come prossimi e consanguinei, ebbe cari i suoi Subalpini solo perchè Italiani. Ma le sciagure stesse d'Italia, e le ingiurie e gli sforzamenti del crudele inimico, questo effetto non malo producono almeno: che intorno al feretro augusto s'adunano in folla i miseri sbandeggiati d'ogni nostra provincia, e qui degnamente le figurano e rappresentano, e nel proprio e manifesto rammarico attestano il secreto pianto e cordoglio di tutte le latine città. Qui voi pure state presenti, ahi sventura! o fratelli di Venezia, o invitto e intrepido retroguardo dell'armi italiane, rifatti degni di rivestire la gloria di quattordici secoli, arditi di combattere soli contro tutto un impero, manomessi non dal ferro ma dalla fame, cedenti per accordo, non per disfatta. Sia luogo alla verità; di niun corrotto e di niuna lacrima trarrà l'anima benedetta di questo Martire più compiacimento e più onore, che delle vostre, o prodi come incolpevoli, o per ogni virtù militare e civile insigni e specchiatissimi Veneziani.

VI.

Bello e magnifico è tutto ciò, e sufficiente, mi sembra, a far venerando ai venturi qualunque nome di re. Pur nondimeno, se in voi mantiensi, uditori, l'onesto desiderio di [444] più avanti considerare l'essere sostanziale della virtù, seguitando a bene distinguerlo e segregarlo dagli accidenti, massime dagli esteriori assai più soggetti all'arbitrio dei casi e al torto giudicio degli uomini, le lodi che mi rimangono a dire di Carlo Alberto riusciranno maggiori e più rare; e se ne riverbererà un lume d'insegnamento da spandersi con profitto grande non pure fra i popoli italici, ma sì fra tutte le genti civili e cristiane. Il perchè, quando mi fosse fattibile, io chiamerei volentieri ad udire questa parte seconda del mio discorso gli uomini tutti che ànno in Europa autorità e ingerimento continuo e principale nelle faccende publiche, ed assai facoltà d'informare e allevare l'animo e l'intelletto delle moltitudini. Io dico ed assevero, che io farei ciò premuroso e senza paura d'orgoglio; conciossiachè la imperizia e la ruvidezza del ragionare non potrebbe dal lato mio esser tanta, da spegnere affatto il fulgòre delle verità che fuor del mio têma di per sè traluce e sfavilla.

Per fermo, tra i vizj molti e gravissimi che incattivirono la nostra età, e onde marciscono in poco d'ora i frutti delle sue fatiche e de' suoi tentamenti, il pessimo, al mio sentire, si è quella inerzia della gente mezzana a combattere il male e zelare il bene; quel difetto di fede profonda ed inconsumabile nella verità e nella giustizia; quei concetti o dubitosi o travolti, così intorno ai diritti ed alle franchigie, come intorno agli uffici ed alle virtù e imprese cittadinesche; quello scarsissimo sentimento dell'annegazione e del dovere, e quell'insorgere invece con infinita baldanza ed avventatezza contra ogni autorità ed ogni titolo di primazia. Quindi, pur troppo, è nato che l'eguaglianza civile e politica viene professata e voluta più assai per invidia dei beni e delle preminenze altrui, che per ispirito vivo e sincero di dolce fraternità: quindi, piuttosto che affaticarsi ad alzare ed accostare gl'infimi ai sommi, abbattesi rabbiosamente ogni cima, e a quella gretta mediocrità, che riman di poi, d'ogni condizione e d'ogni intelletto, dàssi lo specioso nome di pura democrazía: quind'infine, spogliato e nudato l'animo delle speranze sopramondane, e lasciatogli le sole mondane e caduche, l'amor dei piaceri e delle ricchezze predomina e tiranneggia, [445] e nel volgo si fa bestiale, ed ogni promettitore d'un paradiso in terra acclaman profeta e levano in sullo scudo. Dopo ciò, non è da stupire, se in tanta declinazione ed alterazione del senso morale, e, d'altra parte, in tanto sdegno ed irrequietezza di spiriti, il mondo come tutto si è scosso e scomposto, così nessun ordine e nessun assetto naturale e durabile abbia per anche trovato; e nessun termine di moto e di mutazione al cominciamento loro consenta e risponda. Agli impeti coraggiosi e alle sollevazioni formidabili e quasichè generali, subito sottentra tedio, diffidenza e stanchezza; alla bontà e interezza delle prime intenzioni succedono, tra brevissimo, esorbitanze e tristizie: in secolo della sua civiltà e de' liberi suoi concetti superbo e fastoso, vedesi ogni questione di ordini e istituti politici vinta e risoluta dal ferro; e quei governi rimanere al di sopra, che meglio conversero le milizie loro in automati armati, e in cittadelle sè moventi, e costrutte e murate di uomini. In cotal guisa, le idee del bene e del retto appajono dall'una e dall'altra banda manomesse e sconvolte, e la forza è il Dio dello Stato; e a quella nazione che vive

Mai sempre in ghiaccio ed in perpetue nevi,

e geme tuttora, per iscandalo della civiltà e del Cristianesimo, in abbiezione di schiavitù, sono concedute al presente le prime parti e il supremo arbitrato d'Europa.

VII.

Ora, a siffatto pervertimento dell'ordine, e a tale nuova dissipazione delle più care speranze del genere umano, non sarà posto compenso nè termine, insino a quando non ritorni trionfante nei petti nostri la religione. E d'altro lato, non mai questa gl'impronterà del suo saldo e lucente suggello, insino a tanto che, permanendo eguale ed immobile nella sostanza sua, non muteràssi in parecchie disposizioni e accidenti, e non piglierà a santificare e validare con divina sanzione quei pensamenti vasti, quegli affetti virili e quelle nobili propensioni, le quali sveglia la libertà, la ragione approva, illustra [446] e nudre la scienza, e le quali confidansi di menare il consorzio umano in più franca e spaziosa via di progresso e di perfezione. Da tutto ciò risulta quello che mi sembra doversi chiamare assai convenientemente la Religione Civile. E perchè non mi accade qui di spiegare e chiarire come in aula accademica i larghi e fecondi concetti adunati sotto tale denominazione, ve ne darò con qualche acconcia definizione e similitudine un cenno ed un saggio. La Religione Civile, pertanto, che è dal secolo desiderata più che altro bene, e si va nelle menti e nei cuori ogni dì più rivelando, non reca (e mai nol potrebbe) alcun detrimento ed alterazione alla santissima religion nostra, e alla moralità perfetta degli Evangeli; ma, per opposto, ella è un incremento leggiadro e mirabile, e una nuova faccia della virtù e del bene, poco avvertita per innanzi e male intelletta: chè la virtù umana procede ella pure con legge di spiegamento e di ampliazione, non forse a rispetto delle sue interiori disposizioni, il cui pregio raccogliesi tutto per avventura nella perfezione della volontà, ma sì certo a rispetto delle esteriori manifestazioni, e della potenza ch'essa virtù acquista maggiore e più celere di effettuare il bene e moltiplicarlo, e crescere la universale eccellenza del genere umano. La Religione Civile, pertanto, dilata e sublima con nuovi uffici la cristiana pietà, in quanto che alle virtù mansuete e private aggiunge ed innesta, assai meglio che per addietro, le pubbliche, e alle famigliari le cittadine; santifica tutti i negozj politici con puro consiglio operati; insegna, più schiettamente che in ogni passato tempo, i termini dell'obbedire e del comandare; nè si ferma, come insino a qui parean fare i buoni, ai lamentevoli libri di Giobbe, ma prosiegue oltre, e legge e medita assai intentivamente e con fervoroso animo nei santi libri de' Maccabei. Insomma, la Religione Civile infonde e sveglia nella mistica lira dell'uman cuore una nuova e celeste armonia, stata finora sentita da pochi spiriti eletti, e solo con segni e colori simboleggiata dal divino Raffaele, quando alla forma greca soavemente trasmise e congiunse la idea e il sentimento cristiano. Resta che nel mondo morale la medesima contemperanza si effettui, e la immacolata luce degli Evangeli penetrando di sè le virtù greche e latine, le [447] ammendi e purifichi, e tanto valore lor porga, quanto le virtù ascetiche ed eremitiche ànno paruto sino a qui possedere per proprio ed unico privilegio.

VIII.

Io sembro, o Signori, avere di mille miglia scostato il discorso dal suo subbietto; eppure, mai non mi è partito da sotto gli occhi, e, senza bisogno alcuno d'artificiosa transizione, torno a lui d'un sol passo. Conciossiachè di quella fede inconcussa nel bene, nella verità e nella giustizia; di quel senso coraggioso, immutato ed assiduo del dovere, di cui dicemmo soffrire inopia grandissima la nostra età; di quella religione civile, insomma, che nell'esercizio delle virtù publiche ammaestra e infiamma il buon cittadino, e il fa nei pensieri e nelle opere riuscire stupendo ed intemerato; io non mi diffido di asserire, che il primo e solenne testimonio ed esempio dato a questi tempi vanissimi e fluttuanti nel dubio, è Re Carlo Alberto. Costui, negli ultimi anni del suo regnare, diventato modello a sè stesso, e trovato nella sua rigida e guardinga coscienza un nuovo aspetto di virtù, quale l'indole propria e il rimutarsi dei casi e i moderni concetti e le necessità d'Italia e il corso e perfezionamento della ragion morale gli dimostrarono, visse singolare e straordinario come principe e come uomo, e a tutti gli avvenire porse subietto imitabile. Gloria invidiata d'Italia, potere, in tanta caduta ed umiliazione, farsi per lui, in materia gravissima, norma salutare all'Europa, e scuola e ammaestramento ai popoli d'una pietà eroica, e d'un abito di religione, con solo il quale varranno le odierne generazioni a ricomporre la forma dell'animo, e, con l'animo, i sociali e politici ordinamenti. Fu Carlo Alberto devoto e pio quanto il nono Luigi, quanto lui valoroso e leale, al par di lui penitente: ma fu datore e servatore di libertà come un re di Sparta; amò la patria e la gloria come un antico; sentì il debito di cittadino ed ebbe concetti magnanimi e smisurati come un romano. Il perchè, chi vuol far ritratto fedele di questo Principe, cerchi le credenze più sane e più inviscerate del medio evo, e raccolga in uno le cavalleresche [448] virtù dei Crociati; componga il rimanente con le luminose pagine di Plutarco e di Tito Livio. Darà prova e conferma di tutto ciò quanto son per narrare.

IX.

Pochi anni dopo il 1840, apparvero i primi indizj dell'eminente e riposto pensiero del Re. Al libro delle Speranze d'Italia e all'altro del Primato civile degl'Italiani, mostrò di fuori buon viso, nell'animo fece festa e plauso vivissimo, godendo di veder gli scrittori persuadere e muovere la nazione a più savj consigli e a praticabili proponimenti. In quel mezzo, le riforme moltiplicava; e ampliando gli studj, massimamente di storia e di giure, promulgando i Codici troppo lungo tempo aspettati, promovendo le industrie e i commerci, l'arti geniali erudendo e premiando, suscitava ne' popoli le infingardite facoltà dell'ingegno e del sentimento, adusavali all'impero imparziale e non rimutevole della legge, e alzava a cose magnifiche le loro speranze e i lor desiderj. Concordi, operosi e disciplinati serbava gli ordini ministrativi, integerrimo il magistrato. Altrettanto di bene volea succedesse nell'esercito e negli armamenti, dove o l'imperizia o la trascuraggine, o molto peggior cagione frustrato non avesse l'intento premuroso e continuo del buon Principe. In sostanza, ogni cosa avviavasi, benchè lentamente, a preparare i Subalpini a gran fatti, e a prove (può dirsi metaforeggiando) non da uomini ma da giganti. Già nel 1846 scoppiavano molte faville del nazionale ardore che in petto al Re divampava. Già al Congresso degli Scienziati raccolto in Genova, e festeggiato a cielo da questa ospitalissima cittadinanza, dava il Principe libertà di discorso e di stampa; tanto che parve la radunanza accademica tramutarsi affatto in politica, e l'Italia udire, racconsolata ed attonita, la voce congiunta e concorde di tutti i suoi figli. A detti e a sentimenti poco dissimili porgeva occasione il primo congregarsi altresì de' Comizj Agrarj, dal Re consentito e voluto. Già, senza uscir del buon dritto, ricusava Carlo Alberto di più oltre osservare certi patti gravosi temporalmente convenuti tra l'Austria e il Piemonte [449] circa ad alcune merci e derrate dall'uno nell'altro Stato trasmesse. All'Austria, avvezza a signoreggiare in ogni corte italiana, ciò parve nuovo ed acerbo, e fieramente se ne sdegnò; ma non sì che intendesse le mire ultime e generose nascoste in que' fatti: imperocchè non possono i despoti figurare e credere in altri quel che non sentono essi o dispregiano, e che alla volgare loro ambizione d'infinito spazio sovrasta. Di tal modo le cose maturavano nel Piemonte. Ma, ciò non pertanto, versava l'animo di Carlo Alberto in molte dubiezze; non a rispetto del fine sovrano, e del volerlo (quando che fosse) interamente e con gagliardezza raggiungere ed adempire; ma sì bene intorno alla scelta dei mezzi, e all'indirizzo da darsi all'eroico intraprendimento, e al come condurlo in guise ottime e conformi alla sua pietà, e fermate sopra principj d'irrefragabile bontà e giustizia. Conciossiachè molti fra suoi cortigiani, e fra' religiosi più intramettenti e troppo da lui caldeggiati, veniangli mostrando e raccomandando una sorta di pietà, di giustizia e di carità oppostissima al concetto che l'indole sua, naturalmente diritta e nobile, s'avea foggiato. Ciò più che altro il teneva perplesso. Però scolpiva in una medaglia il leone Sabaudo pronto a percuotere con l'alzato artiglio l'aquila spuria e difforme, solo che vedesse spuntare in cielo l'astro aspettato, cioè un segno precursore e fatale ch'egli credeva non dovergli a tempo fallire, e non esser remoto. Ed ecco, veracemente, sorgere un lume improvviso e sfolgorantissimo in Vaticano, ai cui lampi ed al cui tepore sembrano nel miserando deserto d'Italia rigerminar tutte le antiche semenze di onore, di libertà, di sapienza e di gloria. Certo, nessuno salutò quella luce con più di appagamento e letizia, che Re Carlo Alberto; avvegnachè da quel punto a lui cessarono le esitanze, e ogni oscurezza si dileguò, e raccolse entro l'animo il pieno e sicuro criterio morale d'ogni futura opera sua. Stimò allora ed ebbe per fermo, nè per qualunque mutare d'uomini e d'avvenimenti cangiò egli di poi sentenza, che Dio medesimo gli rivelasse in modo patente e straordinario, a quale specie di pietà e a quali virtù ardite e maschie e fruttuose fosse chiamato ed eletto. Compiersi, alfine, il felice connubio tra la libertà e il papato, tra [450] il progredimento civile e la Chiesa; Roma cessare di troppo blandire i potenti, e verso i popoli nuovamente accostarsi; già riconoscere nelle Nazioni il dritto primitivo ed ingenito di possedere sè stesse; già spandere benedizioni sulle armi che quello difendono, e più validamente venir sancito da lei quel pronunziato antichissimo, che combattere e perire a pro della verità e della giustizia torna a un medesimo che combattere e morire per Cristo Signore, cum Christus sit veritas et justitia.[42] Allora Carlo Alberto, abbracciando la sublime impresa d'Italia con la fede viva ed inestinguibile d'un Buglione e d'un Riccardo, subito pose in disparte le troppe cautele, i viluppi, gli ondeggiamenti e gli artificj dell'usuale diplomazia. Quanto più generosi ed aperti i mezzi, tanto gli parevano da preferire; la calcolatrice prudenza de' Gabinetti spregiò, e neppure si volse indietro a guardare i maneggi e le pratiche del passato: così diverso volea che fosse il presente, e di così animosi e solleciti fatti ripieno. Gran caso, vederlo scostarsi ad un tratto da quella ragion di stato avveduta e scaltrita, che mena ordinariamente i negozj di tutte le corti, nella quale sono allevati e formati i principi, fatta a lui parere più necessaria dalla malagevolezza dei tempi, predicatagli da tutta la storia di Casa sua.

X.

Di tal guisa, e per opera di tanta trasmutazione, eragli fatta facoltà di pronunziare le parole stesse di Dante Alighieri: In quella parte del libro della mia memoria, dinnanzi la quale poco si potrebbe leggere d'impensato e straordinario, si trova una rubrica la quale dice Incipit Vita Nova. Non però, che Re Carlo Alberto non avesse di lunga mano addestrato sè stesso all'eroica trasformazione con abiti malagevoli di virtù, e con pratiche disciplinari, cotidiane e durissime. E quantunque Egli siasi imbattuto a nascere d'una progenie di re, severa quasi sempre di spiriti e austera di costumi e di usanze, ciò non pertanto rimarrà notabile ed esemplare a moltissimi principi il tenore della sua vita. Levarsi mattutino, e alle cure del regno [451] attendere tuttodì, fino alla tardissima notte, con applicazione indefessa ed assidua. Non feste, non cacce, non isvagamenti, non teatri, non balli: in tanta abbondanza d'agi e piaceri, in tanta facilità di trovarli o crearli, niuna specie di singolari solazzi, niuna voglia sregolata, niuna vanità. Frugale e parsimonioso per sè, splendido negli altri e regalmente cortese, e delle arti geniali munifico protettore. Presto infermato di quel malore lento e cupo, che al sepolcro dovea menarlo molto innanzi del tempo, non pure il sostenne con pazienza e serenità inalterabile, ma costantemente gli si oppose con tale sobrietà ed astinenza, che ai testimonj giornalieri soltanto del vivere suo si faceva credibile. Nè stimando, con tutto ciò, spianata ogni ruga dell'anima, e meritato lume e soccorso da Dio per la sacrosanta impresa che meditava, venne per parecchi anni moltiplicando i digiuni e il fervore delle orazioni; le quali più volte fu veduto ripigliare nel silenzio delle notti invernali, rompendo quei sonni brevissimi che al logoro corpo suo concedeva. Così questo eroe cristiano si persuase e credette, a parlare con l'Apostolo, di vestir l'uomo nuovo, e riuscire perfetto campione della causa d'Italia, che è pure causa di Dio.

XI.

Io m'accorgo, e nol celo, che le cagioni le quali ritrovo ed espongo de' fatti che vo raccontando, sembrar possono troppo insolite, e troppo tenere del maraviglioso e del mistico. Ma, d'altra parte, io sono scusato compiutamente, se necessità mi sforza ad attribuire a quei fatti le cagioni proprie e impellenti, ancora che al primo aspetto elle ci compariscano nè bene congeneri nè proporzionate nè prossime: e ch'io le desuma dalla natura vera ed intrinseca del personaggio di cui discorro, vi diverrà chiaro e patente, quando l'attenzione vostra non si ritiri dalle ultime narrazioni che imprendo. Certo, non ò io fabbricato quel forte sorprendimento dell'animo, e per poco non dissi quello stupore che induce in tutti vedere Carlo Alberto in sul mettere le prime orme nell'arrischiato e non mai battuto [452] sentiero; vederlo, dico, alle più ricise e ferme e sollecite risoluzioni appigliarsi, quando per addietro, predominato dal vizio stesso della sua complessione, e dalle infermità che dentro le forze gli consumavano e i più vigorosi spiriti del sangue mungevangli, pareva troppo sovente rivolgersi e travagliarsi tra opposti consigli, ed éssersegli fatto ordinario ed abituale l'esitare e il temporeggiare. Intelletto assegnato e prudente, in nessuna cosa eccessivo, in nessuna impetuoso, avvezzo a temere il male più che il bene a sperare, negli uomini poco fidante, del rivolgersi dei casi estimator non corrivo; diviene, per carità d'Italia, speditissimo e confidentissimo, e imprende fatti così audaci e zarosi, che temerarj dimanderebbonsi dove men liberale e men santo fosse lo scopo. Altrettanto prodigioso à sembrato vederlo ad un tratto spogliare quell'apprensione continua dei popolari movimenti, e quella voglia ed inclinazione a resistere loro, statagli per lunghi anni accresciuta e avvivata da sleali consiglieri, che tante volte ànno procurato ingannarlo, tante divertirlo da' suoi nobili concepimenti, e d'una in altra contraddizione trabalzarlo. In fine (e ciò gli antichi avrebbero quasi chiamato un trasumanarsi), dopo consumata la maggior parte di sua vita in mediocrità di fama e di opere, non un pensiero, non un atto, non una parola lasciar quindi innanzi udire e conoscere, che eroica non sia, nè battuta (a così parlare) con lo splendido conio della immortalità, e la qual non trascini seco la dilezione, la maraviglia e la gratitudine di tutte le Genti Italiane.

XII.

Correva la fine del 1847, e crescevano i pegni dati da Carlo Alberto dei suoi liberalissimi intendimenti. E per fermo, quel principe à larghi e veri spiriti liberali, e desiderio sincero di spianar la via alle pubbliche libertà, il quale scioglie dai vecchi legami la stampa, e inizia in tal guisa l'educazione comune politica, e il regno non contrastabile dell'opinione. Dalla quale franchezza di stampa incominciò il Re, per appunto, l'emancipazione dei popoli suoi; la quale dovea [453] per lo meno esser tanta, da suscitare quelle potenze migliori della mente e dell'animo, che sono mezzi necessarj all'opera somma e finale dell'Indipendenza. A rispetto poi di questa, i colloquj degl'Italiani eran tali, e le vistose e pubbliche dimostrazioni del comun voto e proposito sì fattamente moltiplicavano (fra l'altre, la bellissima e strepitosa dei Genovesi il dì decimo di dicembre), che doveano presto o tardi le cose precipitare alla guerra; e però alle armi pensava il Re più che mai studiosamente.

Ma Dio gli tolse di poter maturare il gran caso, e con molto più forti apparecchi emendare il fallo de' suoi ministri. Per vero, al misurato e savio procedere degli Italiani di riforma in riforma e d'una in altra miglioranza, fece prima interrompimento la sollevazione di Palermo, poi l'altra male augurata e tempestosissima di Parigi. Pure, per la rivoltura di Palermo, divenne (mercè dell'affaticarsi de' buoni) il moto riformativo italiano più concitato d'assai, ma non fazioso nè ruinoso. Imperocchè le Carte ottriate dai principi ottennero che alla piena subito cresciuta e già traboccante dei desiderj e delle esigenze, fosse aperto un letto molto capace, e dove il corso di quella pigliar potesse velocità equabile e regolare. Invece, il soqquadro di Francia fu seme esiziale e non estirpabile de' nostri danni, facendo le menti vertiginose, dissolutissimi i desiderj, sbrigliate le passioni, audaci e soverchiatici le sètte.

Ogni buono se ne turbò. Carlo Alberto ne pianse in cuore, ma nulla cambiò del proposito, nè indietreggiò nè si ristette nè schiuse l'animo alle diffidenze ed alle paure. — Dio, con impulsioni interiori e con l'esterno e lungo portento d'inopinabili fatti, comandami (pensava egli) d'incominciare; eziandio a prezzo della vita e della corona, il risorgimento italiano; e il cenno dell'alto verrà adempiuto. Se gli uomini e la ventura sconceranno in gran parte il gesto sublime, esso Dio, col tempo, docile ministro suo, e con l'arti ineffabili di sua provvidenza, il ricomporrà. — In tale giudizio s'adagia Egli tranquillo ed imperturbato. Ma ciò non toglie che, da buon cittadino e da ottimo re, non provveda via via secondo l'urgenza e la pressura dei casi. Arrola nuove truppe; a [454] nuovi e solleciti apprestamenti fa metter mano. Abolisce per le stampe ogni magistrato censorio; pone a guardia delle pubbliche libertà le armi cittadine; promulga lieto e spontaneo il Patto costituzionale, e affidane l'esecuzione ai più caldi e provati fautori e promovitori. E perchè io non ritorni altra volta su tale materia delle franchigie politiche largite e mantenute da questo Re legislatore, io toccherò qui di volo, come Egli, con diligentissima cura, anzi con gelosa e scrupolosa vigilazione sopra sè stesso, mai non trasandò d'un attimo quei confini ch'egli medesimo avea prescritti all'autorità regia, e sempre fece consiglio e volontà propria la volontà e il consiglio del Parlamento e dei Ministri: il che adempieva egli appunto in quei giorni in cui maggiore sorgeva il bisogno d'una leale dittatura, e dopo contratto per diciotto anni di quieto regno l'abito cotidiano dell'assoluto comando. Forse nei negozj civili gli era comodità e riposo il dimetterlo: gli fu duro assai ne' militari, antica e domestica occupazione di tutti della sua Casa, e de' quali avea riempiuto le men tristi ore della sua vita. Pur nondimeno, così volle al nuovo Statuto obbedire e star sottomesso, che quando venne domandato da' suoi Ministri di cedere altrui l'impero supremo dell'armi, mansuetamente rispose: — Se a voi par bene e giovi alla patria e la legge il comandi, si faccia. — E non è dubbio, che qualora a lui fosse venuto trovato tra' suoi capitani alcuno tanto degno di quell'ufficio da spegner l'invidia e gradire all'universale, egli avrebbe, simigliante a quel greco, ringraziato publicamente Iddio del dare alla patria cittadini di sè più valenti: nè mancò di supplire al difetto, chiedendo a Francesi, a Svizzeri, a Polacchi, ripetutamente e con somma istanza, un esperto e già vittorioso conducitore. Tanto la pietà, lo zelo e il debito sempre vivo e operoso inverso la dolce sua terra, facea modesto e premuroso costui, e dimentico di sè stesso e d'ogni passato. Proficuo precetto alle genti italiane, ed anzi rimprovero fiero e solenne, quando si pensa il presumere loro insolente, e l'acuta febbre d'invidia che continuo le travaglia e le rode. Nell'altro esempio dell'osservare puntualissimamente i patti e le leggi, molti principi si specchieranno, speriamo, con buon profitto: a noi rimane [455] la felicità di sapere, che alla Maestà di Vittorio Emanuele II non fa bisogno, e che in ciò principalmente vuol esser egli del padre suo non allievo e seguace, sì bene compagno e competitore.

XIII.

Ma giunta è l'ora, e le sorti della Penisola dipendono tutte oggimai dal terribil giuoco delle spade. Milano insorge disperata e furiosa contra il nostro antico avversario; e il popolo suo dà imagine di quel gigante che pugna con innumerabili braccia da un sol corpo animate, così congiunta e stretta e concordemente feroce combatte quella città. Ne sono gl'imperiali alla perfine scacciati, e Re Carlo Alberto è di pronto sussidio richiesto, perchè il frutto non si disperda della vittoria difficile e sanguinosa. Nel consiglio del Re non siedono del sicuro uomini dubitosi e timidi, nè poco caldi della causa nazionale. Niente di meno, il passo audacissimo e di momento sommo e supremo, pone tutti in grave apprensione, e pendono i più nell'avviso di soprattenere la mossa. — Mancare all'esercito gran parte ancora dei Contingenti, e molti di questi essere affatto svezzi dall'armi: sui nuovi coscritti non potersi fare assegnamento veruno, perchè son al tutto e digiuni d'ogni istruzione: dei fornimenti stessi da guerra aversi penuria grande, e volerci tempo a supplire: sfidarsi uno de' più formidabili potentati d'Europa, nel quale, checchè si dica, rimangono tuttora vivissime forze; soprattutto, un esercito veterano e disciplinatissimo, e turbe infinite da rifornirlo: aver penato Napoleone e la Francia intera a domare l'Austria; che potrà il Piemonte mal preparato? andarci la corona e l'onore di S. M., la salute dei Subalpini, l'avvenire d'Italia. — Così ragionavano i consiglieri; ma il Re, con aspetto animato insieme e sicuro, rispose: — Signori! i Milanesi, fratelli nostri, son minacciati di sterminio e mi domandano scampo; negherò io d'ajutarli? innanzi al dovere la volgare prudenza si tace: in me riposate; io mi fo di tutto mallevadore: all'armi, Signori, all'armi! — Ciò dice, e smosso e conseguito l'assenso dei circostanti, manda affrettatamente il Generale Bes, con [456] qualche schiera più spedita e vicina, a soccorrer Milano; dentro le cui mura, per altro, dichiara di non voler porre il piede, quando non abbia per innanzi con lo splendore di qualche vittoria ben meritato di visitarla. Godano altri d'ovazioni e festeggiamenti dal titolo nudo di re e da lusinghiere aspettazioni provocati. Egli arrossirebbe d'esser lodato di sole promesse e speranze, colà dove tutti ànno prodigiosamente attenute e compiute le proprie. Il dì 22 di marzo, intima guerra agli Austriaci con parole le più infiammative del mondo, e che mai l'Italia dalla bocca di un principe suo non aveva udite nè sperato forse di udire. La notte del 26, egli medesimo il Re monta in sella, e ponsi a capitanare il maggior corpo delle sue schiere; le quali, per comando espresso di lui, spiegano al vento i sospirati colori italiani, e il dì 29 entran le porte di Pavia.

Così ebbe cominciamento la guerra del riscatto; durante la quale, che il Re mostrasse valore e coraggio ad ogni pericolo superiori, è poca meraviglia e mediocre pregio a paragone con altre sue doti, e pensando che la militare bravura è comune a tutti della sua stirpe, e già ne' suoi figliuoli risplende segnalata e chiarissima. Ma come non accennare, almen di passata, quanta virtù e fermezza ed annegazione da lui richiedessero gli altri uffici del guerreggiare? Vi risovvengano, Signori, le infermità sue, la complessione distemperata e mezzo consunta, i dolori acuti che il trafiggono, la lenta febbre che il lima e discarna. E contuttociò, guardate come l'indomato suo spirito con istoica sofferenza e ferreo vigore di volontà sostenta il corpo affralito, e partecipa i disagi più duri, e le privazioni più lunghe e penose de' menomi soldati. Ma sulle prime, Egli ebbe almeno a conforto ed alleggiamento d'ogni patire i ben succeduti combattimenti, le belle e frequenti prove dei nostri; vedere spesso il dorso dell'avversario, sperare vicina una prospera e terminativa giornata. A Goito, il 30 di maggio, sconfiggeva il Re trentamila imperiali con solo diciannovemila de' suoi. A vespro, e in quel mentre appunto che la vittoria scoprivasi a tutti sicura e patente, giunsero lettere del Duca di Genova annunzianti la dedizione di Peschiera; fortezza quanto altre mai gagliarda e munita, con abilità e bravura difesa, e per [457] soccorrer la quale movea da più bande molto sforzo di gente. Corre la nuova tra le ordinanze, ripetesi di schiera in ischiera, e d'indi escono voci infinite con un sol suono che grida: — Viva Carlo Alberto re dell'Italia. — Beatissimo lui, se in quella giornata medesima, su quel campo fatto glorioso, tra quelle armi vincitrici e incontaminate, avessegli il piombo nemico squarciato il petto e recato la morte. Ma sarebbe fallita alla misera Italia, troppa gran parte dei documenti e degli esempi che le bisognano, e i quali doveano mostrarsi specchiati e perfetti nell'esule volontario di Oporto! Molte cose memorevoli io taccio e trapasso. Ma se mi vien meno il tempo di raccontare le belle e venturose fazioni dell'esercito nostro, dovrò io distendermi a far narrazione e pittura delle sfortunate e sinistre? Descriverò io con dolore ciò che è in mente di ciascheduno, la battaglia di Custoza, le vettovaglie a un tratto mancate, l'esercito Subalpino per gli stenti della fame e gli spasimi della sete atterrato e non vinto? Narrerò come Carlo Alberto, o per difender Milano o per procurarle almeno mansuete condizioni dagli imperiali, abbandonasse i ripari certi che aveva dietro le sponde del Po e del Ticino? Dirò come protestasse a molti più avventati che coraggiosi, — poco importargli di farsi uccidere quivi o altrove, tal dì o tale altro; e però, quando persistessero fermamente a volersi ad ogni costo difendere, e privi eziandio d'ogni speranza d'esito buono, ei disdirebbe le convenzioni trattate col maresciallo austriaco, e di costa a loro combatterebbe insino all'ultimo sangue? — Narrerò altresì com'egli effettivamente disdisse i patti, e il Municipio invece li rannodò e concluse, scorgendo certissimo lo sterminio della città; e come di quindi nascesse scompiglio feroce, ire implacabili e pazze, rischio estremo di guerra fraterna, rischio estremo di vita pel calunniato Monarca? Scrivano di tal subbietto i nemici nostri, e palpino volentieri quelle luride piaghe: io ricondurrò prestamente il vostro pensiero sulla bontà e intrepidezza di Carlo Alberto; le quali, a guisa di nave fatta colle percosse, sotto il martello dell'avversità vedremo riuscire compiute e ammirande, e alla civile santità conformissime.

[458]

XIV.

In dieci dì, la ruota dei casi umani l'à dalla celeste cima travolto nel fondo, e con lui è inabissata la patria italiana. Quante speranze tradite, e che moltitudine tetra d'ingrate memorie gli assedian la mente e gli pesan sul cuore! Mai non lesse egli in alcuna storia un sì alto principio a sì vil fine cascato. L'Europa tutta inarcava le ciglia (or fa pochi mesi) sull'assennato, concorde e virtuoso risorgere degl'Italiani. Ora ogni cosa è corrotta dalle fazioni, e gli animi appena congiunti ed affratellati, si sciolgono e s'inimicano. Dove sono i popoli con esso lui confederati? dove la Dieta nazionale? dove l'Italia cospirante tutta al gran fine, e travagliantesi con tutti i mezzi nella maggiore delle opere? Le scarse truppe toscane che seco menava, soprafatte a Curtatone, si sperdono; le pontificie, vinte a Vicenza e a Treviso, ripassano il Po per non più ritornare; le lombarde vanno in dileguo. Napoli rivoca a mezzo cammino le sue fanterie, volta indietro l'armata, e all'Austria si ravvicina. Roma riprova la guerra in cambio di benedirla, e rappella il Nunzio che aveagli spedito nel campo a conforto e amicizia.[43] Non à guari, egli scorgeva il regno suo dilatarsi dall'Isonzo al Panaro; di presente, Tedeschi e repubblicani minacciangli la corona stessa degli avi. Sapessergli almeno le genti buon grado del novo e inudito ardire, e di tanto affanno e pericolo! ma in quella vece, l'invidiano e l'avversano i principi, lo insidian le sètte, e lo ingiuriano le gazzette loro sino ad incolparlo e tacciarlo di tradimento vile e insensato; e fra le moltitudini stesse à fama non certa e molto dispari alla sua bontà e grandezza. Dopo ciò, pongasi in luogo di Carlo Alberto qualunque spirito forte e animoso, ma meno invitto e prestante, e meno retto e santo di lui; e par verisimile assai di sentirlo dire fra sè: — Ò errato a reputare l'Italia capace di migliori destini; perocchè sembra men malagevole [459] accostare l'una all'altra le cime degli Apennini, che i cuori de' suoi figliuoli. In essi la discordia è naturata ed inviscerata, e ogni poco di moto e d'ardore che sopravvenga, ne fa pullulare i semi, all'infinito fecondi. Bello era il tentare; bello scrivere nella storia questa gran prova del mio buon animo. Ora, somiglierebbe a sciocchezza, poichè il naufragio della Nazione vien sicurissimo, il non procacciare salvezza alla mia corona ed al popolo mio. Sentiranno gl'Italiani disconoscenti quello che in me possedevano, quello che in me ànno perduto e loro è impossibile ricuperare. — Ma l'eroica mente di Carlo Alberto così non ragiona; imperciocchè, dall'ora ch'ei concepì la virtù civile perfetta, e giurò in cuore la impresa illustre e magnanima, ei fu, come a dire, trasfigurato, e incentivo di privati interessi e ambizioni più nol toccò. Quindi gli strabalzamenti della fortuna, i successi dell'armi ingiuste e spietate, le malignità umane, le scoperte frodi, le dissipate illusioni, possono all'anima sua recare trafiggimento ed angoscia, ma non piegarla nè tramutarla. Scordando sè e immedesimandosi tutto con la sua patria, vive non della propria ma della perpetua vita di quella. Ripiglieràssi la guerra o no? placherannosi le sorti o peggioreranno? Risorgerà egli onorato o sempre starà giacente; raccoglierà biasimo o lode; morrà chiaro o disconosciuto? Queste cose, a petto della salute d'Italia, e a vista delle remote e finali vicissitudini delle nazioni, sono nel giudizio di lui non più che danni e accidenze particolari, e declinazioni transitorie del corso diretto e inerrante della provvidenza. A lui basta discernere, che quello che oggidì non accade, accadrà domani o il dì dopo o non sa ben quando, ma certo accadrà. Fatale è il conseguimento dei fini legittimi ed eminenti dei popoli: ma chi lo vedrà col lume terreno e gli occhi di carne, Dio solo conosce. Forse tutti coloro che travagliansi oggi per ciò con ansiosa pena, giammai non mireranno il bene che tentano e sperano; ma beato chi scende dentro la tomba consolato dalla visione dello immancabile e giocondo avvenire. Per fermo, di tutti i beni mondani la gloria e la buona fama tengono il colmo, e crucio gravissimo a sostenere è la beffa e lo strazio del proprio nome. Pure, gran conforto è a pensare che il [460] dì della gloria spunterà nondimeno sull'onesto e sul prode: conciossiachè l'onore necessariamente si sposa con la virtù; e il sole della verità consuma col tempo il fango e il lezzo delle umane tristizie.

A tale santità di pensieri e a tale prestanza di cuore si alzò Carlo Alberto per l'efficienza miracolosa della religione civile, in cui la pietà verso Dio e la carità inverso la patria si contemperano e si confondono: il perchè qui rinasce, io ripeto, la virtù greca e latina, ma più integra e meno fastosa, e non dubitante di sè medesima come quella di Bruto, e insegnante a Catone di saper sopravvivere alla sventura. Per tale virtù, mentre i partiti si accusano e si rimbrottano rabbiosamente, Carlo Alberto nè si adira nè accusa nè maledice, e oppone con regia alterezza alle macchinazioni la legge, alle improntitudini la pazienza, alle calunnie il disprezzo. Per tale virtù, mentre cresce da ogni banda lo scoramento, e mentre l'accorta diplomazia si sbraccia a persuadere la pace, or proponendo discreti patti e al Piemonte assai profittevoli, ora indugiando ed intrattenendo e con arti sottilissime spaventando, Carlo Alberto maravigliasi forte, che un primo rovescio abbia intorno a lui freddato tanto bollore, e sdegnasi di negoziare a pro degli Stati suoi proprj, dove si tratta della salvezza generale degl'Italiani: per questa sola avere pericolato la vita, e quella carissima de' suoi figliuoli; aver profuso ogni suo tesoro, interrotto ogni studio di pace, ogni domestica contentezza e quanto à di bene il regnare. Quindi, del voto risolutissimo delle due Camere, di doversi ritentare le sorti dell'armi e ripetere con ogni fierezza e ostinazione la guerra, egli più che tutti gioisce e l'approva, stimando con buona ragione, che il sollevamento Ungarico, i mali umori de' Croati, il resistere di Venezia e il prossimo dar nell'arme di tutta la Lombardia, porgano alla misera Italia occasione e speranza di una felice riscossa. E però, come nulla avesse ancora operato e patito, come arridessero appresso di lui le prime intatte lusinghe, come non fossersi le fazioni piaciute di satollarlo d'oltraggi e con isconce menzogne ucciderne la fama e l'onore, tranquillo e fidante, e ne' rischi cresciuti e moltiplicati [461] più impavido che per l'innanzi, ecco impugna la seconda volta la spada, e pianta di nuovo nel suolo lombardo la bandiera del nostro riscatto.

XV.

Quello che ne seguisse, non è qui, pur troppo! occulto a veruno. Sotto i bastioni di Novara, l'Italia stramazzò tuttaquanta; e il giardino del mondo, salve queste poche provincie, è dalle barbariche torme novellamente calpestato e diserto. Fu supremo infortunio; se non che, la bontà eroica di Carlo Alberto vi lampeggiò di tal lume, che la stessa calunnia abbagliata e svergognata si ammutolì. Troppo m'è ingrato e penoso, che dovendosi per me toccare queste cose leggieramente e per transito, io non possieda almeno una più maestrevole arte di compendiarle.

V'è noto, che nella giornata funesta di Novara, il valore tragrande degli ufficiali e di alcune schiere elettissime fece per lunga pezza propendere la vittoria dal lato nostro. Se non che, in sul tramontare, gl'imperiali ingrossati di nuove truppe, rinfrescarono con tal vigore gli assalti, che non pure s'ebbero in mano la Biccocca, già presa e ripresa più d'una volta e con molto sangue; ma fu forza ai nostri di cedere e di ritrarsi da tutte le parti, ricoverándosene buona porzione dentro Novara. In quel punto, riarse l'ira pertinace ed arcana de' nostri destini. In parecchie ordinanze entrò lo scompiglio, in alcune lo sgomento, in altre l'indisciplina, nell'esercito intero la certezza e lo sconforto della disfatta. Prima, una lunga fila di feriti e fuggiaschi, mista di cavalli, d'artiglierie, di carriaggi, si rimpiattava in città, e propagava intorno mestizia e paura. Seguivano altre colonne poco ordinate, ed altre affatto scomposte e dal digiuno allibbite. Qua ufficiali come dissennati per crepacuore; là caterve di ammutinati che predavano e saccheggiavano; poi squadroni di lancieri avventantisi contro i rapinatori; poi l'aria assordata di strida, le vie tinte di sangue e di cadaveri ingombre; mentre sugli spalti continuo sparavano le artiglierie, e fuor [462] delle porte, a notte già chiusa e sotto la fredda pioggia, duravano ancora ostinati alcuni battaglioni a combattere, non più per la fortuna delle armi, ma per scemar la vergogna. In tutto quel giorno, Re Carlo Alberto aveva così alternati e meschiati gli uffici e le parti di capitano e di fantaccino, che parecchi de' suoi Ajutanti erangli morti dallato; nè però consentì mai di ritrarsi a luoghi men minacciati. Poi, quando in sul calare del sole riconobbe la battaglia perduta, e tornare inutili le prodezze del Duca di Genova per rivocare al conflitto gli stanchi e scorati, inutile ogni uso ch'egli stesso faceva per ciò dell'autorità regia ed ogni efficacia d'esempio, cesse riluttante al suo fato, ed a lentissimi passi e confusi, nulla badando ai projetti che ognora più spesseggiavano, faceasi prossimo alla città; quando gli giunsero avvisi certi degli sforzamenti e delle rapine che là entro e fuori si commettevano dai soldati suoi proprj. Allora, quel grande infelice, rotto il silenzio e l'esterior calma che in tanto disastro sapea pur mantenere, sclamò, con profondo trambasciamento del còre, quelle memorande parole: — Ahi! tutto è perduto, ed anche l'onore. — Nè potendo ristarsi nè quietare nè correre, cavalcava agitato e affrettato lungo gli spalti ed i baluardi della città. Narrano, ma io non ne so netto e sicuro il vero, ch'Egli meditando una fazione così temeraria come gloriosa, facesse interrogare alcun drappello di cavalieri, se volevano in quella medesima ora a un mortale cimento seguirlo: risposero, che volentieri; ma che più non reggevano la persona, e mal potevano, per la fatica, le armi. Ma, checchessia di ciò, quest'un fatto è certissimo ed assai vulgato, che vedendolo il generale Durando esposto tuttora alle offese del nemico, ed anzi cercare i luoghi di più manifesto pericolo, pigliò ardire di usargli alquanto di pietosa e cortese forza, e, strettagli affettuosamente la mano ed il braccio, di là lungi il traeva. A cui il Re, con ineffabile dolore impresso nel volto e nel suono delle parole: — Generale, disse, questo è l'ultimo giorno mio, lasciatemi morire. — Voi l'udiste: l'eccesso dei publici mali faceagli cara sopra ogni bene la morte, e come uomo che veste carne, umanamente si doleva e parlava. Ma che niuna disperazione si nascondesse in quei detti non degna [463] della civile santità e d'un gran cuore italiano, lo testimoniano gli atti di lui successivi, e quello che raccolsero ammirati dalla sua bocca gli abitanti di Antibo, ai quali, tre dì soltanto dopo il terribile caso, affermava essere la causa italiana rivivente ed imperitura; e che quandunque e comunque fosse la guerra per rinnovarsi contro dell'Austria, Egli saria ricomparso a combattere, volontario soldato tra i volontarj. Le quali cose ci rendono certi, che qualora fossegli riuscito d'accattar quella sera una pronta morte dalle mani degli stranieri, già non avrebbe cadendo gittato come Koschiusco la spada, e sconsolatamente gridato: Finis Italiæ. Ed anzi, in quel punto medesimo in cui parlò quelle tetre parole al Durando, ripigliato l'abituale e fortissimo impero che esercitava sul proprio animo, concepì e risolvette un'azione più difficile del morire. E per vero, entrato appena in casa il conte Mellini, dichiarò ai circostanti, che per attenuare al possibile quel tremendo infortunio e far tollerabili i patti del secondo armistizio, egli, come specialmente odiato dal capitano dell'Austria e sospetto ai diplomatici e ai principi, e d'altra parte geloso e sdegnoso supremamente dell'onor suo, risolveva di abdicare. Subito, ciascuno gli fu intorno, e i figliuoli segnatamente, per ismuoverlo da quel proposito. Ma egli, levatosi in piedi, con fermo viso ed atto imperante, soggiunse: — Io non sono più il Re; vostro Re è il mio figliuolo Vittorio Emanuele II. — Cresce e propagasi il lutto e l'accoramento, scorgendosi troppo bene, che piena ed immutabile rimaneva quella sua volontà. Egli, ristrettosi a breve colloquio col nuovo Re, parlògli l'estreme parole, pienissime di virtù e sapienza: — dolergli forte che incominciasse a regnare in congiunture sì gravi e sul pendio di tanta ruina; ma i saggi che avea veduti di lui, dargli buon pegno che salverebbe il trono, l'onore e la libertà; tre cose che pel buon principe fanno una sola, e che disgiunte, tradirebber la gloria e la prossima grandezza e potenza di Casa di Savoja. Al monarcato non porgere più fondamento e splendore il dritto divino, ma la civiltà e larghezza degli istituti, la religione del giuramento e l'universale dilezione ed estimazione; le quali non saranno mai per mancare quanto tempo i re, piuttosto che dominatori [464] ed arbitri, gradiranno di essere i primi magistrati delle lor patrie. Credesse ciò a lui sopra tutti, il quale avea scòrta la differenza che passa tra l'affezione de' cortigiani e quella dei popoli, e quanto sia generoso e soave regnare più assai come cittadino fra uguali, che come signore fra sudditi. Del rimanente, si ricordasse ogni dì, ripensasse in ciascuna ora, in ciascun istante, dove fosse egli nato e da cui. — Queste cose diceva risoluto e tranquillo, mentre d'ogni intorno non era che pianto e costernazione.

XVI.

Oh quanto è vero che gli atti umani tirano ogni pregio e decoro da entro sè, e niuna cosa li può far grandi e memorevoli eccetto la sola virtù! Di molti principi segna e menziona la storia la rinunciazione del trono, e in questo secolo massimamente, alle corone poco grazioso e benigno. Ma radissime volte all'atto è seguitata la commendazione e la gratitudine delle genti, perchè mosso da cagioni o non tutto virtuose, o poco o nulla spontanee. A Carlo Xº, a Luigi Filippo, a Ferdinando austriaco (per tacere d'altri), diè legge la necessità e non l'elezione. In passato, non furono ingiustamente a Cristina di Svezia cantate lodi superlative da tutti i poeti d'Europa; ma, infine, che fece ella se non posporre il trono all'apostasía, e offrirsi poi a fastoso spettacolo a tutte le corti, e non si privando d'alcuna pompa e d'alcuna regia delizia? Certo, volonterosi abdicarono Diocleziano, Carlo V e Carlo Emanuele di Savoja: ma come dell'alta ricusazione si pentissero poi e si arrovellassero il primo ed il terzo, a nessuno è celato. Carlo V, il glorioso fatto guastò con la boria e l'ostentazione, e continuando a voler governare l'Escuriale dalla sua cella di San Giusto, troppo ancora sensitivo alle umane grandigie, benchè facessesi vivo distendere in sulla bara e celebrare il mortorio.

Il deporre, invece, che fa lo scettro Re Carlo Alberto, oltre all'essere volonteroso affatto e spontaneo, à per cagione immediata ed unica la intenzione sincera del bene; e vien [465] fatto con semplicità e modestia, non ostanti mille contrarie preghiere e persuasioni, e quando a lui è cresciuto sopra misura l'amore, la venerazione e l'obbedienza dei popoli. Egli non iscambia, è vero, la reggia e il monarcale paludamento con la povertà superba e affettata d'una cella e d'una cocolla: ma perchè l'alto animo suo si mostri aperto ed intero qual è, e il frutto che spera dell'abdicazione non sia dimezzato, danna sè stesso ad esiglio perpetuo; la consorte, i figliuoli (degni tanto di lui), le paterne case, gli amici d'infanzia, la sua Torino abbandona; e non soffre che il seguano nel remoto ritiro, non che l'apparato orgoglioso, ma gli agi e le commodezze del trono. In quella notte medesima, preso commiato da tutti e ognun ringraziando affettuosamente, con due soli famigli, così stanco e spossato come dalla battaglia era uscito, con la poca moneta che improntò da' suoi Ajutanti, avviossi quel generoso verso la lontana terra che a ricovero s'avea scelto. Procedeva tacito e scompagnato, senza più insegna nè onore nè vestigio alcuno di re; ma nelle sale del Parlamento rimbombava da ogni lato l'acclamazione del suo nome, e solo a tempo a tempo la interrompevano i singhiozzi e le lacrime dolci e abbondevoli d'amore e di gratitudine: ognuno che di lui ragionava, prendea dal subbietto facondia insolita e prepotente; e per dar fine a quell'estasi (se posso così domandarla) di meraviglia e dolore, fu bisogno ricordare la maestà del luogo e la fierezza sopraccrescente dei casi, la quale piuttosto che piangere di tenerezza sulla bontà eroica di Carlo Alberto, ricercava da ogni buon cittadino che se ne imitasse la costanza e il coraggio. Spettacolo novo e sublime, e non potutosi ancor mentovare dagli annali d'alcun Parlamento. Egli fu quel dì salutato la prima volta pubblicamente col nome augusto di Martire: quindi un'aureola celeste e perdurabile l'incorona, e il suo trionfo vassi di mano in mano tramutando in apoteosi.

Io mi querelava più sopra di dover tacere nel mio racconto moltissimi particolari, pieni di cospicui documenti e d'alto e maschio sentire. Pure, non voglio del mesto pellegrinaggio di Carlo Alberto lasciare ignoto un accidente, che nell'esteriore dimostranza è nulla, e rispetto ai secreti del [466] cuore è oltremodo significativo. Guardatelo; egli entra sconosciuto in Burgos, metropoli della Vecchia Castiglia. Quante memorie in quelle visigotiche mura, in quel combattuto castello e in quel tempio vetustissimo, dove Pelagio prometteva e giurava al Signore la redenzione delle Spagne, dove i Sanci e gli Alfonsi e il Cid Campeadòr e i Cavalieri d'Alcantara e di Calatrava sospendevano per trofeo le verdi bandiere e le ingemmate scimitarre! Memorie care e venerande, segnatamente a Costui, ch'ebbe tutta l'anima sua nudrita di spiriti cavallereschi e infiammata della fede dei popoli antichi; a costui, ripeto, che adorando nella Causa d'Italia un giusto e santo decreto di Dio, scorgeva nel suo Piemonte quasi un'immagine delle Asturie Spagnuole, e ne' Croati e negli Stiriani una simiglianza di Mori e di Saraceni.

Chi è questo forestiero, domandava la gente tra curiosa ed attonita, così pieno di maestà e di pensosa e tacita melanconia, e il quale erra così solo pel mondo? Quindi, con atto involontario, fánnogli ossequio e cortéo. Risponde con grazioso saluto, e senza nè rallentare i passi nè divertirli, va diritto alla Cattedrale. E quivi cadendo ginocchioni, com'era usato, dinnanzi a Cristo in sacramento, entra in tale fervor di preghiera, che in breve tempo gli occhi e le gote gli si empiono e bagnano di caldissime lacrime, senza fine rinascenti e copiose. E ricordate, o Signori, che nessuna delle sue grandi sventure gli spremette mai dagli occhi una stilla nè gli trasse dal petto un gemito sconsolato: solo nel grembo di Dio quell'animo generoso non teme di rallentare un poco la rigida custodia che fa di sè stesso, e dirottamente piange.

Oh perchè il mondo non seppe il tenore delle sue preci, e non ebbe orecchi per quel colloquio dell'anima! Molti apprenderebbero del sicuro, come convenga pregare Iddio ne' calamitosi giorni della patria, come adorarlo umilmente da Italiani e da cittadini, e conseguire virtù rassegnata insieme e imperterrita nelle politiche disavventure. Lacrimava dirotto, e la pallida e severa sua faccia pareva in quel santo lavacro tramutarsi quasi e rabbellirsi di gioventù. Imperocchè non si mescolavano alle lacrime sue nè rimorsi nè terrori, ma contentezza invece del bene accetto sacrificio, e sicurezza [467] intera di esaudimento; e forse un domandare da sua parte e un promettere lassù dal cielo con arcane ed intime spirazioni, che presto sarà per uscire dai travagli del doppio esilio.

Ma come ciò sia, questo rimane vero, che al Principe martire Dio non consentì sulla terra neppure un anno di pacato raccoglimento e di blando e ricreativo riposo; perchè in lui dovea colorirsi e perfezionarsi fino alle menome lineamenta la imagine e la figura dell'Eroe italiano, quale il vogliono i tempi, e secondo i nobili ed austeri precetti della Religione Civile. Quindi, in sul cadere di luglio, aggravatesi rapidamente le vecchie infermità sue, immaturo d'anni, maturo di magnanimità e di gloria, fu con soave transito ricevuto tra i seggi immortali, che ai vendicatori delle nazioni e ai benefattori insigni del genere umano sono colassù apparecchiati.

XVII.

Io sempre ò notato e ripensato fra me, con cupa melanconia, come la felicità di Giorgio Washington sia troppo rara nel mondo, e come troppo sovente agl'iniziatori d'imprese sante e magnifiche venga interdetta la gioja di trarnele essi medesimi a fine. E qui, per tutti gli esempi valgami quello vulgatissimo e sì confacente al luogo ove parlo. Io dico del profeta legislatore, morto in sul passo della terra di promissione, e innanzi d'aver veduto piantare lungo il sacro Giordano i tabernacoli d'Israele. Forse nascondesi in ciò un gran mistero di placamento e d'espiazione, parendo che non si possa la libertà e prosperità dei popoli conseguire senza sconto di dolore e tribolazione, la quale ne' più illustri e innocenti torna maggiormente accettevole. O forse è divino decreto, il qual vuole per più alta glorificazione degli uomini sommi e delle vere virtù, che laddove queste nell'adempimento del fine parrebbono assai compensate e ben profittevoli a sè, rimangano in quella vece impremiate sempre ed a sè disutili, e sieno cimentate e provate insino al dì ultimo dalle avversità; la maggior delle quali, senza alcun dubbio, è [468] perdere l'intento massimo ed unico per cui fu spesa e logorata ed afflitta la vita intera.

Di quest'arte eccelsa e terribile di provvidenza vedemmo essere gran testimonio alle viventi generazioni il giusto che qui piangiamo: Egli a tanto dolore e jattura si rassegnò con pio e modesto silenzio. E ciò non pertanto, diviso com'era da ogni speranza, e sprovveduto d'ogni potere e d'ogni ricchezza, volle pur di lontano e insino agli estremi spiriti proseguir sempre a giovare l'Italia in qualunque suo pensiero ed atto; siccome colui che aveva deliberato di lasciar dietro sè ogni cosa, salvo la perfetta bontà e grandezza dell'animo esulanti insieme con lui, e per efficacia delle quali, eziandio nell'umiltà e solitudine del suo romitaggio, ei porgeva esempj e proferiva parole da registrarle la storia e ripeterle con meraviglia i nostri nepoti. A lui nessuna nuova sciagura della patria era rimasta celata. Sapeva le stragi di Brescia e la caduta dei Siciliani; quella dei Veneti presentiva. Sapea Toscana invasa, Roma collegarsi con Vienna in intimo patto d'amicizia e d'ajuto; la Russia schiacciar l'Ungheria; Francia e Inghilterra rimanersene spettatrici; in Alemagna quel desiderio spasimante di libertà e d'unione confederativa venirsi agghiacciando; sì gran tempesta di animi, sì gran turbinio di casi somigliare un esercito d'api azzuffato, il quale da pochi grani di sabbia lanciativi dentro s'acqueta e discioglie. Cresceva amarezza e cordoglio acutissimo all'abbandonato Re ognuna di esse sventure o prevista o saputa: ma con tutto questo (giova pur replicarlo), la fede di lui nel trionfo del buon diritto e nella libertà e indipendenza degl'Italiani, quella robusta fede che sempre e ad ogni opera sua porse i fondamenti e i principj, uguale a sè stessa e indeclinabile si rimaneva; e quale fu in trono, tale durava in esiglio; quale sotto le prime percosse, tale si mostrava sotto le ultime e irreparabili dell'infortunio. Conciossiachè ella ardeva nel petto di lui nudricata e difesa dalla virtù, come fiaccola di santuario perennemente custodita ed alimentata, e che i venti e le procelle di fuori nè crollano nè oscurano: con ciò insegnando a noi tutti e all'età incredula e fiacca che il buon cittadino può d'ogni cosa vivere in dubbio e [469] in paura; non delle speranze, però, fondate nella giustizia e nel dritto; non della sapienza altissima che creò da principio le leggi e gli ordini eterni del mondo civile, e giurò nel profondo consiglio suo la salute delle nazioni. Cotale trovarono Carlo Alberto i messaggi del Parlamento, e sì fatti sensi, e non altri giammai, racchiudevano le sue risposte e i suoi caldi e ingenui colloqui, nessun dei quali menava egli a fine senza molto rammaricarsi e compiangere le nuove conculcazioni e gli strazj della dolce patria perduta. Quanto a sè e alle avversità proprie, al grande scopo fallitogli, al deposto diadema, all'acerbità dell'esiglio, ai sostenuti travagli, alle immedicabili infermità, al poco avanzo di vita, nessun lamento giammai e nessuna stanchezza, come fossero sacrificj appena uguali al suo debito, od accidenti di nulla importanza verso la causa comune e perpetua d'Italia. Degli sconoscenti e calunniatori, di tanti che lo schernirono, e ne abusarono l'amicizia e la fede, si risentiva sì poco, che pareva neppur saperli e neppur ricordarli. Ma, rispetto al trasmodare dei partiti, ai lor soppiatti maneggi, alle fomentate dissensioni, agli eccessi, ai vilipendj, alle slealtà, se reputava dannoso il tacere, sempre mansuetamente parlavane, compiangendo piuttosto che infierendo e increpando: accusava i tempi, scusava gli uomini, e solo pregava da Dio che l'esperienza luttuosa giovasse, e a tutti apparisse manifestissima la necessità di maggiore prudenza, concordia ed annegazione; perchè appena imparato ad esser virtuosi ed uniti, nessuna forza umana, diceva, c'impedirebbe di diventare nazione, e pareggiar di nuovo con l'opere la inestimabile grandezza delle memorie e del nome. Però, quest'unico desiderio raccomandava, morendo, alla carità de' figliuoli, all'amore, alla fede de' popoli suoi; questo consiglio legava come un tesoro ai presenti Italiani ed agli avvenire.

XVIII.

E noi giuriamo d'esser virtuosi ed uniti, e sul tuo feretro lo giuriamo, che poco o nulla disgrada dalla santità d'un [470] altare. Vero è bene, che secondo l'universal rito, la Chiesa (benigna madre) procaccia con molte preci e olocausti di suffragare l'anima tua, e propiziarti il giudicio di Dio, il quale ad ognuno volge tremendo ed occulto. Ma, in cospetto di sì sfolgorante virtù e nel mondo sì inaspettata; per quel paterno e incomparabile amore da te dimostrato ne' tuoi soggetti; per le libertà e ottime leggi largite loro, e con fede antica e gelosissima conservate; per l'esempio e la norma che agli uomini tutti ài segnata dell'alta pietà religiosa e della civile carità, convenientissime ai tempi; per quel testimonio che ài fatto solenne e dolorosissimo della verità e della giustizia, onde del nome di Martire ti coroni; lecito è a noi di pensare, che già trionfi nel sommo dei cieli, purissimo d'ogni tabe, e che meglio ti si addirebbero gli osanna e i turiboli, che le piangevoli requie e le funebri lustrazioni. Ciò noi crediamo saldissimamente; e quindi dal tuo sepolcro come da veneranda reliquia, piglieremo gli augurj e aspetteremo l'aura di redenzione; e te accompagnato e seguito lassù dagli spiriti benedetti che per l'Italia gettaron le vite o crudelmente patirono, te invocheremo celeste riconciliatore tra Dio e la patria infelice. Tu per amore di lei soffristi di non più rivederla e ogni cosa diletta lasciare; ma la tua gloria sopramondana a Lei ti raccosta e congiunge con perpetuo bacio ed abbracciamento, e a noi tutti nella tua forma migliore ti fa presente; nè mai ci paresti più vivo e spirante, nè mai sì vicino, nè meglio sentito e veduto. Noi sentiamo nei cuori la possente tua voce; vediamo l'anima tua volante sulle nostre bandiere; e il contatto divino e diuturno di lei con tutte l'anime nostre ci riempie e scalda non ben sappiamo di quali affetti soavi, e di qual pungente desiderio d'opere grandi e intemerate e degne d'Italia. Prosiegui, etereo intelletto, con quella efficacia stupenda ed ineluttabile che ora puoi colassù da Dio medesimo derivare, prosiegui a correggere i petti traviati e superbi de' tuoi cittadini. Mostra loro, che non accade senza terribile necessità l'accumularsi degli infortunj, l'infierire dei destini, l'empie battiture dei Barbari; conciossiachè unicamente nelle calamità e nel dolore ripurgansi al pari degli individui eziandio le [471] nazioni, e come oro nel fuoco lasciano alfine le scorie de' vizj, e rimondansi d'ogni macchia e bruttura. E il buon antico metallo degli Italiani, scorgesi apertamente che dal secolare servaggio, dalle astiose passioni e dalla ruggine dell'invidia e dell'albagia, troppo è ancora offuscato e corroso. Mostra deh! loro, che in tanta dissoluzione dei vecchi principj e delle vecchie credenze per ogni parte d'Europa, e in tanto universale rigoglio di basse cupidità e ambizioni, non da alcuna autorità di fede e di legge infrenate, a quella nazione è promesso non che l'essere e l'arbitrio di sè, ma sì veramente il morale e intellettuale imperio del mondo, la quale saprà innanzi e meglio dell'altre infiammarsi della virtù, riedificare i principj, fuggir le sètte e le sedizioni; e praticando ogni più duro e travaglioso dovere di cittadino, procedere nobilmente al possesso comune ed inconsumabile del diritto e della libertà. Imperocchè una voce arcana mormora dentro il cuore dei popoli, e va lor dicendo: — apparecchiate le vie, addirizzate i sentieri alla nuova forma di civiltà. Il mondo à sete di giustizia e credenza; à sete di libertà germogliata dal dovere, di scienza irradiata dalla religione, di popolari reggimenti corretti e magnificati dall'educazione e bontà delle plebi. Sorgete, apparecchiate le vie; e quel primo in fra voi che ritempreràssi nella fede, e arderà del fuoco della Religione Civile, e farà gl'infimi e i sommi con più amorevole atto insieme abbracciarsi, quello spezzerà del sicuro, come Sansone, le porte del carcere suo; quello grandeggierà fra voi tutti, e le sue piaghe saranno sanate, e tornerà a risplendere sulla montagna come signacolo delle genti.

Anima di Carlo Alberto, regnatrice vera e perpetua d'Italia, sento, io medesimo sento che del tuo soffio immortale mi scaldo, e già della virtù m'innamoro, della fratellevole unione ò desiderio infinito; e parmi, nè stimo di errare, che simiglievoli effetti vai tu qui producendo negli astanti numerosissimi. Concordia, o Liguri, o Piemontesi, o Siciliani, o Napoletani, o Lombardi; amore e concordia, per Dio. Dopo tante allucinazioni ed esorbitanze, dopo tanti odj e sospetti, dopo le vane congiure, i temerarj conati, le gare fratricide e spietate; giovi e talenti a noi pure di scrivere [472] nella memoria, o meglio nel sacrario del cuore, quella dantesca rubrica: Incipit vita nova. Così i raumiliati e rifatti dalla sventura, così legati e stretti d'un nodo, e potenti di fratellanza e di carità, faremo vero quel tuo detto sovrano e profetico, o Re santo e inspirato; quel detto a cui solamente il civile nostro dissidio à dato sembiante di amara menzogna: L'ITALIA FARÀ DA SÈ.

[473]


Due mesi dopo la recitazione dell'Elogio, veniva l'Autore scelto deputato al Parlamento Piemontese dalle città di Genova e di Pinerolo. Ma stategli dal Governo negate le lettere di naturalità, Egli pubblicava nelle gazzette le parole che seguono:

AGLI ELETTORI DI PINEROLO E DEL SESTO COLLEGIO DI GENOVA.

Fallitami una condizione richiesta ad esercitare l'ufficio di Deputato, a me fallisce, Elettori, eziandio l'onore e la dignità di sedere vostro rappresentante nel Parlamento. Ciò, per altro, non mi scema il dovere di ringraziarvi pubblicamente, siccome fo, del mandato da voi proffertomi; il quale, secondo mio costume, nè avea chiesto, nè in alcuna guisa brigato e sollecitato. Io vi ringrazio, pertanto, con caldo animo di aver voluto, scegliendomi, rendere buona testimonianza all'intera mia vita, e dimostrare altresì ai popoli subalpini, che voi tenete per concittadini vostri tutti i figliuoli d'Italia, e credete ottimo consiglio di non rimovere dalla patria ogni soccorso d'ingegno e d'opera che venir le possa da quelli. Intanto, col vostro suffragio succeduto alle stampe del Comitato Elettorale della Liguria da me sottoscritte, voi dato avete conferma e sanzione ai principii in esse manifestati; e di ciò pure vi riferisco grazie speciali, e trággone assicuranza e compiacimento: perchè non è mancato chi à voluto appuntarle, e far chiose e commenti strani intorno ad alcuni nomi; quasi che una lista prolissa di candidati non sia materia sottoposta a molti accidenti, e ad alcuni peculiari e individuali rispetti e motivi; e la volontà e l'opinione dei proponenti non uscisse chiara e sincera dal tutto insieme della nota. E neppure è mancato in altre provincie d'Italia chi quelle mie proteste d'imparzialità e di spirito temperato e conciliativo à stimato insufficienti, e non abbastanza al presente ministero inchinevoli e amiche: come se un ministero leale e fidante nel proprio operato voglia e possa adombrarsi d'uomini moderati, imparziali e conciliativi; atteso che questi [474] certissimamente piegheranno alla parte sua non pure quando la visibile bontà degli atti di lui e il suo antico e assennato amore delle libere istituzioni ad essi lo raccomandi, ma ben anche allora che, salvo l'onore e i principii, la necessità dell'utile pubblico ciò senz'altro rispetto e ragione lor comandasse. E in ambo i casi tanto più peserebbe e fruttificherebbe il lor voto, quanto non cadrebbero appo veruno in sospetto di servilità e di cieca adesione; e in quanto (giova serbarlo in memoria) le passate miserie e paure non concedono ancora alla moltitudine di spogliarsi di ogni sinistra preoccupazione inverso chi regge la cosa pubblica, o loro s'accosta senza riserbo. D'altro lato, io non so intendere come in paese da passioni tuttora commosso, e dalle quali non sembrava abbastanza immune neppure chi amministra e provvede, e quando era discrepanza non lieve di giudicii e di massime, chi volea ragionar di concordia e persuadere ogni mente ad accorrere a dare i suffragi, dovesse tutto gittarsi dall'una delle bande, e farsi tromba di un sol partito.

Il proposito di tutti voi, Elettori, fu di sottrarre da ogni rischio non solo la legge fondamentale, ma eziandio ciascuna di quelle che sono domandate organiche, e mallevano l'uso e l'autorità dei vostri supremi diritti. Nell'una e nell'altre torna funesta al presente ogni notabile mutazione; imperocchè al popolo fa ora bisogno, sopra ogni cosa, il sentimento comune e profondo della sicurezza, della fiducia e della stabilità e perduranza; e il potere egli, senza alcuna apprensione e sospetto, restringersi tutto col Governo, e francamente e vigorosamente ajutarlo. Ma sia lode al vero; da chi temiamo oggi che possa procedere maggiore pericolo di mutazione e maggior contrasto alle nuove franchigie? dai nemici della libertà, ovvero dai troppo amici? Contro questi è la condizione grave dei tempi, sono l'uso e l'esperienza cresciuti, è il buon senso italiano che disnebbiato dal fumo delle astiose passioni, torna a poco a poco a risplendere di sua tranquilla e nitida luce. Per contra, ai nemici palesi od occulti della libertà, e a coloro che se non ucciderla affatto, vorrebbono almeno a tisichezza condurla, ogni cosa sembra in Europa dare ansa e recar favore; e poco meno che la intera [475] Diplomazia, massime intorno di noi, dà loro di spalla, e tutto dì li rinfocola e sprona e consiglia. Ciò posto, chi non vede la convenienza, o, meglio, la necessità di mandare al Parlamento uomini tanto caldi e fermi e fondati nell'amore di libertà, quanto assegnati e riguardosi; e così indipendenti, imparziali e scevri d'ogni affetto di parte, come leali e conciliativi? Conciossiachè siffatti uomini solamente, senza spiacere agli incerti e incuranti, che sono i più, nè troppo offendere quelli cui il passato facea prode, valgono a spirare fidanza piena e durabile alla parte viva e illuminata del popolo, nella quale sola può da ultimo il nostro liberale Governo trovare difesa sincera, e sostegno naturale e gagliardo. Solo uomini indipendenti e conciliativi insieme ànno vera facoltà di porgere ajuto efficace e valido al ministero presente, talchè resista, dove occorra, con avveduta saldezza e prudenza alle aperte e alle soppiatte esigenze ed insidie esterne; e perchè respinga facilmente sì le innovazioni importune e immature, e le smoderanze degli impazienti e fanatici; e sì quello che al dì d'oggi è più temibile assai, le voglie cioè risorte e i disegni ripigliati di reazione, e qualunque infelice proposta di legge, con fine d'intaccare e restringere le libertà delle quali tutti per lo Statuto godiamo.

Queste considerazioni moveano voi, Elettori, nella vostra scelta; moveano me, con pochi altri buoni italiani, a sottoscrivere le circolari del Comitato Elettorale della Liguria. Io mi do pace assai facilmente che se ne facciano ora poco benevole interpretazioni, e ingiuriose alla fama mia. Più d'una volta i fatti ànnomi vendicato e assoluto degli altrui torti giudicj;[44] ed io so troppo bene, che pesa continuo sopra di me la sventura ostinata, ma non però ingloriosa, di aver dispiaciuto a gente che mai non si placa e mai non perdona.

Genova, li 27 dicembre del 1849.

[477]

SUL PAPATO, LETTERA ORTODOSSA A DOMENICO BERTI.

An non eligendi ex toto orbe orbem judicaturì?

San Bernardo, Consid. IV, 4.

[479]

Fu la presente lettera scritta per venire inserita nella Rivista Italiana, Giornale di scienze morali e politiche che stampavasi non à molti mesi in Torino; e però accenna in principio a un articolo dettato dal chiarissimo professore Berti, intorno alla dominazione temporale dei papi, e pubblicato in essa Rivista il 15 di agosto del 1850.

(Nota premessa alle due edizioni genovesi del 1854.)

[481]

I.

Io non ò dubio, Signor mio, che allo scritto vostro intorno alle cose di Roma, publicato or fa tre mesi in questa effemeride, non tenga dietro l'assentimento e la lode degli uomini savj. Contro all'uso corrente de' giornalisti che si compiacciono di asserir molto e poco provare, e frondeggiano in concetti e in sentenze che, a stringerle bene, dànno scarsa e leggiera sostanza, voi con un ragionare stringato e calzante, e non iscordando mai (quello che in materie tali à gran forza) il testimonio delle storie e il riscontro dei fatti, conducete il lettore a certe e lucidissime conclusioni. Libere parole e forse anche ardite adoperaste in geloso argomento, nel trattare il quale gli assennati fanno ormai troppe reticenze, e troppe iperboli i passionati. E d'altra parte, il buon senno italiano vi mosse a distinguere sempre e con diligenza l'oro purgato ed incorruttibile da sua scoria e mondiglia, separando la sostanza eterna di nostra fede dalle forme caduche e mutabili. Certo, tale moderanza e giustizia che esser dovrebbe usuale, massime in subbietti severi e di gran momento, diviene oggi rarissima; e di là dall'Alpi, molto di più. Vedete la Francia maneggiar di continuo, inverso il papato, o l'adulazione o la contumelia. L'una fazione e l'altra avventa i sofismi come saette in battaglia, e quindi accresce a dismisura la confusione e alterazione degli animi. A noi Italiani, benchè dolorosi di danni e percosse tanto maggiori che avemmo a tollerare da Roma, a noi in questa poca di terra dove possiamo senza pericolo significare la mente nostra, non vien meno la imparzialità del giudicio, e studiamo di recare ordine e luce in quel generale scombujamento. Così non fossero mai gli stranieri sopravvenuti a sturbare l'opera riformatrice de' padri nostri, i quali più volte e con [482] sapienza e coraggio altissimo impresero di raddrizzare e correggere i traviamenti e le pravità della Curia Romana, senza mettere in compromesso alcuno la sostanza della fede cattolica, e fuggendo le controversie d'intorno al domma; una delle peggiori e più mortifere pesti che affligger possano (diceva il Sarpi) l'umana republica.

Io sono stato in forse di movere novamente la penna sui casi di Roma, veggendomi colà fatto segno a incredibile odio e a basse e sfrontate calunnie, ed essendomi state sottratte da mano più inquisitrice che ladra moltissime carte che io preparava di mettere in luce su quel subbietto.

Ma dalle parole vostre, o Signore, usciva uno spirito il quale mi à fatto (io non so come) sentir dentro l'animo che il silenzio a questi tempi, e in tale proposito, parrebbe o incuria o timidità o insipienza; cagioni tutte tre biasimevoli. E se riscrivere tutto un volume sarebbe fatica e tedio sproporzionato all'utilità, non per questo voglio astenermi dal significare brevemente, e senza apparato di stile e d'erudizione, alcuno di que' pensieri che io giudicava dover tornare più profittevoli alla religione e alla patria. Nè già le menzogne calunniose, e l'odio ostinato e cieco degli avversarj non manco miei che d'Italia e dell'universal bene, mi condurranno a parlare stizzito, e fuor dei termini del convenevole. Non può d'assenzio e di fiele avere tinta la bocca colui il quale procaccia continuo di approssimarla alle fonti sincere d'un'alta e libera filosofia. Oltre che, la ragione è cosa serena ed imperturbabile: e non ostante che in Roma abbiano le gazzette spacciato ch'io sono uscito del senno ed ò perduto il ben dell'intelletto, desidero mostrar loro che ò l'intendimento sanissimo, e neppure riescono di provocarlo all'impazienza e allo sdegno. Anzi, voglio entrare con Roma in una gara onesta ed insolita, non tacendo nessuna di sue miserie, e sfidandola tuttavolta alla prova di appuntare d'eterodossia un solo de' miei concetti.

II.

Consento e lodo assaissimo quel pronunziare che fate, che le cose romane non possono convenientemente trattarsi [483] con l'osservazione sola de' casi politici, e con l'indagar le cagioni più materiali e più prossime. E veramente, chi durerà nel dubio e nell'incertezza intorno di ciò, pensando che il supremo pontificato, di qualunque forza mondana e di qualunque regio splendore si attornii, sempre rimane una potestà essenzialmente spirituale, e la cui viva scaturigine è dal lato dell'uomo riposta tutta quanta nelle comuni credenze? Di quindi proviene la necessità (lasciate l'altre ricerche) di esaminare parte per parte cotale ultimo sostentamento della Roma papale, e di scoprire e indicare preciso quali alterazioni profonde ed intrinseche vi sieno accadute, e come cessarle durevolmente.

V'à taluni publicisti in Francia, a cui pare oggi il Pontificato sanissimo ed interissimo in ogni sua condizione, e pur tanto buono e perfetto, che sono tinti di resía tutti coloro a cui entra in capo di dubitarne; e riottosi e pessimi sono que' tre milioni d'uomini cui non garbeggia gran fatto la paterna e mite censura del Sant'Uffizio, e il dover rimanere esclusi soli essi e in perpetuo dalle private e politiche libertà, di che godono o son per godere tra breve tutte quante le nazioni civili d'Europa. Ma costoro volendo troppo glorificare il papato, a me sembra che lo bestemmino, e travaglinsi a scavargli sotto a' piedi la fossa, troppo meglio de' suoi nemici.

V'à poi la schiera de' Diplomatici (io volea quasi dire turba), la quale o non vede o nega il pregio e l'importanza di tutto ciò che trapassa le arti loro e pon fondamento nelle coscienze, ed al cui buon esito nè i ripieghi de' protocolli tornano sufficienti, nè quelle simulazioni e malizie da cortigiani, condite di urbanità e di eleganza. Nel Giulio Cesare di Shakespeare, certo ciabattino romano, per nobilitare l'arte propria, chiama sè stesso, con lepida antonomasia, un chirurgo di scarpe. A me, dico il vero, dove senta discorrere di Diplomazia, torna mio malgrado a mente quel ciabattino del gran poeta, perchè là pure sotto magnifico nome veggo nascosta un'arte infelice di rattoppare cose vecchie e logore, che di lì a poco torneranno a sconciarsi.

Ma, come ciò sia, il pronunziato vostro rimane verissimo, [484] che discutere fondatamente del dominio temporale dei papi mai non si può, senza discutere insieme, non che delle sorti comuni d'Italia, ma dell'essere altresì sostanziale ed universale della cattolicità, e senza porsi a scrutare le disposizioni odierne de' popoli intorno alla fede, e quello che sia per ricondurre nei cuori una religione sincera e viva, e perciò razionabile e non cavillosa, e conformissima punto per punto alla scienza e alla civiltà.

Io, per me, sento di potervi bene asserire, che in nessun argomento morale e politico ò fermato il pensiere più lungamente e sì spesso, come in questo del principato ecclesiastico; mosso a ciò eziandio dalla necessità, sì per essermi tocca la mala fortuna di nascere a quello soggetto, e sì per avere a cagion d'esso la miglior parte della vita trascorso nelle amaritudini dell'esilio. Così, dopo assai meditare ed esaminare, dopo raffrontate le storie antiche con esse medesime e con le presenti realità, e i fatti con le idee, e le applicazioni coi principj, sono da ultimo venuto io pure nella conclusione, che a rispetto di Roma, la controversia politica in niuna maniera non può separarsi e disciogliersi dalla spirituale, siccome quelle che sono ambedue informate da una sola e stessa ragione e natura; e chi presume di tenerle divise e trattar l'una in disparte dall'altra, incorre ad ogni tratto in palpabili contradizioni, e somiglia quello inabile e sciocco artista che volesse in alcuna pittura emendare e mutare le pieghe d'un velo o d'un panno, senza porre veruno studio a conoscere il corpo e i membri che ne sono vestiti; conciossiachè al principato ecclesiastico dà contorni e pieghe la spirituale persona che il regge. E da ciò procede parimente, che in verun altro subbietto di scienza civile insorge fluttuazione e discrepanza maggiore di pareri e giudicj; in nessuno alla verità dei principj contradice e ripugna da ultimo sì manifestamente il fatto, e in nessuno la guerra intestina e sempre mai rinascente dei contrarj elementi annulla i trovati e le risoluzioni dei gran politici.

Leviámone qualche saggio non men curioso che istruttivo. E prima, voi v'imbattete in molti i quali (come onestissimi e al papato assai riverenti) si sdegnano dell'opinione [485] che si professa oltremonte, che pel Papato non dica bene altra maniera di dominio temporale, eccetto la dispotica; e sì provano con ragioni eccellenti, la libertà non dovere mai riuscire avversa ed inconciliabile col principato ecclesiastico, ed anzi dovergli prestar vigorezza e favore. Ma, per contrario, lo scritto vostro afferma e prova con l'evidenza del fatto, che lo Statuto romano nè fu dalla prelatura accettato lealmente, nè voluto eseguire mai, salvo che per cessare i fieri e instanti pericoli. D'altro lato, tal quale esso è (e parve prodigio), inchiude cento clausole e cento riserbi da rendere vana (ove occorra e il consentano i tempi) qualunque franchigia publica, e tutta la macchina del governo rappresentativo. Il perchè, ogni mente oculata è costretta di credere, che rimanendosi Roma quale oggi si vede, e le discipline della sua Curia e le condizioni del Pontificato quali al presente sussistono, ogni qualunque specie di costituzione liberale o diventerebbe in poco d'ora un nome vanissimo, o saría cagione di guerra dolorosa ed interminabile tra la corte ed il popolo, anzi tra la corte e qualunque altra potestà indipendente da lei.

La repentina e terribile necessità dei casi (io replico) carpì ai cardinali quell'informe Statuto; dileguandosi la necessità, doveva esso o cadere, o fare illusorie le libertà che promette. Dopo la battaglia di Custoza, s'incominciò a Monte Cavallo a indietreggiare più alla scoperta, e in governo costituzionale far luogo a due Ministri insigniti di porpora e immuni però da ogni legale sindacato, sciolti dal pericolo di giudizio e di pena, e sempre innanzi alle Camere taciturni e invisibili. Dopo la rotta di Novara, sarebbersi i prelati prestamente disfatti del Rossi, quando non avesse una scellerata mano prevenuto il disegno.

Del pari, v'à chi dimostra con argomenti robustissimi, attinti alla più pura e profonda filosofia cristiana, che il dominio temporale dei papi accordasi male con lo spirito del Vangelo, e ch'essi potrebbero senza jattura veruna, ed anzi con utilità e rinvigorimento massimo della religione, deporlo affatto, e tornare all'antica modestia apostolica. Ma, d'altra banda, tutti coloro cui manca l'animo di pensare ad alcuna [486] essenziale riforma ed innovazione negli ordini della Curia romana, veggono assai manifesto (quantunque vergognino di confessarlo), che a quella Curia, spogliandola in tutto del principato, rimarrebbero brevi anni, forse anche pochi mesi d'autorità e di vita.

E però, mentre parlano ad ogni tratto della fiamma di fede cattolica che li avvampa, mostrano di dubitare del sostegno saldo e perdurabile promesso alla Chiesa di Dio. Ma veramente li turba e tiene perplessi un intimo sentimento, il quale li avvisa, non consistere punto la Chiesa di Dio in certe giurisdizioni fittizie ed ambigue, e in certe viete e dispotiche consuetudini che la sede pontificale s'incaparbisce a voler serbare, ed a cui nessuna promissione di celestiale soccorso fu fatta. Quindi s'ostinano a dire, che il principato ed i suoi conseguenti sono puntello della Chiesa; e a sottrarglielo, potrebb'ella, se non cadere, scompaginarsi; e che non bisogna tentare Iddio, e stringerlo a forza ad operare miracoli: non badando essi che a molto maggior miracolo il vanno stringendo ogni giorno, di salvare la fede e il papato ad onta delle sconcezze ed enormità che seco mena il poter temporale; ed essere un modo assai più sconvenevole di tentare Iddio, quello di volere che per prodigio cotidiano di grazia efficace i preti, arricchendo, si serbino poveri; imperando a modo dei re, si serbino umili; vivendo in delizie, si mantengano casti; empiendo le carceri e alzando patiboli, si mantengano misericordiosi.

Udiremo dire a moltissimi, che bisognava perdonare i prelati romani di assai difetti. Non potevano a un tratto svecchiarsi, e in un giorno solo svestire gli abiti del comando assoluto, nè con leggier fatica avvezzarsi alla libertà, tenuta, e non senza ragione, in sospetto e in paura per tanto tempo. D'ogni bene erano signori e dispensatori; qual maraviglia se contendevano a pezzo per pezzo l'antichissimo patrimonio? Colpa grave dei liberali fu volere ogni cosa ad un fiato. La libertà sarebbe venuta ad oncia ad oncia, e proporzionando il carico nuovo alle spalle del popolo che mal lo reggeva. Queste parole che sarebbero savie in qualunque luogo, trovano in Roma ragioni opposte d'altrettanta validità. Coi prelati [487] romani non potersi fare a metà: cedono pur troppo a due deità sole e terribili, la necessità e la paura. Altrove possono le libere istituzioni avere piccolo cominciamento, ed aspettare dal tempo e dalla educazione publica di profondare ed allargar le radici; ma in Roma tanti germi ne porresti, tanti ne sbarberebbero, e tutto il passato lo testimonia. Però bisogna che fra le due potestà intervenga una piena separazione.

Per simile, molta gente va predicando che agli uffici pontificali bisogna l'indipendenza, e questa senza principato correr pericolo e vacillare ogni giorno. Guardisi quello che era il papato in Francia alla corte d'Avignone, sotto le ferree mani di Filippo il Bello e de' suoi discendenti.

Questa è la sentenza: ora mirate il fatto, e troveretelo tanto discorde da lei, che assegnerete al vocabolo indipendenza ogni altro significato, salvo il definito dai dizionarj. Certo, stranissima indipendenza è quella che gode Pio IX tra l'armi tedesche e francesi, e stretto e aggirato da' furiosi ristoratori d'ogni clericale tirannide. Nè si dica essere accidente che passa. Perchè nessuno à cervello così baldanzoso da indovinarne la fine; e tutto il lungo e miserevole regno di Gregorio XVI trascorse in altrettanta preoccupazione e servitù di mente e di spirito. I perpetui diritti, le vetuste giurisdizioni e le libertà intangibili della Chiesa tacevano tutte innanzi all'Austria e alla Russia. Quivi tre milioni e più di cattolici trapassavano allo scisma con poco o nessun lamento di Roma; e con poco o nessuno tornavano a quando a quando in Vienna a pigliar vigore le leggi giuseppine: altra maggior cura premeva l'animo del pontefice; sventar le congiure, sopprimere le cospirazioni, comandare nelle Romagne i supplizj. In tale spavento viveva papa Gregorio non pure dei moti politici, ma poco meno che d'ogni progresso di civiltà, che fu udito affermare, infra l'altre cose, ogni strada nuova aperta ai viandanti essere veicolo nuovo di corruzione. E nella enciclica addirizzata da lui in principio del regno suo a tutti i vescovi moderatori del gregge cattolico, non dubitava di registrare tra i flagelli del secolo le politiche libertà: il che prova quanta poca misuratezza e imparzialità di giudicio [488] lasciavagli il principato, e con che massime dure e imprudenti governar voleva la Chiesa.

Così da ogni parte balzano fuori (diceva io) le contradizioni; perchè tra il regno ed il sacerdozio, quali stanno al dì d'oggi e si vogliono mantenere, ogni termine di conciliazione è impossibile, e mai non è per uscire ex alienigenis membris compacta potestas.

Tra parecchi partiti indagati e proposti per dare assetto e riposo alla dominazione temporale dei papi, voi, Signore, scorgete assai più vantaggi all'Italia, ed avviamento molto migliore al bene di tutta la cattolicità, nell'avviso di alcuni statisti di stringere quella dominazione alla città sola di Roma, od a poco altro territorio. Ora, io pronunzio da capo, che non mutando l'essere e i privilegi dell'alta ed infima prelatura, tanto è impossibile colorir quel disegno, quanto tutti gli altri esclusi da voi; conciossiachè, dove l'armi straniere non esercitino sempre un violentissimo reprimento, si vorrà dalle genti di Roma fruire almeno delle libertà civili ordinarie e di larghe franchigie comunitative, com'egli accade, per grazia d'esempio, in America ai cittadini di Washington. Ma qual mai libertà civile non verrà intorbidata ai Romani, ed anzi rotta e annullata, dal Sant'Offizio, dagli sbirri del Vicariato, dall'arbitrio continuo ed irrefrenabile de' maggiori prelati, dalle parzialità dei giudici, dalle sciocche e strabocchevoli revisioni, censure ed inibizioni sulle stampe e sui libri, dall'ignoranza e servilità delle publiche scuole, e dal potere il governo inframmettere in ogni cosa l'autorità d'alcun canone o d'alcuna bolla, dimenticata ma non disdetta, e giacente in archivio com'arme vecchia in arsenale, che può a tempo e luogo tornare usabile e acconcia?

Per quello, poi, che s'attiene alle franchigie comunitative, non son dubioso di affermare, ch'elle o promuoveranno fiero e continuo contrastamento col governo clericale, o diverranno ombre vane fuori che nell'aspetto e nel titolo, come da secoli sono state. Imperocchè, questa lode della gente romana è da ricordare, che cioè non ànno valuto la Curia e la prelatura a domare e spiantare qualunque spirito di libertà [489] e di resistenza in quel popolo, per insino a tanto che gli rimase la possessione di qualche diritto municipale. E già Sisto V, appena insediato, e con le prime parole che disse da principe ai Conservatori di Campidoglio, li minacciò di togliere loro quel poco (trascrivo i suoi termini appunto) che, per benignità sola della Santa Sede, rimaneva ad essi di publica amministrazione.[45] Ed eziandio quel poco fu tolto. Onde gli è accaduto, che forse tra tutti i comuni italiani, sempre usi a godere di alcuna franchigia, il comune solo di Roma ne venisse per intero spogliato; e quella toga fulgidissima d'oro e di porpora in che il Senatore e i Consultori di Campidoglio splendevano, altra grandezza ed autorità non significassero, eccetto che crescere copia d'arredi e vaghezza di addobbi ai vespri e alle messe pontificali. Ma lasciando ciò stare, chi, chiedo io, nella pace presente, e senza promovere da ogni banda pericolo instante di guerre e sollevazioni, sottrarrà le Romagne e le Marche alla signoria dei papi? Tentisi e facciasi da chiunque; adóperinsi le maniere, l'arti e gli spedienti più sottili ed accomodati; segua per effetto di qual vogliate accordo e lega di principi poderosi; la curia romana, com'è al dì d'oggi elementata e costituita, lancerà scomuniche ed interdetti furiosi e implacabili, e si ajuterà, nè senza profitto, di sommovere e d'infiammare tutto il mondo cattolico, ed eziandio il greco ed il luterano, con assai più zelo ed impeto, che se una nuova eresia od uno scisma nuovo intendesse a squarciare e spiccare violentemente alcun altro membro dal corpo di santa Chiesa.

Ben voi direte, che se gl'interdetti veementi e iracondi di papa Caraffa non vinsero e non bastarono contro le armi del Duca d'Alva nel bel mezzo del secolo XVI, meno assai basterebbero nell'età nostra. Ma le plebi allora tacevano paurose: oggi quello che pensano e vogliono à peso e pericolo; ed a cagione delle publiche libertà, più ardire mostra al presente la scarsa fede rimasta, che la grandissima per antico. Certo è, che quando gli Ottoni e gli Arrighi si brigarono d'aggiustare le cose romane, nol fecero con le armi soltanto, ma eleggevano al sommo seggio chi lor talentava [490] di più, e l'esterior disciplina della Chiesa a lor senno moderavano. Oltre di che, come userebbero i potentati, senza troppo manifesta contraddizione, l'aperta violenza in quell'autorità e in quell'uomo, per rialzare il quale ànno, poco è, sguainate le spade con non picciolo spreco di danaro e di sangue? Impossibile, poi, tanto accordo fra tanti principi e Stati, massime dove si tratta di ricche spoglie da occupare e spartire.

Rimane inconcussa, dunque, ed irrepugnabile la sentenza, che, non modificandosi in nulla la Roma spirituale, nessuna composizione si trova tra essa e i popoli che tiene soggetti temporalmente; e di pari rimane certo, che le cose d'Italia non si possono rassettare in unione ed in libertà; nè la famiglia cattolica intera avrà buona pace: anzi, l'autorità della religione, parte per isdegno e rabbia, verrà combattuta e negata, parte travolta al male, e adoperata a perpetuare vecchie superstizioni e tirannidi.

Per fermo, la gran bisogna dei prelati al presente è campare il dominio loro secolaresco; e già da gran tempo son usi di accomodare piuttosto le faccende della Chiesa alle necessità ed esigenze del principato, di quello che adattare gli ordini del principato al miglior bene della Chiesa. Nel che non adoperano quasi malignità: primo, perchè aggiustare il principato come la Chiesa antica e lo spirito degli evangelj ricercherebbero, vuol dire poco meno che rinunziarlo: in secondo luogo, tutto quel popolo di chierici e di prelati che sale e scende pel Quirinale e per l'Esquilino, cresce allevato in un sistema molto fine ed artificioso di principj e di massime, venutosi componendo pezzo per pezzo, e nel quale i privilegj dell'Ordine e le dignità cortigiane e secolaresche sono con buona apparenza accordate e innestate con lor dottrine teologiche; sicchè, ajutando quelle, credono queste ajutare, essendo osservazione verissima e molto antica, che l'uomo s'industria ed ostina a voler trovare un qualche utile compromesso tra la coscienza e gli appetiti; e quindi, invece di conformare le azioni ed i sentimenti ai sovrani dettati, piega bel bello e quasi senza avvedersene i dettati all'utilità. La quale opera di storcimento e dissimulazione [491] per far bella mostra di sè e nascondere all'universale (che è volgo) le fragili sue fondamenta, trova il soccorso degl'ingegni battaglieri ed arguti, gran maestri di scrivere, autorevoli di scienza e di vita, ed abilissimi a sciogliere nodi e viluppi di controversie. E tali furono, per appunto, coloro i quali poco dopo la Sinodo Tridentina dettero al sistema surriferito l'ultima forma dialettica, non più mutata sostanzialmente di poi. E se ne può vedere un ritratto vivissimo e coloritissimo nelle storie eleganti che di quel Concilio scriveva il Cardinale Pallavicino.

Ma, come ciò avvenga, certo rimane tuttavia (nè a voi nè a niuno rincresca udirlo ripetere), che insino a tanto che quella mistione singolarissima di dogmatica, di canonica e di politica dura e persiste in Roma, e porge norma quivi all'educazione di tutto il clero, perpetuerannosi le cause delle sedizioni e delle violenze in Italia, nessuna pace di spirito avranno le coscienze cattoliche, e la maestà del gran sacerdozio mai non tornerà ad imperare nel mondo con soave e spontanea suggezione degli animi. Perchè la Cancelleria e la Prelatura romana mai non possono e debbono sostenere che lo Stato della Chiesa contermini con popoli liberi, nè che l'Italia si componga in essere di nazione e viva signora di sè; atteso, principalmente, che ella faría molto presto valere le sue franchigie e la sua volontà e i suoi patti confederativi altresì in Roma. Similmente, non avrà pace d'intelletto e di cuore la cattolicità; perchè oggi ella si viene informando di spiriti nuovi e altamente civili; desidera, se non amicizia, almeno concordia leale con le diverse confessioni cristiane; il culto e le dottrine morali ritira dalla eccessiva misticità, e le immedesima con la ragione e l'ordine sostanziale ed eterno del bene; accetta e s'allegra d'ogni progresso di scienza; vuole la pietà nemica d'ogni esteriore costringimento, e la religione separatissima dai fini mondani e dagl'interessi di Stato. In quella vece, la Curia romana teme ogni sorta d'emancipazione intellettuale e politica, à per sospetta la scienza, per ingiuriose le riforme; s'adombra e s'inquieta delle novità; nessuna concordia equa e leale consente con gli accattolici; e non pure prescrive e propaga usi [492] e modi assai poco nobili e razionali d'esercitare la pietà,[46] ma non abborre (dovunque può) dall'inculcarla a furia di leggi, e ottenerne l'apparenze e le dimostranze con mezzi costrettivi e violenti. Per vero, tenendo altra via, non tanto spaurasi ella per la interezza della fede e la incolumità della Chiesa, quanto per la propria maggioria e pel suo potere temporale assoluto; e perchè, sentendosi fiacca al presente di ogni facoltà, e inetta a reggere a qualunque specie di paragone e di competenza, rifugge da tutto ciò che varrebbe a rompere il cerchio magico entro il quale sta chiusa, e in cui poco numero di chierici e di scribi, tutti e sempre d'una qualità e d'uno stampo, presume di perpetuare in sue mani il governo del mondo cristiano. Nel vero, di coloro che maneggiano in Roma gli alti negozj, la più parte e la più procacciante o nasce colà medesimo e succhia subito il latte delle dottrine curialesche, ovvero è calata giù dai monti della Sabina e d'altre terre suburbane; o, se pur viene di fuori, riceve ne' chiostri e ne' collegi romani una medesima impronta di pensieri e di sentimenti; sicchè troppo bene s'appropria loro il carattere e il nome di Casta. Quegli altri, poi, che nuovi e inesperti convengono a Roma per cercarvi mantellette e prebende, se non sanno l'arte, la imparano; e quelle orme, sempre e da tutti e a un modo stesso ricalcate, studiano e seguono ad una ad una con indicibile diligenza; perchè chi le sgarra o le muta, quando peggio non gli succeda, rimane indietro. E poniamo che parecchi insigni ecclesiastici vengano per l'Europa onorati del cappello, e debitamente onorati. Ciò può recare lustro e dignità maggiore all'Ordine; non profitto al concistoro e al governo, del quale non sono partecipi.

Adunque, di cotal gente quale io la descrivo, esce l'ordine prelatizio, e di questo la principal porzione del collegio de' cardinali; dal cui seno per ultimo esce il Pontefice, il quale dee di necessità rispondere con la natura dell'opere sue alla natura del terreno e alle qualità del seme di cui è rampollo. Ed egli e i suoi porporati e il clero della sua Roma tanto meno aprono il cuore ad alcuna novità, e ardiscono [493] rompere una sola maglia di quella rete di pratiche e d'opinioni in che sónosi da sè medesimi involti, in quanto ogni giorno si riconoscono più straniati e divisi dallo spirito dei tempi, e manca loro qualunque energia, salvo che di negare e resistere. Nell'avvenire, nessun compenso al perduto, nessun rimedio al pericolo delle temporali giurisdizioni, eccetto l'armi straniere e i patiboli. Mille accadimenti e mutazioni reca via via il corso degli anni; ma tutte all'ultimo si discuoprono sfavorevoli e inopportune alla prosperità e alla pace del Quirinale, perchè a lui fa bene soltanto la immobilità, o ricomporre e risuscitare il passato. Ma il flusso delle umane cose, simile all'acque correnti, mai non torna allo insù. Tale a nostri giorni (nè vi esca mai del pensiero) è il papato, e tale la schiera che più dappresso lo circonda, serve e difende. Nè, per dir vero, sembra credibile a mente sana ed illuminata, che le popolazioni cattoliche abbiano proseguito sì lunga pezza a disconoscere il fatto, o conoscendolo, a non curarlo; e che gran porzione del clero continui tuttafiata nella pietosa finzione di giudicare che Roma e Chiesa riducansi ad un medesimo, mediante la viva e fedele rappresentanza che far dee la prima della seconda. Oggi l'orbe cattolico è rappresentato sì bene e sì lealmente in quella metropoli, com'era sotto de' Cesari il mondo politico dai senatori servi e adulanti, o dai Narcisi, dai Ninfidj e dagli Aniceti del Palatino.

D'altra parte, l'età nostra è acconcia e matura perchè que' funesti e perpetui ripiegamenti e ritorcimenti di Roma in sè stessa si rompano, ed ella uscendo con la mente e l'affetto a visitar le nazioni, si ritempri e ringiovanisca nello spirito nuovo ed universale della cristianità. E dacchè è necessario per ciò nella Curia e Prelatura romana mutare o le persone o l'animo, e questo è fatto inemendabile dalla forza dell'abito e dell'interesse; occorre che l'altro partito si tenti. Ma, per condurre e stanziare in Roma nuovo ordine di ecclesiastici, assai diverso nell'opinioni e nell'opere dall'anteriore, manifesto è ch'ei si conviene piegare e adattare a cotale effetto le istituzioni e le discipline; con questo riserbo per altro, che tanto solo si modifichino e si correggano, quanto bisogna [494] perchè il fatto si avveri e perseveri, e sia fecondo di bene.

Non m'è avviso per al presente di condurre il discorso a meglio definire e specificare coteste mutazioni della Roma spirituale: mi basta, egregio Signore, aver fatto rincalzo da molti lati a quella proposizione con cui si apriva la lettera mia, ed in cui si sostiene e s'incardina: che, cioè, in Roma la riforma politica intimamente si connette con l'ecclesiastica; e l'una senza l'altra non può succedere, nè, succedendo, durare e fruttificare.

Nemmeno è da mover dubio, mirandosi unicamente al valor razionale delle cagioni, se le riforme politiche debbono antivenire o no l'ecclesiastiche. Imperocchè noi dimostrammo abbisognare innanzi ogni cosa, che per la virtù peculiare d'alcun ordine nuovo spirituale muti l'ordine delle persone, e con esso gli animi, i pensamenti e i costumi; e così fare asseguibili non soltanto le libertà e trasformazioni opportune nel temporale, ma ogni buona fortuna d'Italia, e il rinfrancamento delle credenze, e una gioventù nuova e robusta di tutto il consorzio cattolico: il quale, la Dio mercè, a simile risorgimento è apparecchiatissimo, e più assai che non vien reputato dai cortigiani in rocchetto ed in cappa magna. Nè faccia gabbo al giudicio vederne apparire sol pochi segni; perchè tuttavia perseverando nella cattolicità una gerarchia stretta, riguardosa e fortemente disciplinata, la infermità e torpidezza del principal membro fa sembrare malsano e debole tutto quanto il corpo; e veramente, spirano dal Vaticano ai dì nostri piuttosto che un soffio ricreante di vita, influssi di letargia e d'agghiadamento.

Imperciò, presupponendosi eziandio che mutare qualcosa della Roma spirituale riesca difficile e travaglioso quanto l'indurre larghi e intrinseci cambiamenti nel temporale, porta la ragione che si voglia piuttosto lo sforzo maggiore rivolgere a conseguire il primo. Perchè, vinte quivi le resistenze ed appianate le vie, qualunque natura di bene civile e politico se ne ingenera quasi di per sè stesso: il che non si prova con altrettanta certezza dall'altro lato; stantechè (teniamolo saldo in memoria) negli istituti che reggono e signoreggiano per l'efficacia e il valore di antiche opinioni [495] e consuetudini, le mutazioni materiali ed estrinseche, discompagnate dalle morali e interiori, violentano ma non correggono, e più sono atte a perturbare che a rassettare. Chi mal consente a questo vero, ricordisi almeno di ciò che vide egli stesso, o dal padre gli fu narrato. Bonaparte condusse prigione Pio VII a Fontanableò, e il vi tenne chiuso qualche anno, e dettavagli da ultimo un concordato a sua voglia. Era uso di forza e d'audacia fortunatissima, ma sproveduta di sapienza riformatrice; e non recò frutto. Cessato appena quell'impeto soldatesco, Roma ripigliò le sue antiche sembianze, nulla avendo imparato e men che nulla dimenticato. D'altra parte, non sembra mai troppo difficile e faticoso all'uomo ciò che è necessario ed inevitabile, e si fa scala insieme a grandissima utilità, e quando gli vien dimostrato che tutt'altro tentamento sarebbe indarno.

Ben so che l'ordine di ragione troppo rado si accorda con quello de' politici accadimenti, e la fortuna e l'armi e le passioni non iscelgono la loro via; ma dove l'impeto li rivolge, colà si precipitano. Io so bene altresì, che quando per effetto di qual sia caso la forza e la volontà popolare venissero in Italia al di sopra, elle inesorabilmente proseguirebbero la lor vittoria, stimandosi padrone affatto ed onnipotenti. Ciò per altro non vieta che quella forza e volontà, scompagnate dalle mutazioni morali e spirituali, non rimanessero incerte del fine e nella vittoria stessa impacciate; e quindi, per la ostinazione indomabile altrui, trascinate ad atti eccessivi, sino a che sorgesse una dolorosa necessità di piegare ed indietreggiare, perdendo i maggiori frutti e i migliori del buon successo. Del resto, gli è assai naturale che le sollevazioni, le guerre ed altri violenti e scomposti fatti entrino inconsultamente in quel primo sentiere che lor si schiude davanti: ma colui che indaga il valore universale ed intrinseco delle cagioni e l'ordine di operare che ne proviene, non può nè correre nè fermarsi dove lo sdegno e il volgare giudicio e corre e si ferma; invece, egli procede tanto oltre, quanto gli fa d'uopo a trovare il punto da cui dipende la mole intera dei casi, e l'ultima lor ragione. A cotesto punto, e non altrove, intende guardare la lettera mia.

[496]

III.

V'à parecchi onesti e timorati, ai quali ogni pensiero d'innovazione, tuttochè ristretta alle condizioni esteriori e non sostanziali del Papato, sembra arditezza e profanità incomportabile, e uno sdrucciolo all'eterodossia e alla miscredenza. Ma perchè non può accadere a' dì nostri ciò stesso che più d'una volta à la Chiesa veduto e approvato senza scandalo e nocumento, e rimanendosi intatta nell'essere proprio e ne' suoi principj di scienza e di pratica? Ei si conviene o tener chiuse tutte le storie, o lette dimenticarle, perchè risolutamente si neghi le forme del Papato e la costituzione della gerarchia suprema cattolica, non avere sostenuto mai mutazione profonda. Ma il vero è pur questo, che tra le forme e disposizioni del Papato quale esercitavasi da Gregorio Magno, e l'altre che incominciarono ad attuarsi e valere per opera segnatamente di Niccolò II e Gregorio VII, interviene assai più differenza di quella che, al mio sentire, ricercherebbesi oggi a ricondurre in concordia piena, e d'infiniti beni ubertosa, la civiltà e la religione. Parlo di notizie ovvie e non peregrine; pure è necessità ricordarle a chi non le ignora, ma le dissimula. Gregorio Magno poteva ogni cosa; e i maggiori negozj e le più dure discettazioni d'Italia e dell'Occidente venivano trattate da lui, e con autorità e sapienza composte. Ma tutto ciò, non per diritto di principato, non perchè sudditi avesse nè esercito nè navile nè publico erario, ma sì mediante un sommo arbitrato che i popoli nelle differenze loro gli concedevano, per caldo di religione, e per la gran sicurezza ch'entrava negli animi del senno civile di lui, non uguale solamente ma superiore al secolo tralignato e ruinante a barbarie. Ildebrando, in quella vece, aggiungeva al pastorale lo scettro; e non contento delle provincie le quali già tenevano i papi da Carlo Magno, rifermava i Normanni sul trono di Napoli con titolo di suoi tributarj, e pretendeva diritti regj altresì sull'Ungheria, Danimarca, Croazia e Dalmazia; e a Guglielmo il conquistatore ingiunse di riconoscere da lui solo il reame d'Inghilterra, [497] e di fargliene omaggio. Parvi egli, illustre Signore, poca e leggiera trasmutazione, passare nel temporale dallo stato di soggetto a quel di monarca, e la mansueta autorità dei Vangeli armare di mondana potenza, fornirla di soldati, di balzelli e di giustizieri? Ma vi è più oltre di novità. Gregorio Magno non solo piacevasi di riconoscere i Cesari a sè superiori nelle faccende del secolo, ma li comportava tali in molta porzione altresì della polizia esteriore ecclesiastica; e obbedivali eziandio (quello che importa assai di notare) ne' comandi che gli parevano gravosi al clero, e, sotto qualche rispetto, dannosi al far prosperare la religione: come testimonia quella lettera sua, mille volte citata, a Maurizio imperatore.[47]

In quel cambio, Gregorio VII e i suoi prossimi successori stimarono a sè inferiori e soggetti i Cesari e tutti i monarchi del mondo, i quali (uso della comparazione che leggesi nelle bolle), come la luna piglia splendore dal sole, pigliano dal pontefice, sole della cristianità, l'autorevole lume proprio. Quindi ai papi venne pensato di ben potere (dove occorresse estremo castigo) deporre i monarchi dai seggi loro, e dispossessarli d'ogni diritto, e dal debito di sommessione e obbedienza disciogliere i popoli, ed anzi armarli alle volte contro quelli e crocesignarli. Là, pertanto, con San Gregorio, un pontificato affatto spirituale e che nulla del mondano s'arroga; qua, con Ildebrando e coi proseguenti l'opera sua, un pontificato provisto di regale giurisdizione, e divenuto signore ed arbitro delle corone. Là, due potestà divise ed indipendenti ne' proprj ufficii; qua, una sola, suprema e impartibile, che tutte l'altre soggioga, e la quale fabbrica e innalza al colmo la universale teocrazia. Nè perciò tutte le differenze peranco sono avvisate ed annoverate. Gregorio Magno era dai suffragi del popolo, con liberi e appropriati comizj, eletto ed alzato allo splendore e alla santità della tiara. Gregorio VII, invece, veniva scelto e salutato pontefice nello stretto collegio de' cardinali, istituzione singolare e novissima nella Chiesa. D'altre minori varietà e differenze fra i due tempi paragonati, me ne passerò con silenzio; parendomi [498] che alle testè ricordate non se ne possano trovare e neppur pensare delle maggiori.

Al presente, io mantengo essere al Papato sopravvenuta una indeclinabile necessità di cambiare in sè stesso parecchie condizioni e costituzioni; ed, al creder mio, nessuno fa guerra più pericolosa e spietata al bene di quello, quanto chi si ostina a volerlo intatto ed immobile in ogni sua forma attuale.

E che? sembrami già udir gridare i Farisei d'oltremonte, avresti tu animo d'assomigliare la Roma spirituale moderna a quella di Nicolò e d'Alessandro II o del suo magnanimo succeditore? Dove oggidì le fazioni che si accoltellano e uccidono sulle piazze per tirare a sè col sangue civile la elezione d'un papa? Dove oggi il concubinato del clero, le simonie cotidiane, la feudale oltracotanza che invade il tempio santo di Dio, e trasforma i prelati in baroni e le badie in castelli? Dove la generalità dei preti e dei monaci oppressa e tiranneggiata dai Vescovi fatti principi, e sì potenti divenuti di terre e vassalli, che rendevano necessaria in Gregorio VII quella specie di dittatura, e quelle arti medesime di cui più tardi usarono tutti i monarchi per isciogliere e disfare le aristocrazie? Rispondo (se mi si concede lingua), che i corpi morali infermano siccome i fisici di malattie strane e diversissime infra di loro, ma pur simili in ciò che annullano con effetto uguale la sanità; e posto che sieno gravi ed assai radicate, ricercano pronto ed eroico rimedio. Nella età d'Ildebrando e d'altri che il precedettero, il Papato ammalava d'ardente e acutissima febbre; oggi è infermo di languore e di cascante vecchiezza. Roma allora farneticava, oggi decrepita bamboleggia. L'un caso è dall'altro differentissimo; ma in entrambi fanno mestieri farmachi vigorosi e solleciti, sebbene di diversa natura e virtù.

Che manca ora al discorso? Certo, che si dimostri il vero di tanto decadimento. Ma per gli uni è cosa manifestissima; per altri non basterebber volumi a provarlo, perchè il vero che s'odia, quanto più splende, con più sfrontatezza è negato. Fra le due schiere avversarie rimangono molti non preoccupati e però imparziali, ma poveri di notizie [499] e impazienti di far ragguaglio minuto ed esatto fra tempi e cose tanto diverse e lontane; e ad essi un compendio appunto di quelle notizie tornerebbe, io credo, gratissimo e profittevole. Lasciatemi, dunque, o Signore, delinearlo per sommi capi e com'io l'intendo. Userò parole da storico, e forse più magistrali che una lettera non comporta; ma da niuno scrittore e con nessun'arte si può combattere le necessità del suo têma. A comparazione, poi, della vasta materia, sarò brevissimo. Darò dei fatti poc'altro che un giusto elenco, ma tutti veri e palpabili; quindi sufficientissimi a costruire buona dimostrazione.

IV.

Da chiunque conosce fiore delle storie ecclesiastiche verrà confessato, che in tutta quasi la età di mezzo nessuna maniera di potenza e nessuna specie di grandezza civile conobbe il mondo, la quale non rilucesse in massimo grado nel Pontificato romano. E può dirsi anzi, che la civiltà tuttaquanta foggiavasi allora e informavasi unicamente delle fogge e forme che le porgeva la cattolicità, e però i capi supremi di questa. Ai dì nostri, per contrario, è visibile che alcune di quelle potestà e maggioríe sono affatto scomparse, e in tutte le rimanenti è precipitosa declinazione; quando pure non se ne voglia eccettuare quella tendenza perpetua della Roma papale, a ridurre di più in più il reggimento della Chiesa a stretta forma di monarcato. Nel che io concedo Roma non essere declinata; ed anzi, i modi del suo governo tenere assai più del regio e dell'assoluto quest'oggi, che non ai tempi (poniamo) d'Ildebrando e di Bonifacio. Perchè, sebbene ai giorni loro niuno sospettasse dell'autenticazione e veracità delle false Decretali, e tuttochè le sentenze d'un libro che ascrivesi comunalmente a Gregorio VII[48] ricevessero confermazione dalla Sinodo ch'egli convocava appo sè in Laterano nel 1076, e ponessero con ciò il colmo all'autorità dei pontefici, così per la giurisdizione come per gli uffizj nell'Ordine; purnondimeno confuse e mal definite e dubiamente [500] applicate si rimanevano in molta porzione quelle dottrine, e vi ostavano tuttogiorno usanze e possessi antichi, privilegi e prepotenze di principi. E però, all'arbitrio pieno ed incontroverso che le più volte esercitavano que' pontefici nel reggimento della Chiesa, si vuole assegnare per cagione principalissima l'altezza di mente, l'energia propria e fortunata di parecchi di loro; e la ignoranza, lo scompiglio e la dissoluzione estrema dei tempi.

Non vi sia di tedio, o Signore, lasciarmi alquanto discorrere questa materia in cui giova insistere per maggiore dichiarazione del nostro subbietto.

Dico, dunque, che il dominio assoluto dei papi trovò conferma e sanzione solenne più tardi, e particolarmente dalla Sinodo tridentina, la quale nol contradisse, e, fuori assai dell'aspettazione comune, contradisse invece le massime ristrettive dei concilj di Costanza e di Basilea. Vero è che alquante cose ne tagliò e corresse; ma con ciò appunto a tutto il gran rimanente pose suggello, e stimò di rimarginare le piaghe mortali aperte nel Papato dalla servitù avignonese e dallo scisma durato non meno di quarant'anni. Più modernamente non sostenne quel dominio assalti e guerre pericolose; imperocchè le dichiarazioni del clero francese nel 1682 non vennero dall'Europa imitate, e l'opposizione di Porto Reale affogò nella teologia.

A me non compete il giudicio del fatto. Ma sembrami utile assai che il mondo se ne ricordi, e si noti con più diligenza il trapassare che à fatto la comunione cattolica dagl'istituti (come in politica si direbbe) popolari e misti, a quelli di monarchia poco meno che intera e arbitraria.

A coloro cui mette spavento l'udir parlare di mutazione e di novità nella Chiesa, io maraviglio forte come non faccia alcuna apprensione nè svegli alcun dubio questa verissima e sostanzialissima alterazione insinuatasi nell'orbe cattolico. Per fermo, ei non negheranno che l'elezioni de' vescovi a popolo da prima si diradassero, e poi si stringessero all'ordine solo dei preti, più tardi ai soli capitoli delle cattedrali, e da ultimo cadessero tutte o in mano al pontefice, ovvero in mano de' principi, con ciascuno de' quali (rimosso [501] ed escluso affatto il popolo e il clero) patteggia quegli di pieno arbitrio e stipula i concordati: il cui primo esempio infelice quello fu tra Leone e Francesco I, ove molto guadagnò il papa, moltissimo il re, e perdè invece ogni cosa il clero, usato a richiamarsi ai principj e ai diritti della Prammatica sanzione.

Per simil guisa, come in principio ogni vescovo perveniva alla risoluzione de' negozj con l'ajuto e consiglio del presbiterio suo; e i Patriarchi, i Primati e i Metropolitani, con quello dei Vescovi suffraganei e de' Sinodi Provinciali e talvolta de' nazionali; e il Papa, infine, con l'assistenza, autorità e consultazione di tutti essi: in decorso di età, i vescovi pigliarono avviso o dal proprio senno o dai mandamenti di Roma; e i papi, sempre meno solleciti di adunar concilj, e raccolta ogni potestà consultiva nel Collegio de' cardinali, terminarono col non molto inclinare ed attendere a questo medesimo, non ostante i capitoli ristrettivi e severi giurati innanzi da Martino V e da Eugenio IV, poi da Paolo II, e da talun altro lor successore. E dove peraddietro ogni faccenda di momento deliberavasi in Concistoro, e si pubblicavano le risoluzioni come fatte de consensu Fratrum, oggi quel consentimento o non è domandato, o vien presupposto, o piglia valore ed uso di cerimonia. Oltre di ciò, il titolo arrogatosi dai pontefici di patriarchi d'Occidente; le riserve senza misura moltiplicate; le cause avocate a Roma da tutte parti del mondo; i legati nelle provincie spediti con facoltà imperiose e superlative; le fraterie dall'obbedire agli ordinarj esentate; le dispense copiose e gli innumerabili privilegi e favori che dal Quirinale tuttogiorno provengono, sottraendo, come può scorgere ognuno, e derogando l'un di più che l'altro alla giurisdizione propria dei vescovi, ànno altrettanto aggrandita ed esagerata quella dei papi. La quale, d'altra banda, di semplice esecutrice e custode di leggi, sembra ascesa e trapassata alla gran potestà di quelle creare e mutare. E veramente, da lunghissimo tempo le decretali e le bolle competono di materia, di maestà e di forza, coi canoni più vetusti e solenni. Il perchè, la legislazione ecclesiastica, guardata e avvisata negli usi suoi cotidiani e nel concetto de' moderni, tende a convertirsi [502] in un Editto papale perpetuo, come di già nel civile l'Editto imperatorio pigliava il luogo dei Senatoconsulti e dei Plebisciti.

Nè già si nega che questo condursi pian piano il Pontificato a più stretti ordini di monarchia, fu condizione e incremento naturale di cose, meglio che arte e ambizione di prelati e curiali. Conciossiachè, lasciando stare l'altre ragioni, ei si fa manifesto per sè medesimo, che in un gran corpo sociale composto di membra diverse, interessi discordi, comunità orgogliose, superiori gareggianti, appena scema e rallentasi quella caritevole unione che le virtù e lo zelo primitivo ed eroico annodarono, bisogna o correr pericolo di scissure e dismembramenti, o che cresca e pigli nerbo una forza interiore, unitrice e moderatrice. E tanto è ciò vero, che al forse smoderato predominio papale, ognuno, dopo lo scisma germanico, cedette luogo, e lo reputò salutevole e necessario, singolarmente in Italia, fatta provincia spagnuola, e dove il Papato serbava ancora alla nostra nazione alcun titolo di preminenza. Io voglio unicamente notare fra voi e me, che per lo stesso naturale procedere delle cose, la potestà monarcale, ed anzi ogni potestà di governo, sia in uno o in pochi o in tutti raccolta e compiuta, rischia di disfarsi e perire tuttavolta che a sè medesima non procura un limite, una competenza ed un sindacato. E si affermi pure, che il pontificato romano non possa disfarsi e perire; può nondimeno infiacchirsi e scadere, e tutti i danni e gli sfregi patire della infermità, della decrepitezza e dello scredito universale. E però, con gran senno parlava quel vescovo di Granata ai Padri di Trento, che s'egli con ardore venia fiancheggiando i diritti e le giurisdizioni dei vescovi, ciò era appunto perchè volea salva e integra in futuro l'obbedienza e l'ossequio de' popoli inverso la Santa Sede. Per fermo, se al presente travagliare della Roma spirituale sono da attribuirsi altre molte cagioni oltre l'imperio di lei eccessivamente assoluto, questo, per lo meno, la reca ad un'accidia e ad un languore funesto ed immedicabile, e rendela insufficiente ad ogni gran gesto, e incapace per niuna guisa di restaurarsi e di rifiorire. Attesochè non ferve la vita e non si mantiene rigogliosa e [503] operante laddove alle facoltà e doti de' valentuomini non è lasciato libero spazio e sicuro; nè dove i premj e gli onori poco dipendono dalla virtù e molto dal patrocinio; e dove, alfine, tutto si compie o col regolo di viete prammatiche o col maneggio de' cortigiani.

V.

Non accadono molte parole a mostrare la depressione estrema e finale di Roma a rincontro delle potestà civili del mondo. Cominciò il Papato con assai modestia e prudenza, vivendo a quelle sottomesso e obbediente, pure allorquando assalivano ed invadevano alcuna libertà vera e legittima della Chiesa: testimonj que' Cesari che nei negozj conciliari e nelle discipline clericali più del debito s'intramettevano. Dal che appare, che mentre con gli anni, migliorandosi la fortuna e crescendo le forze del Pontificato, si pensò di mescolare la facoltà ecclesiastica con la civile, e rendere questa grado per grado suddita a quella; ne' primi secoli, invece, lo sforzo e l'ambizione de' papi stringevasi tutta a dividere quant'era possibile l'un potere dall'altro: e Papa Gelasio affermava, opera di Gesù Cristo essere la lor divisione, e del Diavolo il lor meschiamento. Disfacendosi, poi, d'ogni lato l'impero orientale, e quello dei barbari smembrandosi in minuti regni, mantennesi il Papato per molti anni indipendente ed illeso ne' proprj officii spirituali. Alzò la speranza e l'ardire con le sacre dei re e de' nuovi Augusti, abilmente intervenendo ad autenticare diritti dubiosi ed incerta legittimità di possesso. In tal guisa pian piano ascendendo, e vinta più tardi la lite pertinace e terribile delle investiture, trovò in fine arbitrio di sentenziare, ch'egli era principio e fonte d'ogni potestà eziandio politica e laica, e Cesare stesso ricavare da lui l'origine della propria.

E come in sul primo alla elezione dei papi occorreva l'assentimento imperiale, nel procedere del tempo fu bisogno invece agli imperatori di chiedere per sè medesimi conferma e consecrazione ai papi; e quindi stimarono i popoli, che da solo il consiglio e l'autorità di Gregorio V venisse [504] in Germania ordinato il modo di eleggere i Cesari, corretto e sancito dipoi dalla celebratissima Bolla d'oro. Tantochè, Innocenzo III (spirito alto e magnanimo) negò da ultimo di riconoscere nel Vicario dell'impero alcuna signorile giurisdizione, se dal pontefice non n'era investito e dalle sacerdotali mani non ne pigliava le insegne.

Magnifica esaltazione fu questa, ma non duratura; e Bonifacio VIII, che del generale e rapido mutar dei pensieri non ben s'avvedeva, lottando con Filippo IV di Francia, cadde nel conflitto e trascinò seco l'universale teocrazia; la quale mai non potè riaversi della guanciata sacrilega e vile del Nogarette. Non la guarirono di quel colpo le sottili teoriche del Bellarmino e della scuola di Salamanca intorno al giure divino e sociale; non le ristampe e promulgazioni reiterate per tutta Europa, e massime da Pio V, della bolla in Cœna Domini. Essendo principalmente che re e signori, senza destar rumore e mover querele, si difendevano e schermivano abilissimamente, negando alle stampe e alle intimazioni di Roma il placet e l'exequatur; e in quel mentre stesso che commettevano ai giuristi di corte di far valere appresso la pontificia segreteria l'escusazioni o i privilegi o i diritti di lor corone, minacciavano di prigione e di forca il primo prete che ne zittiva. Tanto poco furono meritati i pontefici di essersi posti in lega strettissima col principato, abbandonando quasi al tutto la causa de' popoli, e di guelfi facendosi ghibellini, e sforzandosi con gran zelo di far sentire ai monarchi quanto necessario era di accordarsi bene insieme, e mettere impedimento alle novità temerarie che d'ogni banda prorompevano.

Così declinarono rapidamente nel mondo cattolico l'idea e la pratica dell'universale teocrazia: benchè la corte di Roma ne venisse poi con diligenza, industria ed ostinazione incredibile, conservando e ristorando parecchie parti, le quali sminuzzate e particolareggiate sotto nome e titolo di giurisdizioni ecclesiastiche, le davano ad ogni poco buona entratura nelle faccende temporali dei regni; e con lo Stato civile, con le cause miste, con le dispense, con le clausole dei concordati e con simili altri intermettimenti, ella occupava per [505] tutto e sempre una porzione notabilissima sì del dritto publico generale e sì dello speciale e proprio di ciascun popolo.

Ma verso il mezzo del secolo andato, le cose cambiarono e si rinvertirono di maniera, che l'ingerimento indiscreto e illegittimo, e la voglia immoderata d'usurpazione passò di nuovo, e con molto minore scusa, dai pontefici ai principi. In mano di questi ridotto l'eleggere i vescovi, e dispensare altri ufficii e onori da chiesa; abolite le immunità; cacciati a forza i Gesuiti; soppresse in più luoghi le mani morte; imposte regole al noviziato monastico; vôtati più conventi e distribuítone altrui l'avere; sottomessi a forza i frati alla giurisdizione de' diocesani; annullate le decime; salariato il clero; occupata in gran parte la collazione de' beneficj; dappertutto aggravata la suggezione del sacerdozio alla autorità laicale; un pontefice vecchio méssosi in lungo viaggio e, contra tutte usanze, venuto egli stesso a Vienna ad implorare da Cesare di non più oltre manomettere le facoltà e i diritti della Chiesa Lombarda ed Austriaca, e tornatosi inesaudito: e ciò tutto avanti del gran conquasso che i rivolgimenti strani e vertiginosi di Francia recarono alla fiacca e logora Europa. Confesserò bene che i tempi sembran da capo mutare, e appresso molti governi si va moderando il proposito antico di assoggettare la Chiesa allo Stato. Ma ciò accade per virtù d'un principio avversato ed astiato oltremodo dalla Curia Romana, ed i cui medesimi beneficj le sono sospetti e le san d'amaro. Io intendo discorrere sì delle libertà politiche, e sì di quella preziosa ed inviolabile, che domandano di coscienza. La massima odierna si è, che il comando civile non penetra negl'intelletti e nelle coscienze; e però essendo la Chiesa nella sua vera sostanza una spirituale potestà che non dee voler dominare salvo che ne' cuori e negl'intelletti, e con forze prettamente morali e persuasive, lo Stato non à ragione nè titolo alcuno d'inframmessa e d'impero nei negozj di quella. Concetto santo ed alla religione medesima salutifero; ma Roma non se ne accomoda, e i frutti buoni che or ne coglie, teme di dovere scontare più tardi a grandissimo prezzo. Nè in tali apprensioni e paure ella piglia inganno. Chè, per lo vero, il termine ultimo della libertà di coscienza [506] è pareggiare innanzi allo Stato e alla legge tutte le confessioni e i culti cristiani, e far trapassare la Chiesa Cattolica dalle ampiezze e privilegi del dritto pubblico che ancor le rimangono, alla modestia e alla ugualità del dritto privato, come alla Chiesa Cattolica Americana di già interviene. Per fermo, le attinenze varie e gelose e le mutue obbligazioni tra Chiesa e Stato, che al presente sono dubiose, implicate e in contesa acerba ed interminabile, diverrebbero allora nette, piane, agevoli ed accettabili d'ambo i lati. Ma il Cattolicesimo dovrebbe, in tal presupposto, maggioreggiare per virtù e luce soltanto di sua dottrina, e per l'efficacia degli esempj e dell'opere. Al qual cimento andranno fidanti e sicuri gli schietti e mondi e fervorosi cattolici, ma la Curia romana vi andrà trascinata e come la biscia all'incanto.

Io penso che da voi e da qualunque discreto lettore sarò prosciolto affatto dall'obbligo di provare lo scadimento compiuto ed irreparabile del potere temporale dei papi. Chi dice di nol vedere, o s'infinge, o è talpa dell'intelletto, o vive fuor del mondo e del secolo. Oggi più che mai sta vero ciò che il Machiavello scriveva, trecent'anni or sono; cioè a dire che il papa à Stato e non lo difende, à sudditi e non li governa. Ma più non è vero quel ch'ei soggiungeva, e cioè che li sudditi, per non essere governati, non se ne curano, nè pensano nè possono alienarsi da lui. Oggi se ne curano tanto, che per fuggire lo sgovernato regno de' chierici, darebbersi in braccio, io stava per dire, al Russo od all'Ottomano; e stimo che non si dia fra le nazioni cristiane un reggimento, e così odiato insieme e così spregiato: però è debolissimo e disordinatissimo. Nè senza l'armi de' forestieri può star su in piedi, ed esso le accetta insieme e le abborre con tutta l'anima; onde particolarmente fra l'Austria e lui sembra da lunghissimi anni durare l'un di que' patti che le leggende raccontano essere più d'una volta seguiti tra l'uomo e alcuna potenza infernale, con iscambievole necessità e detestazione. Quanti passi à fatto il mondo in questi ultimi tempi nella scienza delle leggi e nell'arte del governare, di tanto s'è lasciata scoprire la inabilità e inettitudine dei prelati, la quale ora è veramente spettacolosa all'Europa. Nessuno poi (stimo io) [507] può indursi a credere che ciò non sia effetto insieme e cagione assai ponderosa dell'affrettato e continuo abbassare del Vaticano. Nè la cosa è mai per mutare: e sappiano i Diplomatici, qualora ei s'infingessero d'ignorarlo, che niuna loro industria, preghiera, esortazione ed ammonizione trarrà il governo ecclesiastico a qualche termine di bontà e di saggezza civile e politica; ed i suoi sudditi continueranno senza posa ed interruzione ad impoverire, e la plebe ad ingaglioffarsi, e tutti a scadere più sempre e miseramente in ogni qualità e modo del vivere privato e publico.

Le investiture de' beneficj; le possessioni e ricchezze de' monaci, fautori naturali e propagatori dell'alta balía dei papi; i feudi e principati ecclesiastici, sparsi segnatamente per la Germania; i tribunali di mista giurisdizione; la Santa Inquisizione, e simili altre forme e maniere di potestà, io son dubioso di rassegnare tra le temporali prerogative di Roma, ovvero tra le spirituali. Ma, di qua o di là che si pongano, questo permane certo, ch'elle sono privilegj e mezzi di forte e generale dominazione, i quali scemano e scapitano tutto giorno, e a non lungo andare ne rimarrà piuttosto la memoria che il fatto. Di feudi ecclesiastici e della Santa Inquisizione non è più vestigio, eccetto che in Roma; delle giudicature miste sussistono assai pochi avanzi. Nelle principali provincie della cristianità, le frateríe (come testè si accennava) o soppresse o de' beni loro spogliate, e le ancora esistenti, voi le scorgete senza credito e senza valor morale, e ignoranti e goffe la maggior parte. Nè Roma in sì lungo spazio à saputo correggerle, addottrinarle, rigenerarle e renderle fazionate agli abiti nuovi e alle nuove tendenze del secolo. Sopra che io dico: avvi egli dimostrazione di vecchiezza e discadimento più chiara di questa, che il pontificato o non s'accorga o stiasi inerte ed inoperante a veder calare e discreditarsi per ogni luogo queste sue milizie e colonie, mandate un giorno insino agli ultimi termini della terra, e per mezzo a tutte le genti, a predicare la maestà del suo seggio, e la gloria della sua corte?

[508]

VI.

Ma la declinazione maggiormente esiziale al papato, e men comportevole, è quella accaduta nell'autorità e nella preminenza morale e civile; perchè interviene in subbietto più sostanziale, e proprio dell'essere suo. E per fermo, d'una potenza per al tutto immateriale e signora degl'intelletti e degli animi, è peculiare, innanzi ogni cosa, il dirigere ed informare i costumi, la scienza e l'educazione, e comporre e lumeggiare altresì nelle menti la ragione guidatrice e sovrana del vivere sociale.

Nel fatto, quantunque volte o il durare degli scismi, o l'imperversare delle fazioni entro Roma stessa con lunghe stragi e abbominazioni, non troncarono affatto i nervi al papato, e non gli tolsero di far sentire diuturnamente e con efficacia l'azione sua, questa si spiegò vigorosa e mirabile in ciascuno dei subietti testè mentovati, e riuscì splendida e prevalente, benchè non sempre pura e lodevole, nè ben condecente al carattere augusto del sacerdozio e agli spiriti del Vangelo. Voi sapete le storie, e una lettera non le può raccontare. Basti che riandiamo l'epoche e le date più insigni; e l'indole diversa dei fatti paragoniamo. La vera e pienissima primazia morale e civile, che Gregorio Magno (torna volentieri la penna a quel venerando Gerarca) e alcuni avanti e dopo di lui mantenevano in Italia e fuori, per ispontanea riverenza e adesione de' popoli, dimostra appunto quello che possa la religione, praticante con senno la carità civile, e incorporandosi con le arti e la sapienza del viver comune. Così accadeva, come notammo più sopra, che Gregorio, sfornito di principato e d'eserciti, conseguisse l'effetto medesimo che se stato fosse signore d'immenso imperio. Laonde lagnavasi egli con parole d'oro, che meno desiderava occuparsi nelle faccende secolaresche, come importune e disformi all'apostolico ufficio, più gli si moltiplicavan tra mano. Fatto è, ch'egli, il santissimo uomo, col senno migliore che portavano i tempi infelici e inselvatichiti, riparava alle carestie, combatteva i contagi, armava i popoli contra i barbari, [509] il furor di questi placava, ottenévano tregue e trattati di pace. Qualche parte ancora della latina magniloquenza risuonar facea nel suo stile; ornava i templi ed il culto di belle pompe, e di nuove ed austere armonie, che da lui pigliarono il nome. Per sè e intorno a sè, lautezze e grandigie di corte non conosceva; e mitemente querelavasi con alcun suo castaldo, che l'avesse proveduto d'un sì sconcio palafreno, che cavalcar nol poteva senza noja e disagio. Imbattutosi un giorno in certi schiavi d'Ibernia, e forte ammirato di lor belle fattezze e bianchissime carni, fermò il proposito di render cristiana ed ingentilire tutta Britannia. E quella contrada fu convertita; e per lui e per alcuni suoi successori tante semenze di buoni studj, e massimamente di lettere greche, vennero quivi trasmesse, che tutta la sopravegnente barbarie d'Europa non le aduggiò, e Beda e Scotto d'Erigene ed Alcuino ne fanno prova.

Di quello che il pontificato valesse, a rispetto della civiltà, sorgendo pian piano, e durando colma e gloriosa la teocrazia (e, poniamo, da Adriano I a Innocenzo III), quasi non fa mestieri tener discorso, perchè la notizia n'è ormai volgare; e in questo secolo ragionatore ed incredulo, la storia più di rado commette ingiustizia, ed ànno gli scrittori avuto senso e intelletto vivissimo dello smisurato animo e degli altissimi intendimenti di alcuni papi, altre volte disconosciuti e frantesi. Al presente, accordasi ognuno a credere che quella, diremmo, dittatura in istola ed in cámice, fu rimedio e schermo terribile ma pur salutare contro alla feroce e superba ignoranza dei barbari. Per quella lo spirito disarmato comandò alla materia, e l'ingegno domò la forza, e in mezzo agli istinti ciechi e disumani della conquista, rampollò l'idea del vero e del giusto: per la teocrazia il poco di scienza rimasta agli Occidentali scampò nelle scuole dei monasteri, e molti avanzi della civiltà latina durarono, e il giure canonico, di romano giure impregnato, prevalse al crudele diritto feudale. Per quella a cagioni infinite di slegamento e contesa, e alle disgregate e minute sovranità dei Teutonici, fu contrapposta la grande unità cristiana, il diritto collettivo d'ogni sorta congregazioni, e il vivere e il deliberare a comune: [510] per quella, in fine, alla schiavitù rinnovellata sotto nome di vassallaggio, posero freno e compenso le franchigie ecclesiastiche, e qualunque grado e altezza di gerarchia mantenuto accessibile a tutto il popolo.

Non fu adulazione e lusinghería chiamar da Leone il secolo d'oro delle lettere e delle arti nuove italiane, se con quel nome si volle contrassegnare la Roma pontificale che apparve e fiorì, mettiamo, da Nicolò V a papa Boncompagni od a Sisto V. Perchè forse nessuna città dominante primeggia e sopravanza oggi tanto le altre per civiltà e splendore di lettere, di quanto Roma in que' giorni eccedeva il rimanente d'Europa, in gentilezza di arti, eleganza di vita, varietà di sapere, copia e peregrinità delle cose ajutatrici degli studj; nè in Italia medesima Firenze e Venezia potevano starle a petto. E ancora che prevalesse il culto del bello, la filologia e l'erudizione, nessuna parte ragguardevole dello scibile era trasandata, nè avuta in sospetto (innanzi almeno allo scoppiare della Riforma), nè impedita di speculare con ragionevole libertà il proprio subbietto: siccome vedesi (a citar pure un esempio) dall'opera del Copernico dedicata ad esso il pontefice, e dove l'antico sistema di Filolao veniva rifatto e spacciato per vero; il medesimo che poi condusse Galileo nelle prigioni del Sant'Officio. Ed ognun sa che infino all'anno 1549 stampavansi le opere del Machiavelli, e publicavansi per l'Italia con ispeciali privilegi della corte romana. Poi le proscrisse sì fattamente, che sempre da ogni licenza del leggere libri inibiti venivano escluse.

VII.

Dopo ciò, se dal raccogliere insieme e dal contemplare questi tre aspetti, ed epoche grandi e solenni della civiltà e gloria papale, voi conducete, illustre Signore, lo sguardo sugli ultimi anni e sugli ultimi concetti e proponimenti del Valicano, una grave maraviglia e una secreta pietà, non vi stringe egli il cuore, in pensando a che novissimi termini di decadenza sia trapassata la più insigne, al sicuro, e più veneranda e magnifica delle istituzioni apparse sul mondo? [511] Nè solo è venuta in fiacchezza e in decrepità, ma, per mio sentire, giacerebbesi affatto spenta e annullata, e incapace di uscir del sepolcro, quando l'alito vitale del cristianesimo e la virtù delle tradizioni quel moribondo corpo non sostentasse. Imperocchè, per ragioni diverse e sotto molti diversi riferimenti, sempre torna adatta a Roma la novelletta del Giudeo convertito, che il Certaldese raccontava cinque secoli fa.

Dinanzi all'ultime sollevazioni delle Romagne, s'accorgeva egli il mondo, che v'à il papato, salvo che per le continue renitenze o censure con cui si sforza di contrastare al general moto degl'intelletti e all'affrancamento de' popoli; e nega e sconosce pressochè tutte le sembianze e gli abiti nuovi del viver civile? Qual ingerimento paterno, accetto, eminente e degno del sacerdozio, esercita Roma a' dì nostri ne' gran negozj del mondo? In quali è chiamato arbitro e giudice il papa? Avvi potentato, avvi popolo che si comprometta in lui? Avvi guerra nessuna da lui impedita, discordia civile cessata, patto di tregua e di pace concluso? Trovo che l'ultimo atto d'intervento efficace della potenza papale, fu sul cadere del secolo sedicesimo, rappattumando in Vervino Francesi e Spagnuoli. Non molto dopo, nel trattato di Vesfaglia, comecchè vi fossero mescolate materie gravissime di religione, i nunzj pontificj non valsero con nessun'arte a mettere le negoziazioni nella via desiderata e segnata da Roma, ed ella se ne querelò e protestò senza frutto. Alla pace de' Pirenei, Mazzarino, quantunque prete e cardinale di Santa Chiesa, rifiutò i benigni ufficii offertigli dal pontefice; e nel trattato di Utrecca non parve insolente e indebito ai contraenti il disporre a lor modo d'alcune provincie reputate soggette e tributarie di Roma, senza pigliare accordi con lei, e nemmanco far menzione de' suoi diritti.

È strano eziandio e maraviglioso, che quella medesima potestà la qual sommoveva e tragittava, unite ed armate, d'Europa in Asia poco meno che intere nazioni; e sconfitte di poi nelle guerre, e dalla fame mietute e dalle pestilenze, persuadevale tuttavia a ritentare l'impresa, oggi non possa allegare un sol fatto notabile per cui si dimostri, com'ella riesca pure almeno a proteggere con successo le genti cattoliche, [512] ovunque o gl'infedeli o le Chiese eterodosse le opprimano; ed anzi in que' luoghi stessi di antico pellegrinaggio, e ch'erano fine e cagione delle Crociate, cresce di dominio e ricchezza il culto scismatico, e soprafà ed ingiuria il culto latino.

Scorrete in altra materia; ponete l'occhio alle missioni che Roma al presente prepara ed invia dal grembo suo, e subito vi verrà veduto la estrema inferiorità e tepidezza loro, a comparazione dei tempi andati; e i veramente grandi e portentosi concetti e disegni di Propaganda scorgerete cadere in incredibile parvità; e quella sua stamperia poliglota (per toccare un solo particolare), che fu prima ed unica al mondo, non à quest'oggi caratteri da pubblicare una pagina di sanscritto. Nè già potrebbero i papi scusarsi e piangere come l'antico Alessandro, che manchi oggimai lo spazio alle sante conquiste loro. Di dieci centinaja e più di milioni di uomini che nudrisce la terra, un quarto solo sono cristiani. Ma l'ambizione di Roma sembra oggi rivolta a ben altro proposito, che di recare ai barbari ed agli idolatri la luce dei Vangeli, e l'umanità di nostre arti e costumi.

In mezzo ai traviamenti del secolo che trascorriamo, assentirete, o Signore, che questa lode gli rimane interissima, di avere con la scienza e le istituzioni moltiplicato ed illuminato le publiche beneficenze, preso cura speciale dell'educare le moltitudini, cercato alla povertà loro ogni possibile compenso, trovato con fina industria copiosi conforti agli stenti e tribolazioni delle infime plebi. Avvi cosa al mondo più degna e illibata, sollecitudine più cristiana, fatica e studio al supremo sacerdozio meglio dicevole? Ma in questa sì bella ed intemerata pagina della storia moderna incontri tu mai il nome del papa? Delle nuove e tanto ingegnose e caritatevoli forme di comune e privata beneficenza, àvvene una soltanto scoperta e iniziata in Roma, o presto almeno e vivamente caldeggiata ed esercitata? Le sale d'asilo, le sale d'allattamento, le prigioni e i metodi penitenziali, le casse dei risparmj, le società di temperanza, quelle di mutuo soccorso, le infinite miglioranze recate ad ogni maniera di ricoveri ed ospedali? Un secolo e mezzo addietro, cadde in pensiero [513] a Clemente XI di chiudere in luogo abilmente ordinato al lavoro e alla correzione i giovinetti discoli e abbandonati, e così camparli dai delitti e dall'ultima corruttela. Pietoso e civile concetto insieme; il quale se fu poi per altri l'occasione e il germe dei metodi nuovi penitenziali, non so; ma questo io so bene, che quel germe fruttificava in pressochè tutta l'Europa e l'America, eccetto che in Roma.

Infine, la scienza, che è tanta porzione di civiltà, ed anzi è scorta e lume continuo suo; la scienza, già patrimonio del chiericato sì particolare e proprio, che laico venne a significare inculto ed illetterato; la scienza, dico, rinverdita primamente e riordinata sì nelle scuole dei teologi e sì nelle università degli studj, rette e corrette in ogni parte del mondo da bolle e prammatiche di pontefici,[49] a che termini sta ora nelle lor mani, e come risponde ai progressi e alle ampliazioni degli ultimi secoli? Qui la decadenza corre agli occhi d'ognuno, ed è tale e sì deplorabile da non ottener fede il discorso, salvo che da coloro i quali furono e sono testimonj del danno e della vergogna. Penso che basterà il dire che Roma, non ostante gli stranieri visitatori, l'intelligenza svegliatissima de' suoi cittadini, e quel popolo d'artisti che vi dimora a studio de' monumenti, è ormai divenuta la metropoli più ignorante d'Europa, e la men fornita di ciò che occorre agli svariati incrementi del moderno sapere. Nell'università sua, poco degna davvero del borioso titolo di Sapienza che porta, si desidera per lo meno la metà delle cattedre che ne' più culti paesi e nelle scuole meglio ordinate stimansi oggi non che opportune ma necessarie a compiere lo ammaestramento delle morali, delle fisiche, del diritto, della medicina e della storia; senza voler qui sindacare i metodi falsi e le viete dottrine insegnatevi, e il modo incredibilmente strano ed illiberale con che tutta insieme quella istituzione vien moderata e disciplinata. Da voi non s'ignora che sebbene il trovato (io doveva dire il miracolo) della stampa accadesse di là dall'Alpi, Roma entrò innanzi a tutti in lodarlo e in dargli ricetto, e volle giovarsene largamente e sollecitamente. Oh gran mutazione di tempi e di uomini! [514] Oggi quel che si imprime di libri e di giornali in Roma, ragguagliato alle più dotte città straniere, sta, senza timore alcuno d'amplificazione, siccome uno a cento; e nelle pubbliche biblioteche trovi appena uno su mille de' buoni volumi moderni, e agli antichi assai poca gente pon mano. Nè in altra guisa può andar la bisogna colà dove ogni scritto e libro è cacciato tra le filiere di tre censure, l'episcopale, la politica e la fratesca del Sant'Officio; dove nell'encicliche più solenni chiamasi detestanda la libertà di stampare; dove fu proibito per lunghissimi anni il vaccino, e tuttora è proscritto l'insegnamento della publica economia; dove l'Inquisizione (or fa poco tempo) non dubitò di riprovare e dannare con espresso decreto le sale d'asilo; e non volevasi testè udir parola di strade ferrate; e chiunque osato avesse di condursi a que' congressi scientifici, che Ferdinando stesso di Napoli avea tollerato nella sua città e fatto vista di carezzare, veniva rimosso o dalla cattedra o dall'impiego, se l'uno o l'altro tenea dal governo.

Durassero quivi almeno fiorenti e profondi gli studj sacri, quanto furono altra volta, e quanto sembra domandare non che il decoro e la dignità, ma il debito e l'interesse medesimo di quella gran sede del mondo cattolico! Nè io dirò che in veduta elli sieno scarsi e leggieri, o sia picciolo il numero degl'insegnanti, o poca la frequenza ed assiduità de' discepoli. Ma dagli effetti cotidiani può ben giudicare ogni uomo sensato, che in quegli studj non è più forza alcuna inventiva, non robustezza e amplitudine di concetti, non luce e svolgimento di feconde dottrine, non copia alfine e peregrinità di filologia e d'erudiziene.

Ma forse voi vi maravigliate della mia maraviglia. Dove non ásola un minimo fiato di libertà, può l'albero della scienza durar verde e fruttifero? Per vero, di tutte quelle opere dottrinali ed apologetiche o sotto altro rispetto fautrici e lodatrici di Roma, le quali anno in questa prima metà del secolo meritato e conseguito celebrità universale, neppure una ebbe principio e nascimento nelle scuole romane, e neppure una pagina e un rigo di esse uscì dalla penna di quelle insigni congregazioni, da cui si maneggiano colà tuttavia i [515] più serj negozj e i più gelosi interessi della intera cattolicità. Frayssinous, Bonald, De Maistre, Haller, Göerees, Schlegel, Stolberg, Hurter, Lamennais, Lacordaire, Balmes, Chateaubriand, Döllinger, per tacer d'altri, mai non furono in Roma a dare scienza o riceverla. Due sommi Italiani arbitrerei di potersi aggiungere a quel bel novero assai giustamente, e sono il Gioberti e il Rosmini; ma la vita loro intellettuale sortì l'inizio e il proseguimento, e rendè fiori e frutti ammirabili in altro terreno ed in altre scuole. Da Roma venne ad essi, per ciò che sappiamo, una cosa soltanto; la riprovazione e condanna d'alcun loro scritto.

Se non che, Roma fu inverso l'uno dei due quasi costretta ad essere ingrata: imperocchè, qual più spiacevole contrapposto e qual ritratto men somigliante poteva métterlesi innanzi agli occhi, di quello che le offerse il Gioberti, quando con sì nobil disegno e tinte sì vive e smaglianti le figurava l'archetipo del primato civile dei papi, e l'astringeva, mirandolo, a fieramente vergognare di sè medesima? Del resto, non solo la maggioranza civile dei papi è venuta al niente, ma la morale autorità eziandio si perde e consuma ogni di, non ostante che sulla cattedra di San Pietro seggano, da poi la riforma germanica, uomini per ordinario di santa vita, e d'incolpabili costumi, e di specchiatissima religione. Ma il chiudersi intorno ad essi e l'immiserirsi vie più sempre degl'intelletti e dei cuori, e l'avere il Vaticano aderito imprudentemente allo spirito gretto e muliebre di pietà e di devozione, che alcuni mistici e i Gesuiti segnatamente affettano e inculcano, à menato di passo in passo la cosa a questo infelice risultamento, che il mondo stima esservi ora due moralità e due devozioni; l'una accettabile ad ogni maniera di oneste, gentili e istruite persone, propria e comune a tutta cristianità, conforme ai principj eterni della ragione, e all'ordine vero ed universale del bene; l'altra involta nelle sottilità dei casisti, sopraffatta da pratiche puerili, intinta non poco di superstizione, consigliera di virtù monacali e alla repubblica inutili, servile ne' sentimenti e negli atti, buona per genterelle idiote e da poco; ed è per appunto quella lodata e caldeggiata perpetuamente da Roma e da' suoi [516] dottori. Ciò à fatto, come ognuno sel può vedere, che pure in mezzo ai cattolici si vada oggimai pensando, la virtù essere meglio imparata ne' libri degli antichi e dalla nuda lettera dei vangeli, che non dai moralisti e predicatori di Roma. E rispetto al culto e alle devozioni, è marcia forza confessare, che in molta porzione di loro forme e di lor cerimonie la significazione scema e si oscura ogni giorno, e gli animi ne ricevono una impressione fredda, materiale, e non immune spesse volte da invincibile tedio ed increscimento.

Non è la moralità cosa angusta e servile; e chi spaura d'ogni libertà e d'ogni grandezza non può effettivamente e sostanzialmente professare e insegnar la virtù: conciossiachè, sentenzia un gran moralista,[50] ogni virtù nostra procede dalla grandezza dell'animo: ex animi magnitudine. Senza dire che le condizioni del principato assoluto, e gli altri conseguenti del falso sistema che séguita la Curia Romana, facendola indocile e riluttante al vero e germano spirito dei documenti evangelici, l'ànno recata bel bello a insegnare e inculcare con assai minor zelo l'intrinseco della bontà che l'estrinseco, e meglio stimare la buccia e le fronde, che il succoso midollo e i frutti fragranti e soavi della pietà operosa e magnanima.

Tornate, o pontefici, alla purezza e semplicità de' costumi antichi (gridava dal pergamo fiorentino un fraticello di San Marco), e più nel cuor delle genti non vacillerà la fede e la riverenza inverso di voi. Certo, all'attuazione di quel consiglio, l'effetto saria seguito copioso ed universale; e i popoli dimenticavano in poco d'ora le battiture dello scisma, le turpitudini di Avignone e le umiliazioni inflitte al papato dai concilj di Costanza e di Basilea.

Per immensa sventura, e segnatamente d'Italia, parve al sesto Alessandro, a Giulio II, a Paolo IV e ad altri papi di quella età, partito migliore e più valido la stretta amicizia dei re, il potere temporale accresciuto, le frateríe moltiplicate, la Inquisizione ed i Gesuiti. Da quei tristi giorni, il declinare di Roma divenne precipitoso ed irreparabile; perchè la [517] mente e l'anima vera e vitale della pietà e dell'incivilimento cristiano non restò con lei, salvo che in apparenza, e ciascuno di que' mezzi le si voltò in danno e in vergogna; i re la illusero e la imbrigliarono; il poter temporale le diè forza per quarant'anni, e tólsele credito per tutti i tempi; le fraterie finirono incurate o derise, il Sant'Offizio abbominato, e i Gesuiti non molto manco.

Or finiamo, e al crescere e sovrabbondare dell'argomento si ponga quella misura che ricercano i termini naturali di questo scritto, e l'ascoltazione vostra ch'io non debbo nè voglio abusare. E già per molti sarà riuscita come una scorsa fuor di subietto questo paragone di tempi antichi e moderni, e questa breve delineazione del tanto grandeggiare e calare della sedia pontificale. Pure, io non andrò accusato da tutti coloro (e voi, spero, sarete del novero) i quali comprendono che ciò che importava di recare a saldissima prova, si è che l'abbassamento e l'oscurazione continua del papato non è parziale nè accidentale, non vizia e inferma soltanto l'estrinseche sue condizioni e le men rilevanti e nobili, ma invade tutto l'essere, ne storpia gli intendimenti e gli uffici, porta detrimento grave a tutta la sua dignità, penetra alla viva sostanza, non lascia porzione sana, non fibra integra e poderosa.

Un molto celebrato scrittor francese, ritraendo al vivo e con maestrevole stile la bellezza e maestà dei riti pontificali, massime nei giorni santi e ne' vespri solenni della Cappella Sistina, ove con sì meste armonie e con sì acconcio apparato esprimesi il lutto di Santa Chiesa, e lo squallore del tempio per la passione e morte del Redentore, va eziandio narrando come in cuor suo quell'ultima e diradata nebbia d'incensi, quei cantori che a poco a poco s'ammutoliscono, quell'estinguersi di mano in mano dei ceri, quell'ombra vespertina che cresce ed occupa tutto il luogo, rendevagli immagine altresì del venir meno e dileguarsi la gloria e l'oltrapossente grandezza papale. Certo, se il pontificato è gran parte della Chiesa, e l'intristire o il declinare di quello arrécale sventura e declinazione, io non so ben quando le sia nato cagione più giusta e vera di significare il cordoglio suo, [518] e da tutti gli altari, in tutte le sedi della cristianità levar preghiere e supplicazioni al divino autore della fede. Imperocchè, non di fuori le son venuti i flagelli, ma da' suoi figliuoli e custodi; non per guerre e persecuzioni, ma in seno della pace e della comune obbedienza: ecce in pace amaritudo mea amarissima.

VIII.

Non, dunque, l'amore ordinario del bene e del meglio, non quelle purgazioni ed emendazioni che a tempo a tempo fa mestieri di compiere in tutte le cose umane, ma sì veramente la fiera ed irrepugnabile necessità costringe e sforza a portar mutazione in qualche ordine costitutivo del sommo pontificato. Ogni altro partito, qual che si fosse, non ne fermerebbe il gran rovinío; nè cesserebbe Roma d'esser cagione, o trista occasione almeno, di scandalo e setta nella famiglia cattolica, e mai non ricondurrebbesi a tale bontà da saper ritrarre, com'è ufficio suo peculiare, dalle viscere del cristianesimo virtù spiratrice e riparatrice del mondo moderno. A ciò non poter bastare, vi dissi, le riforme ed emendazioni del temporale; dovendo elle piuttosto succedere come effetto, che antecedere come causa; o, per lo men male, avvenire contemporanee con le spirituali ammende e riforme. Essere presenti i giorni fortunosi e difficilissimi di Nicolò II e Gregorio VII, in quanto che al risanare e reintegrare il papato occorrono prammatiche nove, spedienti animosi, saldo e virile consiglio.

Nè anzi mi tratterrò di affermare, che i tempi odierni ànno a riscontro di quegli antichi tale disposizione peggiore, e certo di gran momento; che, cioè, nel secolo undecimo gli occhi soli della Chiesa erano aperti a vedere ed a piangere i guasti e le sozzure del proprio suo tempio; laddove oggi ogni cosa avviene sotto l'indagatrice pupilla dell'altre Chiese cristiane, le quali non si astengono di predicare e trombettare su dai pinnacoli, che appresso i popoli loro è la fede molto meno rattiepidita, la moralità più sana e profonda, maggiore senza verun paragone la dottrina e modestia del clero, e che [519] quivi la religione è congiunta e amicata ai concetti generosi, e a tutti i rivolgimenti e progressi civili di nostra età: dalle quali asserzioni ci porgono poi per riprova, da una parte, lo stato fiorente e glorioso di essi popoli, come a dir l'Inghilterra, la Prussia, l'Olanda, gli Stati-Uniti; e dall'altra, la depressione e lo scadimento di quelli, come Polacchi, Spagnuoli, Italiani, Messicani, dove trionfò potentissimo e signoreggia tuttora non contrastato il culto cattolico.

Voi m'avete parecchie volte udito affermare, che il clericato romano, sebben muta i corpi, non muta il genio nè il vezzo, e che le menti e gli animi vi sono tutti impastojati a una foggia, nutriti d'un latte medesimo, fatti e formati a un medesimo stampo; laonde in ciascuno di loro è ferma e tenacissima la volontà di serbare integro e sempiternare (quando il potessero) quel tal misto d'ambizione, d'interesse e di santimonia da lor fabbricato, e il quale non si péritano di chiamare buono e perfetto governo della Chiesa e dello Stato. Quindi è fuor del possibile ch'entri loro in cuore alcuna voglia viva e sincera di correggere sè stessi, e innovare in parte veruna le lor condizioni, e che ritrovino (quando pure il desiderio sorgesse) abilità e forza proporzionate all'alto proposito.

Ora, i fatti più sopra allegati vi porgono di tale pertinacia e impotenza una molto chiara dimostrazione. Conciossiachè, insegnano tutte le storie, che nessun istituto civile, già roso nel suo midollo e pervenuto a decrepitezza, abbia voglia ed abilità di rialzare sè da sè stesso; e torna contraddittorio che là proprio dove la vita si estingue, si rinvengano forze da ristorarla: invece, quelle cagioni medesime che d'un abbassamento in altro maggiore trascinano con legge dura e ineluttabile di destino, vietano il riaversi e il risorgere; e si lo vietarono con l'azione loro incessante e mortifera alla Roma d'Augustolo, alla Bisanzio dei Paleologhi, e alla Venezia dei Manini e dei Renieri. Similmente, essendosi da ogni parte di quegli istituti ritirato lo spirito, e rimanendo delle cose la nuda corteccia, mutare per loro suona come annullarsi: quindi con severità farisaica vi sono riformati i più fradici usi, serbate le più vane apparenze, cresciuto di [520] mille doppj il servaggio; i vecchiumi soli vi ànno lode, e l'irragionevole ostinazione vi usurpa nome di virtù e di sapienza.

Nè da tale pervertimento e caducità degli umani fatti troviamo arbitrio nessuno di credere esente il pontificato in ciò appunto che à d'umano, e nelle sue esteriori e disciplinari disposizioni. Ed anzi aggiungiamo, che in queste è maggiore necessità o di emendarsi, o di perire. Avvegnachè, com'elle sono forme finite e determinate, e abito accidentale e sensibile d'una divina sostanza, loro non è conceduto di contenerla, e significarla, salvo che parzialmente e imperfettamente; e alla inesauribile sua facoltà di ampliazione e d'organamento, niuno dee pensare che riuscir possano in ogni tempo ed in ogni caso adatte, sufficienti e commisurate. Laonde, chi si ostina a volerle serbare intangibili ed immutabili, fa sembiante di negare la virtù infinita del cristianesimo; la quale per ciò che opera sulla terra e nel tempo, dee necessariamente assumere successione e limitazione; nè altrimenti può dilatare la sua eccellenza nè le sue maraviglie mostrare, che seguitando la legge imposta alla perfezione di tutti i finiti, cioè a dire l'indefinito ed interminabile spiegamento dell'essere proprio.

Le quali tutte considerazioni tenendo io vive innanzi alla mente, procederò con più stretto discorso alle ultime parti del mio subbietto.

IX.

Le mutazioni debbono esser cercate nè inferiori al bisogno nè superiori. Debbono alla sostanza delle discipline antiche ecclesiastiche non solo non contrastare, ma conformarsi intrinsecamente, e rinnovarne lo spirito quanto l'indole dell'età nostra il comporta. Debbono eleggersi le più semplici e pronte, eleggersi tali che si vedano consentire sapientemente ai pensieri nuovi del secolo; infine, eleggersi le più agevoli, od, a favellare esatto, le men malagevoli, poichè la cosa di sua natura è tra le difficili e travagliose. Gli anteriori discorsi provarono, credo, con abbondanza, ch'elle non possono primamente [521] e direttamente proceder da Roma, e dovere oggi, com'altra volta, nel corpo cattolico il vital calore ed il sangue dalle membra estreme salire e rifluire nel capo. Conciossiachè per le membra scorre tuttora occulta e sottile un'aura di salute e di vigoria più penetrativa e meglio efficace che nol giudica il volgo. Dov'io m'inganni e m'illuda su cotal punto, e nemmeno nel clero inferiore, il qual vince l'altro di sensatezza e di numero, non sia buona disposizione a ricevere e seguitare le verità che la general discussione va dimostrando e dilucidando, tutto il restante di questa lettera confesso che cade e s'annulla.

D'altro lato, non è forse la Chiesa, per propria essenza, la vita spirituale e comune di tutti i fedeli? Ella è in ogni luogo, e non è intera in veruna parte; e ciò tutto che piglia sostanza ed autorità perdurabile in lei, ottenne per innanzi l'universale consentimento, vogliatelo espresso o tacito, posteriore ai decreti di Roma o anteriore. Che il pontefice sia caput Ecclesiæ, ovvero caput in Ecclesiâ, come sottilmente si questionò, poco importa di definire. Conciossiachè nell'una e nell'altra sentenza rimane vero pur questo, che da sè e per sè il papa non è la Chiesa, nè alla Chiesa può prevalere.

Ma io vo dubitando non forse questo mio lungo proemiare e questo discorrere alquanto sospeso sieno per accendere in voi una troppa viva curiosità, la quale io non ò modo alcuno di soddisfare. E per fermo, egli trattasi unicamente di ricondurre in onoranza e in costume (benchè solo in qualche porzione e in maniera assai temperata) ciò che la cristianità intera praticò abitualmente per molti secoli e in tutte cose; intendo la elezione dei capi e dei reggitori fatta a suffragio comune del clero, e accettante e plaudente il popolo. Dico di rinnovarsene l'uso in qualche porzione, e in riguardosa maniera. Seguite, vi prego, le mie parole, e giudicherete, illustre Signore, s'io sono quell'avventato e guasto cervello che dicono. Io propongo, adunque, per lo men male, che in niuna provincia italiana o straniera si sveglino per al presente le gelosie di Stato; e però prosiegua il pontefice, prosiegano i principi a scêrre, come per addietro, i pastori spirituali de' popoli. Taccio similmente di Sinodo universale [522] infino a tanto che popoli e principi con ardore e concordia non lo richiedano: il che sarà molto tardi. Ma voglio che dai suffragi del clero appostatamente adunato in ciascuna provincia, escano tutti coloro a cui spetta il nome e l'ufficio assai profanato, ma solenne pur nondimeno e magnifico di cardinale di Santa Chiesa; e voglio, quindi, che il capo e giudice di tutta la cristiana repubblica venga da tutta essa eletto mediante que' suoi deputati nel novello Concistoro raccolti.

Il principio elettivo fu anima della Chiesa, e sua legge sovrana ed universale. I tempi declinando al peggiore, e sempre più temperandosi ella agli usi e alle fogge regie e feudali, recarono presso che al nulla quel suo spirito di franchigia e di fratellanza. Ora, il mondo che in ogni culta contrada esce di pupillo e ricompónesi a libertà, e in tutte le funzioni civili e politiche e in ogni maniera di magistrati rimena e dilata la virtù elettiva e forme più popolari di reggimento, chiede con giusta impazienza di scorgere altresì il principio elettivo restituito nella repubblica dell'anime e delle coscienze, che è la Chiesa. Certo, comparirebbe strano ed intollerabile, che il diritto dell'eleggere fosse durato appo lei ne' giorni ch'era sbandito dalla città e dal consorzio politico, e non risorgesse al presente che è da per tutto ricuperato, e in ogni principale esercizio del viver comune è intromesso ed usato assai largamente.

Queste cose non prima si annunziano, che il buon giudicio universale le assente, e brillano a tutti gli occhi di verità e di evidenza; perchè le necessità e il carattere dell'età nostra, la maturezza delle opinioni, l'indole singolare e propria de' nuovi costumi e de' nuovi istituti, la mente, a così dire, di tutto il secolo le pensa e le persuade. Ponete in disparte coloro al cui intelletto fa velo la cupidità e l'orgoglio, e coloro alla cui pietà e religione fa misero inganno la tirannia dell'uso, e la pochezza e viltà dell'ingegno e dell'animo; e voi sopra ogni bocca cristiana udirete oggi suonar di nuovo la sentenza antichissima di San Leone pontefice, che nelle sacre elezioni sia colui preferito il quale dal clero e dal popolo consenzienti è richiesto. Del pari, voi scorgerete esser nel voto d'ognuno, che la Casta del Quirinale si sperda; e udrete [523] quindi ripetere comunemente quella troppo legittima e naturale interrogazione di San Bernardo, ch'io poneva in fronte della mia lettera: an non eligendi ex toto orbe orbem judicaturi? Ben è vero che molte e significative assai sono state le domande di quel non timido cenobita, alle quali nè papa Eugenio nè gli eredi suoi nella tiara trovato ànno, infino al dì d'oggi, buona e adequata risposta.

X.

Ma vediamo in iscorcio i modi più pratici, e insiememente legali, ordinati e pacifici, per conseguire sì grande effetto. Voi col veloce ingegno supplite alla parsimonia di mie parole.

Roma per troppa vecchiezza ormai non à lingua nè moto, e soltanto la paura le rompe alcuna fiata quel sonno a cui torna sì volentieri, e che già piglia sembianza di letargía. Mestieri è, pertanto, che le Chiese sì provinciali e sì nazionali, risveglinsi e parlino, e quanta vena d'acque pure e vitali va disseccandosi in Vaticano, altrettanta ne sgorghi e zampilli per ogni dove del bel giardino cattolico. Concedo, o Signore, che congregare nel lor concilio nazionale i vescovi delle Gallie, o quelli delle Spagne nel loro, e così d'altri popoli, riesca oggi difficilissimo; e forse ai governi rispettivi non gradirebbe il disegno, ed alcuni de' più sospettosi ne impedirebbero l'attuazione. Ciò non ostante, la cosa è da reputarsi per buona e fattibile in sè; e gli esempj nelle storie ne abondano, e la necessità persuade azioni incomparabilmente più malagevoli. Nè mi sgomento a pensare che i concilj nazionali (a condurli con ogni piena e scrupolosa legalità) ricercano l'assenso di Roma. Perchè mal potrebbe esso lungamente e ostinatamente venir negato a un numero grande e concorde di vescovi, ciascuno de' quali è al papa uguale e compagno nell'ordine, e venerabile nella dignità. Ma io stimo e son fermo di credere, che radunanze molto più anguste e men rumorose sieno bastevoli all'uopo. E veramente, per li sinodi diocesani e annuali de' preti, e per li provinciali e triennali de' vescovi (i quali ultimi cominciano [524] appena a farsi vedere oltr'Alpe e oltre Reno), il convocarli ed aprirli non solo va esente dalle concessioni di Roma; ma l'astenersi dal porli in effetto e dar loro favore e incremento, contradice ad una delle più salutevoli disposizioni della Sinodo Tridentina,[51] la quale toccò in questo i termini non del rigore ma dell'indulgenza; conciossiachè dal concilio santissimo di Nicea venivano i vescovi comandati di abboccarsi nella provincia loro due volte per ciascun anno. In tali adunanze, adunque, prescritte non che lecite, da nessuno impedite, agevoli e pronte ad effettuarsi, io scorgo il punto dove consistere, e il germe fecondo vi riconosco d'infinita fruttificazione. Io non sarò presentuoso e inconsiderato da voler qui definire per filo e per segno quello che in seno di essi concilj dee venirsi deliberando. Una sola cosa desidero e spero, e non potendo agli uomini, la chiedo a Dio immortale; e ciò è, che i preti ed i vescovi congregati guardino alla urgenza estrema dei tempi, la misurino tutta quanta è, e di quindi piglino ardire e consiglio.

Che se alcuni di quei congressi (nè parmi speranza eccessiva) l'indole vera de' nostri tempi conosceranno, e nel chiuso dei petti umani s'industrieranno di leggere, e massimamente del clero inferiore, queste parole o le simili a queste addirizzeranno al Pontefice:

XI.

— Un nuovo caldo di evangelico zelo ricerca, Padre Santo, le viscere della Chiesa, e scoppiano qua e là faville di luce nuova. Imperocchè l'anime pie, forte sgomentate delle vaste e crescenti ruine, e trafitte in cuore dell'accidia abituale e immedicabile dei ministri di Dio, pregarono con singhiottoso pianto al Signore, e sclamarono: Vieni da quattro venti, o spirito, e soffia su cotesti morti, e vivano.[52] Però il mondo cristiano non à indietreggiato in sui sentieri di perfezione, e posto à lunga fatica a riempier di beni i famelici, e nell'esaltazione [525] degli umili si è compiaciuto.[53] Se non che (facciasi luogo al vero), quegli ubertosi principj di umanità, di scienza e di sempre crescente prosperità e gloria di nostra stirpe, che il Vangelo va maturando, e quegli eterni ed inessicabili semi di libertà, di fratellanza e d'universale amicizia fra i popoli che la legge d'amore produce, ànno germinato assai meglio ed in maggior copia nell'altrui campo e sotto le mani de' laici, che nelle terre de' Chierici all'ombra stessa del santuario. Posciachè questi, mal ravvisando il lento portato della cristiana carità, sembrano ributtare indietro e combattere fieramente il vivere moderno civile, e l'infinita potenza di bene che vi si cela. Quindi negano che nel suo grembo prosiegua sotto altre sembianze l'effettuazione di quell'annunzio apostolico: Voi a libertà siete chiamati, o fratelli;[54] quindi ricusano di conoscere il decreto sommo e providissimo, il quale dispone che al colmo d'ogni libertà si giunga per la pienezza d'ogni scienza e per la progressiva sublimazione degl'intelletti e dei cuori; essendochè fu promesso che il vero ci farà liberi,[55] e fu comandato all'umano consorzio di ascendere di grado in grado nell'infinito d'ogni eccellenza, tanto che siamo perfetti, siccome il padre celeste è perfetto;[56] e similmente s'infingono di non sapere che il regno di Dio debba avvenire altresì sulla terra;[57] e la città santa debba discendere dall'eccelso acconcia siccome sposa che al suo marito s'adorna; mentre una voce uscente dal trono divino sarà udita sclamare: Ecco il tabernacolo di Dio per mezzo agli uomini, ed egli abiterà con loro, ed essi saranno suo popolo.[58] A tale funesto dissidio è necessità metter fine. Necessità grande si è che i pastori dell'anime, entrando con esse per le inusate e magnifiche vie del secolo, procaccino di divertirle dai precipizj dove, abbandonate da noi e di noi fastidite, rischiano di dirupare.

Può la civiltà senza religione essere altra cosa che apparenza ed orgoglio, ludificazione e rimpianto? e può la fede [526] e la religione divisa dagli abiti della presente vita comune, non riuscire un eccesso di mente solitario e infruttifero, e sembiante al tamarisco che sorge nell'aridità del deserto e in terra abbruciata ed inabitabile?[59] Eziandio è grande necessità, che cotesto verbo evangelico il quale ora udiamo acclamare tra i popoli i loro diritti,[60] e con alte e distinte voci parlare di carità cittadina, di pubbliche e maschie virtudi, e d'universale affrancamento e giustizia; e il quale, come tutte le cose divine, è novissimo e antichissimo a un tempo; echeggi non solo e riverberi negli orecchi della Santità vostra, ma sempre le risuoni vicino; e non possano i motti de' cortigiani e lo strepito delle cancellerie romane sopraffarlo ed estinguerlo, nè altrui cavare della memoria, che servir si debbe in novità di spirito, non in vecchiezza di lettera,[61] e che lo spirito solo vivifica e la lettera uccide.[62] Ei fa bisogno oggimai, che gli eletti e rappresentanti del clero cattolico, e i veri testimonj ed annunziatori del comune ed universale pensiero cristiano, siedano accosto all'eccelsa cattedra vostra, sì che la parola uscente da quella, torni, siccome fu per antico, augusta ed autorevole a tutte le umane prosapie; e sia cessato lo scandalo triste e lamentabile senza fine di vederla accolta assai spesse fiate con muto dolore dai buoni, con non curanza dalle plebi, e con beffevole riso dagli avversarj. Più non è concedibile oggi, che tutto un preclaro e venerando collegio il quale debbe ad una con la Santità vostra reggere e cardinare la Chiesa, esca dall'arbitrante suffragio d'un solo ed unico uomo, sia pure principalissimo e il più degno e onorando di tutti i credenti; perchè all'individua esperienza e all'individuo consiglio di nessun uomo è dato mai di conoscere gl'innumerevoli particolari de' luoghi e delle persone, meglio o altrettanto di quello che li sa e conosce ciascuna Chiesa a rispetto del proprio gregge e nei confini del proprio ovile: però si legge nell'Esodo, Peso è cotesto non dagli omeri tuoi, nè potrai durarlo tu solo.[63] Oltrechè, nei sacri negozj i quali il divino afflato [527] non comanda nè modera egli medesimo, ma sono alla prudenza dell'ordine sacerdotale affidati, non par dubioso che si convenga di governarli oggidì conformemente al genio dei tempi universale e imperioso, ed a cui non apparisce ben validato e sancito verun officio ed atto, quando da libera e larga elezione non pigli origine e forza. E da qual dubio, Padre beatissimo, può rimanere su ciò avviluppata la mente nostra, ricordandoci che nella Chiesa fu massima inviolata e perenne della esemplarissima antichità, dovere ogni qualunque sacro ministro essere conosciuto, amato, desiderato da tutti coloro a cui gli appartiene di comandare? e che altro modo più proprio e più conducente a cotal fine ci avverrà di trovare, se non l'elezione operata da quelli in cui s'adempie il comando? Per fermo, egli è scritto il pastore va davanti al suo gregge, e questo lo seguita perchè conosce la voce sua,[64] e perchè è pasciuto da lui con la spontaneità, e non con la forza.[65] E ciò tutto se per ogni luogo è vero, quanto divien più vero e più certo in risguardo di Roma, dove al presente ogni cosa si va meschiando di cupe passioni e disorbitanti, e quasi si è fatto impossibile serbare giudizio imparziale e mente non preoccupata e libera? Noi scorgiamo con gran dolore, che intorno al seggio pontificale accalcasi una sempre medesima specie e natura di uomini, mossi non rado da private mire e ambizioni, inesperti del rimanente mondo, nati o allevati in iscuole e in dottrine sterili e pedantesche, vuote di vera scienza, traboccanti d'orgoglio, ove la lettera uccide lo spirito e usurpa il luogo della virtù e della sapienza; ondechè ei son fatti un rame risonante e un cembalo che tintinna,[66] e i loro umani comandamenti saranno diradicati come piantagione che non fu opera del padre celeste.[67]

Angoscioso ufficio adempiamo di nudare e trattare le piaghe della sposa di Cristo; ma il cuor nostro si rassicura nel cospetto della verità,[68] e ci bisogna spegnere qualunque [528] temenza di pronunciarla, perchè timore e carità non s'accorda.[69] E come ardiremmo noi di chiudere e sigillare le nostre bocche, vedendo tutto giorno lo studio diligente e infelice che pongono costà i cortigiani e gli scribi, perchè il sommo reggitore dell'orbe cattolico sia sempre una verga pullulata di lor semenzajo, e perchè egli, a vicenda, delle propaggini loro faccia rinfronzire i più eletti luoghi dell'orto di Cristo? Vogliano i cieli misericordiosi disperdere cotale malizia, e confondere il serpe, il quale mordendo la propria coda e sè in se stesso rigirando continuamente, chiude dentro al suo viluppo l'altare e il tempio di Dio. Certo è, beatissimo Padre, che fra quegli uomini e l'altre genti diffuse per le terre cattoliche, sembrano alzate lunghe muraglie e attraversati non valicabili fiumi.

Ma, per ragionare di ciò che il giudicio umano può, circa al proposito nostro, avvisare e provvedere, egli è grandemente mestieri che intorno di voi, supremo gerarca, radunisi, eletto innanzi nel seno d'ogni nazione, un santo concistoro di cherici e vescovi, fiore di tutta cristianità, sale della terra, munito, per così dire, e precinto dello spontaneo voto e mandato delle chiese e dei popoli. Esente egli dalle grette passioni, dalle subite paure, dalle soppiatte carnalità, dalle temporali sollecitudini che in cotesta Roma dànno perpetua battaglia; esente dalle prelatizie vanezze e piacenteríe, ignaro dei sofismi curiali e delle mene e ambagi segretariesche, recherà ai piedi della Santità vostra gli affetti e i consigli sinceri e patenti delle singole comunanze cattoliche; e quivi dinanzi a Voi, con semplicità di cuore e altezza d'intendimento, sponendo ciascuno il proprio concetto; da ultimo, lo spirito inerrante di Dio trarrà da tutti i lor pensieri, siccome da corde di celeste salterio, la mente armonizzata ed unificata della gran Chiesa universale. Ecco, io li adunerò da tutte quante le terre...., e darò loro un sol cuore e una sola via.[70]

Antico adiutorio è questo che noi invochiamo, e alle apostoliche tradizioni affatto conforme: però un consiglio interiore [529] ci ammonisce di sperare in esso altamente. E per solo esso, al conflitto acerbissimo e lacrimabile insorto fra lo Stato ed il Sacerdozio, fra l'Italia e il Papato, fra il governo clericale e le sempre ammutinate e calcitranti provincie, può rinvenirsi buona composizione e durevole accordo; perchè ai degni eletti delle diverse e remote provincie e nazioni poco importando gl'imperj secolareschi e le ricche ed oziose prebende, verrà presto veduto alcun modo di perfetta conciliazione fra la libertà dei popoli, la franchezza d'Italia; e la indipendenza e libertà della Santa Sede, a cui bisogna ugualmente di non obbedire nè alle plebi nè ai principi; i quali con finissima dissimulazione vogliono alla Santità vostra concedere quante più sembianze e mostre e apparati si trovano d'arbitrio e di signoria, e quanta minore sostanza è possibile: però si legge, e lo vestirono di porpora, e gli posero nella destra una canna, e beffandolo s'inginocchiarono. Allora la rinnovata sapienza di Roma, sposandosi ad ogni popolare e civile spirito dell'età nostra, e cessando di riprovare i sentimenti generosi e le aspirazioni magnanime di tanta e si nobil parte dell'umana progenie, un filiale amore, un'osservanza ossequiosa e una dolce e perdurabile maraviglia entrerà in cuore di tutti verso l'apostolico ministero della Santità vostra, e le fornirà schermo e difesa infinitamente migliore che non le armi straniere e il temporale principato. E per fermo, chi più di voi, Maestà spiritale e sovramondana, dee vivere in sospetto e paura di quella sentenza, maledetto l'uomo che confida nell'uomo e s'appoggia a braccio di carne?[71] Nè dee cadere dalla vostra memoria, che la pupilla del profeta vide i re inchinarsi alla donna sedente su molte acque, e con lei fornicare e bevere alla coppa sua; ma scamparla da mezzo ai rischj ed alle ruine già non li vide.

Non può la indipendenza vera e perpetua del sacerdozio d'altronde uscire che dal diritto e incrollabile animo dei pontefici per un lato, e dalla comune coscienza per l'altro delle nazioni civili, la quale professi altamente e insegni e promulghi in tutte le leggi ed insinui in tutti i costumi, essere iniquo e barbarico sturbare e comprimere una potestà [530] immateriale ed inerme, che chiede ai cuori e agl'ingegni suggezione razionale e spontanea, e niun mezzo terreno adopera, salvo la parola e l'esempio. Che se dalle Chiese adunate innanzi alla Paternità vostra uscirà sapiente e libera quella parola, non è sui monti di Dio così bene eretta e fondata, nè così d'armi e palvesi celesti guernita la torre di Dávide, come sarà la seggia vostra immortale e l'impero del Vaticano.

Noi confessiamo riverenti, che in Voi, santissimo Padre, è il colmo d'ogni dignità e la plenitudine d'ogni giurisdizione; e sappiamo che lassù prega Cristo Signore perchè la vostra fede detrimento non soffra. Ma si consideri benignamente da Voi la umiltà degli Apostoli, pieni d'infallibile verbo, i quali ciò non pertanto convocata la moltitudine dei credenti, dicevano loro: Avvisate di elegger fra voi sette uomini...... acciocchè noi li costituiamo nel ministerio del diaconato.[72]

Piacciavi, dunque, non che di permettere, ma sibbene di comandare e sollecitare la pronta convocazione dei nazionali concilj, dovunque non gl'interdica la legge secolare e scandalo non ne segua. E ad ogni modo, prescriva la Beatitudine vostra da per tutto ove ancora è bisogno, e con istudio e cura solerte e diligentissima instighi e affretti la esecuzione piena e fedele del canone tridentino, il qual vuole s'adunino per ogni luogo ed ogni anno le Sinodi diocesane (quotannis); le provinciali de' Vescovi una volta almeno (saltem) in ciascun triennio! Sia prescritto parimente e raccomandato dall'oracolo vostro, ch'elle si pongano quanto più possono, e per ogni onesta e spedita maniera, in commercio di mente e d'affetto fra loro; talchè i pensieri, le proposte, le controversie, gli scrutinj, le deliberazioni e le opere s'accostino fra tutte esse alla maggiore unità di concetto, di proponimento e di metodo. Essendo, certissimamente, che loro spetta di avverare la sentenza di Paolo: che siccome non v'à nei cieli più che un Signore Iddio, così nella Chiesa v'à un solo corpo ed un solo spirito;[73] e Similmente, elle debbono procacciare che sia la [531] preghiera di Cristo esaudita, di rendere tutti i discepoli suoi una cosa sola.[74]

Fatto ciò, noi supplichiamo l'alto datore e dispensatore dei lumi, perchè a Voi persuada fermissimamente e con giudicio immutabile, di comandare a ciascuna di quelle pie radunanze d'eleggere fra' suoi più illustri e specchiati per virtù e sapienza, uno o parecchi, i quali sieno nunzj e rappresentatori di lei appo la vostra eccelsa persona. Quindi, convenuti a grave consulta innanzi di Voi, con Voi riposatamente e con apostolica libertà e zelo ragionino della salute universa del cattolico gregge. Ma, principalmente, e per ufficio e mandato espresso e particolare, discutano del modo più degno e più pronto e meglio operabile di comporre in futuro appresso la cattedra santa di Pietro, un Concistoro elettivo, da tutte le Chiese costituito, interprete verace ed eloquente di tutte, e il quale partecipi ciascun giorno al vostro magno ministero, e regga in Laterano le vostre braccia, non per isconfiggere e vincere alcuno, ma per benedire e letificare ogni umana generazione. Così liberamente appresso di Voi radunato il popolo d'Israel, acceso di fiamma profetica e tristo a morte delle accumulate ruine di Gerosolima, porrà mano tutto lieto e concorde a riedificare sulla pianta loro stessa l'altare e il tempio di Dio.[75] —

XII.

Vere e franche parole, direte voi, ma chi vorrà proferirle? Rispondo: proferiránnole prima pubblicamente le lingue dei savj, e nel secreto de' lor pensieri i chierici ricreduti e buoni; che oggimai sommano gran moltitudine, e da per tutto ve n'à uno scelto drappello. A quelle lingue (se trombe del vero) converrà pure che schiudan l'orecchie dell'animo i prelati più modesti e sinceri di tutta cristianità, e a cui le riforme non pesano e non mettono sbigottimento: nè coloro che arieggiano tanto o quanto all'arcivescovo di Parigi, sono sì scarsi al dì d'oggi; e il novero non può scemare, [532] anzi è fatale che cresca. Perocchè, dove non resistono gl'interessi, entra e invade la generale opinione; e questa oggi è ricevuta dal clero, non fatta; e chi la fa, desidera quel medesimo che voi ed io desideriamo.

Ora, ponete che i Sinodi diocesani ed i provinciali moltiplichino; le discussioni sdrúcciolino quivi bel bello in tale argomento, e il discorso popolare se ne occupi e se ne infiammi; ponete che l'esigenze dei tempi s'aggravino; le strettezze di Roma s'addoppino, le sue sorti precipitino, la sua smoderanza e gli errori spesseggino, come suole avvenire ad ogni istituto scassinato e cadente. Fate che i Sinodi, come par naturale, assicurino ai meno arrischiati e più circospetti libertà onesta di parlare e di consigliare; e che l'oscitanza e l'ignavia di gran porzione del clero sia vinta e sforzata, e la sua muta e timida sottomissione abbia termine; ed ei si risenta alcun poco, e parli e supplichi con voce riverente bensì, ma concorde e robusta, e non mai discontinua: tutte cose, chi ben le stima, che il secolo nostro apparecchia e trae seco quasi per mano. Fate che da alcuni reggimenti più popolari (e già gli Svizzeri ne ragionano) venga restituito alle parocchie il diritto di eleggere o di proporre per lo manco i proprj rettori: esempio ne' nostri giorni impossibile a tenere occulto, e senza efficacia d'imitazione. Fate, da ultimo, che a ciascun uomo, ed ai governi e ai principi, non meno che alle popolazioni compaja verissimo, siccome pur troppo è, nulla concessione, riforma ed innovazione, potersi più oltre aspettare da Roma, quasi per paura e viltà impietrita; e questa sola ed unica via che noi indichiamo, rimanere sgombra e non intercisa, e dare varco e passaggio ad ogni ammenda, ad ogni salute, ad ogni conseguibile grado di perfezione nella Chiesa e nel mondo; e la cosa, da speculativa e ipotetica, piglierà certamente aspetto compiuto di certa e non transitoria realità.

Io stringo, mio riverito Signore, ogni concetto in uno, e concludo: o nessun partito e nessuna prudenza è buona e bastevole in tale materia, perchè l'agita e la governa lo sdegno di Dio: ovvero è bisogno che la presente prelatura romana si rimpasti e rinsanguini tutta, e muti gran parte degli [533] ordini suoi; e però faccia luogo a un santo e dotto sinedrio, scelto e inviato alla città eterna da tutte le Chiese cattoliche, per essere squille di verità, e nell'universo intero dispanderla e celebrarla.

Crispo Salustio, interrogato da Cesare sul riformare lo Stato e il governo di Roma, provavagli con gran saldezza, doversi cominciare, anzi tutto, dal condurre in quella nuove schiatte di cittadini. Ora, io dico ed affermo: chi vuol correggere e riformare la Roma moderna pontificale, dia nuovi abitatori a Monte Cavallo.

Di Genova, li 10 di novembre del 1850.

[535]

APPENDICE.

[537]

Il vivere appartato ed oscuro non bastò sempre all'Autore di queste prose per sottrarsi alla indiscrezione di certi libri e gazzette, che alcuna volta il maltrattarono e con menzogne l'assalirono. Ned egli se ne risentì; perchè le ingiurie sconcie ed immeritate si spuntano; le accuse zoppe cascan per via. Ma quando parlano scrittori probi, diligenti ed assai reputati, il silenzio non è scudo buono, e può parere confessione del torto.

Ora, l'Italia annovera con gran ragione tra que' probi, diligenti ed assai reputati, il chiarissimo dettatore degli Ultimi Rivolgimenti italiani, nel primo volume de' quali raccontasi, in fra l'altre cose, la Convenzione fatta in Ancona il 26 marzo del 1831, tra il cardinale Benvenuti e il Governo Provvisorio delle provincie unite italiane, e vi si leggono le infrascritte parole: «Questo atto però fu causa di recriminazioni anche fra i liberali. Terenzio non lo aveva voluto firmare, credendo le cose tuttavia non disperate. Gli eventi non giustificarono le sue speranze; ed egli con questo rifiuto, che chiarivalo uomo più immaginoso che pratico, trovossi tra i meno temperanti collocato: ciò era certamente più per eccesso d'immaginazione, o piuttosto per voglia di primeggiare, che non per radicali principj che nudrisse in cuore. Il fatto però dee notarsi.»

Che il Mamiani nel 1831 si chiarisse uomo più immaginoso che pratico, non fa maraviglia; perchè, oltre all'essere egli il più giovine di tutti que' suoi colleghi, ignorava interamente i maneggi politici, e i maggiori negozj ministrativi, dai quali erano i sudditi laici del papa gelosamente tenuti discosto. Se non che, sotto tal rispetto, non sembra che fossegli da contrapporre l'ingegno e l'arte de' suoi colleghi; imperocchè [538] ad essi pure gli eventi non giustificarono le speranze, e poca pratica dimostrarono, presumendo, contro la storia e contro ogni buon giudicio, che alla convenzione da loro fatta in quel caso e in que' termini avrebbe Roma tenuto fede. Ad ogni modo, l'abbondare di fantasia per sè non è male, e la coscienza non se ne grava, potendosi riversare la colpa sulla natura. Ma perchè promovere il dubbio che il Mamiani dissentisse da' suoi colleghi per voglia di primeggiare? non si conveniva egli o tacere l'accusa o fornirla di qualche prova? Se pigliamo arbitrio di parlare poco lodevolmente delle intenzioni altrui senza obbligo di citarne i segni e gl'indizj manifesti, nessuno andrà esente d'errore; e si scriverà, per esempio (ed anzi fu scritto), che i colleghi del Mamiani si unirono in quell'accordo non per prudenza ma per paura. Del resto, il Mamiani (come vedesi dal Documento A stampato qui appresso) ricusò di soscrivere la convenzione solo perchè ne avea biasimato il concetto quando se ne tenne particolare consiglio e deliberazione. Nel qual parere egli venne per due ragioni. La prima, che reputava il patto insufficientissimo, e da non essere mai serbato e osservato. La seconda, che gli sembrava poco onorevole il dar quell'esempio agl'Italiani di chiedere venia ad un cardinale che, mandato a sollevare le plebi delle Marche e delle Romagne, avea costretto il Governo a trarselo dietro prigione da Bologna ad Ancona; e falso è che venisse prosciolto prima del trattare la convenzione. Aggiungeva a tutto ciò il Mamiani, doversi ad ogni modo aspettare l'arrivo dello Zucchi, nè risolvere tanto affare senza che s'intendesse la mente del capo delle milizie. Vero è peraltro, che la grande umiltà di quell'atto rimase come velata agli occhi del popolo; ma non per industria del Governo, bensì per quella del cardinale, che, divenuto a un tratto, di prigione che era, padrone ed arbitro d'ogni cosa, mostrò maravigliosa modestia e mansuetudine, e degna al tutto d'un santo vescovo.

Pel rimanente, il Mamiani ringrazia il signor Gualterio del non avergli attribuito opinioni eccessive, e del lodare che fa le nomine allora avvenute dei prefetti e vice-prefetti, le quali procederono tutte da esso Mamiani, che reggeva il ministero [539] degli affari interiori, e che nella scelta almeno delle persone mostrò di tenere in briglia la fantasia.

Quanto poi al giudicio che leggesi nel primo volume dei Rivolgimenti circa la sollevazione del 1831, non riuscirà forse inutile di paragonarlo all'altro conciso, ma schietto, che ne dava il Mamiani or sono parecchi anni, e il quale riferiamo sotto la lettera B, togliendolo dal secondo volume delle Memorie del generai Pepe, ove primamente venne inserito.

A (Tolto dal volume 24mo della Revue Britannique, pag. 404.)

RECTIFICATION.

A monsieur Amédée Pichot, directeur de la Revue Britannique.[76]

Monsieur,

J'ai lu, dans le dernier numéro de votre Revue, un article signé par Mazzini, où cet écrivain raconte et juge à sa manière les événemens de la révolution de l'Italie centrale en 1831.

M. Mazzini, en rendant compte de la capitulation d'Ancône conclue entre le Gouvernement provisoire des Provinces-Unies et le cardinal Benvenuti, dit: «Le 26 (mars), tous les ministres apposèrent leur signature, à l'exception de Pepoli seul, qui était absent. Je dis Pepoli seul, quoique je sache bien que le nom de M. Mamiani ne figure pas parmi [540] les autres; mais j'ai à ma disposition le procès-verbal de la séance du 25, où est décrétée la capitulation, dont le traité du 26 n'est que la ratification et où son nom se trouve joint.»

Il y a dans ces lignes une erreur de fait qui me regarde, et que je tiens à rectifier.

Lors de la capitulation d'Ancône, M. Pepoli n'était pas membre du Gouvernement, et il résidait à Pesaro en qualité de préfet.

Le seul ministre qui n'a voulu ni adhérer à la capitulation, ni la signer, c'est moi, ainsi que cela est bien reconnu par toutes les personnes qui ont été témoins du fait.

Si j'ai apposé ma signature au procès-verbal de la séance, d'après l'usage qu'on avait établi pour chaque réunion, tout le monde sait qu'un tel acte n'a d'autre valeur que de constater la vérité des faits qui y sont rapportés.

Ce même procès-verbal, dont parle M. Mazzini, dit que la résolution d'entamer un traité de capitulation avec le cardinal Benvenuti fut prise à la majorité des voix, et c'est précisément sur ces paroles que M. Mazzini devait porter son attention, s'il est vrai que la pièce authentique soit demeurée dans ses mains.

Mais il est plus facile de croire qu'il a été induit en erreur par une brochure du général Armandi, publiée quelques mois après les événemens de 1831, où il est dit que la capitulation du 26 mars fut décidée à l'unanimité. Dans ce cas, M. Mazzini ignore que cette erreur de M. Armandi a été avouée et rectifiée par lui-même, ainsi qu'on le voit par le document dont vous trouverez la copie ci-dessous.

Votre politesse, Monsieur, et votre loyauté bien connue me font espérer que vous voudrez bien porter à la connaissance de vos abonnés cette rectification qui a pour moi beaucoup d'importance.

Agréez, Monsieur le Directeur, l'assurance de ma considération distinguée et de ma profonde estime.

De Paris, le 16 novembre 1839.

Votre très-devoué
Terenzio Mamiani.


[541]

«A M. le général Armandi, ancien ministre de la guerre du Gouvernement provisoire de Bologne.

»Monsieur le Général,

»Après avoir lu l'opuscule que vous venez de publier sous le titre: Ma part dans les événemens de l'Italie centrale, je me vois dans la nécessité de révéler une erreur qui vous a échappé. Vous dites, à l'occasion de la capitulation d'Ancône, que la résolution d'entrer en négociations avec le cardinal Benvenuti fut prise à l'unanimité par les membres du Gouvernement. Je dois vous rappeler, Monsieur, que cette unanimité ne fut pas complète, puisque sur neuf membres délibérans, il y en eut un qui fut d'un avis absolument opposé; et vous savez que ce fut précisément moi: c'est pour cela que le procès-verbal de ladite résolution annonce qu'elle fut prise à la majorité des votes, et non à l'unanimité; et c'est encore pour cela que je refusai de signer la convention lorsqu'elle fut conclue.

»J'ai toute raison de croire, Monsieur le Général, que, par amour pour la vérité, vous trouverez juste que je donne toute la publicité possible à cette lettre.

»Je suis, etc.

»T. Mamiani
»Ancien ministre de l'Intérieur du Gouvernement de Bologne.


»A M. le comte Mamiani.

»Monsieur le Comte,

»Je me souviens parfaitement des circonstances dont il est question dans votre lettre. Il est juste de dire que, pendant les débats qui amenèrent la convention d'Ancône, vous avez été d'un avis contraire à celui des autres membres du conseil; mais comme le procès-verbal de la séance a été revêtu de toutes les signatures, et que vous-même vous avez signé purement et simplement, sans prendre acte de votre opposition et sans la motiver, je pouvais regarder la résolution comme unanime, quelle qu'eût été la diversité des opinions pendant la discussion; diversité dont je n'ai pas oublié de faire mention dans mon écrit. Au fond, une majorité de huit voix sur neuf ne diffère pas beaucoup de l'unanimité, et c'était assez pour le lecteur, auquel je devais épargner des détails peu importans pour l'ensemble.

»Je suis maintenant fâché de les avoir supprimés, puisque je vois que cela vous déplait; mais je vous prie de croire qu'en agissant de la sorte je ne pouvais jamais avoir l'idée de dissimuler la justice qui est due à votre manière de penser.

»Veuillez bien en être persuadé, Monsieur le Comte, et agréer en même temps mes sentimens distingués.

»Je suis, etc. etc.

»Le général Armandi

B (Tolto dal 2º volume delle Memorie del generale Guglielmo Pepe.)

La sollevazione dell'Italia media nel 1831, ebbe a proprio movente l'odio pubblico e antico inverso il governo di [542] Roma; per occasione, la cacciata di Carlo decimo dal suolo di Francia; e per ultimo impulso, il principio del non intervento con solennità proclamato dai ministri di Luigi Filippo. Senza la fede (comune allora e fermissima) in quel principio ed in quelle dichiarazioni, noi crediamo che nessuno grave moto politico sarebbe accaduto in Romagna e nei due Ducati; e ciò, non per poca avversione contro al governo assoluto, massime contro a quello sbrigliato e sconvolto de' preti; ma per avere in sulle porte uno straniero formidabile, apparecchiato a spegner nel sangue ogni sorgente favilla di libertà. Cominciò dunque la sollevazione dell'Italia media con ruinoso fondamento, e l'aspettazione certa degli ajuti francesi fecela operare e procedere in ogni cosa con languore non iscusabile. Ella dimostrò, peraltro, a rispetto de' moti politici anteriori, un vero incremento di bene in ciò, ch'ella fu tutta di pensieri e di voglie italiane, senz'ombra d'interessi e ambizioni municipali: il che in ispecie lasciòssi scorgere e ravvisare ne' colori nazionali inalberati dappertutto spontaneamente, nel gridarsi non altro che Viva l'Italia; e in questo eziandio, che il governo principale colà costituito s'intitolò Governo provvisorio delle provincie unite italiane, volendo significare ch'egli aspettava altro maggiore e miglior governo sotto di cui diversi Stati italiani sarebbero addivenuti provincie di un sol paese. Impertanto, non è da badare a certe frasi stampate allora ne' manifesti, ed a certi atti del governo particolare della città di Bologna, ingiuriosi ed ostili a' poveri Modenesi. Ognuno, e in quel governo e fuori, li salutava fratelli e amávali come tali; ma la sciocca paura di non dare appicco all'Austria d'intervenire e alla Francia di non impedirlo, fece scrivere e fare parecchie inutili dissimulazioni, e certe finte e mostre più da fanciulli che da uomini gravi e sensati.

«Venendo meno la speranza del non intervento, doveva all'Italia media mancare altresì ogni fede in sè medesima, e ogni gagliardia disperata per tentare di mettere in salvo la libertà. Tuttavolta io penso che più di un fortunato accidente poteva impedire il disastro, o ripararlo in massima parte, e cangiare forse per sempre i destini della Penisola. [543] Se il malumore di Modena, di Bologna e di Parma fosse scoppiato parecchi mesi innanzi, quando in Francia l'ardore degli animi ancor non freddava; o se in Piemonte ed in Napoli non fossero ascesi al trono in que' medesimi dì due principi nuovi, a cui riuscì molto facile il tener sospesi i corrivi ed i pusillanimi (che sempre sono i più) con vane aspettazioni e sembianze di regno assai liberale, altra piega avrebbero preso gli avvenimenti. Del pari, se ne' primissimi giorni dell'insorgere delle provincie unite fosse quivi comparso un uffiziale sperimentato e animoso, il quale, radunando le poche ma buone truppe stanziate in que' luoghi, fosse proceduto diritto inverso gli Abbruzzi per sollevarli, od anche avesse marciato fin sotto Roma; tale era in que' giorni lo sgomento, la paura e la confusione de' prelati, che quella Metropoli insigne caduta sarebbe in mano de' nostri, e si importante caso traevasi dietro, come a forza, molte novità nel vicino reame di Napoli. Un sol mese più tardi avevano le cose mutato faccia: tanto nelle rivoluzioni conviene essere attivi e solleciti. Io accenno poi cotesti varj supposti, ognuno de' quali non mi par temerario a dire che bastava forse a far cominciare il risorgimento d'Italia, perchè si vegga che quivi la materia non è così mal disposta ed inerte come taluni van predicando; e di fatto, niuno, senza ingiuria del vero, dee stimare immaturo e mal preparato alla libertà quel paese, ove un qualche favorevole accidente la può far sorgere e far perdurare. Ma tornando alla sollevazione del 1831, egli è da avvertire che sul cadere di marzo la corte romana, per lettere autografe di personaggi altissimi, venne accertata che all'Austria si dava licenza di accorrere a rimetterla in piede e a schiacciare la generale rivolta. Questa tolleranza insperata de' Francesi, bastò a farle riavere gli spiriti, e dar mano a qualche vigoroso provvedimento. Armò gente campagnuola e rozza, raggranellata nella Sabina e in Marittima; sparse danari e indulgenze in Trastevere; sollevò gli animi, come potè il meglio, colle predicazioni, e colle altre solite arti giovátele ne' vecchi tempi maravigliosamente, e neppure allora sfornite d'ogni efficacia. Dopo ciò, l'entrare in Roma e occuparla con un pugno di soldati e di giovani volontarj [544] più non era fattibile; e la causa della libertà italiana dovette nuovamente soccombere, insegnando alle presenti generazioni ed alle future, che la salute della patria non istà mai in altre mani salvo che nelle proprie, e non vien data ma vien rapita, non si trova ma si conquista.

Nel corso brevissimo di quella sollevazione dello Stato romano, tre cose, a mio giudizio, furono di momento. La prima, che quanto grande mostròssi in ciascuno l'inesperienza de' gravi negozj, altrettanto riuscì bella e notabile la modestia, la probità e il disinteresse. La seconda, che troppo si volle diffidar della plebe, e si usò scarsamente de' mezzi legittimi e acconci, i quali potevano smoverla e trarla tutta dal nostro lato: errore massimo e più volte ripetuto in Italia. La terza, che la intenzione manifesta e la dichiarazione iterata e solenne di abolire affatto il dominio temporale de' papi, nè scandalizzavano le moltitudini, nè accendevano contro di noi la parte loro più numerosa e ignorante. Gl'increduli e gl'indifferenti ne giubilavano; i credenti e pii vi scorgevano la mano di Dio, per punire i vecchi peccati del clero, e riformare la Chiesa. Per quest'ultimo rispetto, la sollevazione dell'Italia media nel 1831, benchè tenue assai nelle sue vicende e infelice nell'esito, segnò un punto rilevantissimo nella storia civile de' nostri tempi; conciossiachè ella dichiarò al mondo intiero cristiano, che quel dominio pontificale, stato per secoli una delle funeste cagioni delle sventure italiane, e la principalissima de' vizj e disordini della Chiesa, o più non vivrà di virtù e forza propria, e sarà in odio e in disprezzo crescente ed inestinguibile alle popolazioni sue stesse; o dovrà mutare dalla radice gli ordini suoi, e per quanto il comporta la nostra età, ripristinare le forme e gli abiti popolari antichi, e rimettersi in cuore gli spiriti generosi del regno di Alessandro III.

FINE.

[545]

INDICE.

Avvertimento dell'Editore. Pag. v
Prefazione. ix
 
PARTE PRIMA.Tempi di riforme.
 
Nostro parere intorno alle cose italiane. 5
Documenti pratici intorno la rigenerazione morale e intellettuale degli Italiani. 18
Alla contessa Ottavia Masino di Mombello. — Lettera. 47
Lettera in forma di circolare. 50
Lettera al cardinale Ferretti, segretario di Stato. 51
Discorso recitato al banchetto che il Circolo Romano offriva e dedicava all'Autore il dì 23 di settembre del 1847. 53
Sulla Toscana. 57
Parole dette in Perugia nelle stanze de' Filedoni, il 18 di ottobre del 1847. 63
Discorso recitato al banchetto che i Pesaresi offerivano all'Autore concittadino, il dì 31 di ottobre del 1847. 68
Il Municipio di Pesaro al suo Deputato appresso il Pontefice. — Allocuzione. 77
Programma del Giornale La Lega Italiana che pubblicavasi in Genova. 101
Fatti di Milano nel gennajo 1848. 110
Dell'ordinamento nuovo de' Municipj. 114
Dispacci francesi sulle cose italiane. 119
Dello stato presente d'Italia. — 19 gennajo 1848. 122
Del fatto di Livorno. — Adì detto. 125
L'Eco dell'Alpi marittime. — Adì detto. 128
Notizie della Sicilia. — 21 gennajo 1848. 129
Della Sicilia. — 22 gennajo 1848. 132
Iscrizioni dettate pei funerali che Genova celebrò, il 22 di gennaio 1848, alle anime dei Lombardi uccisi in Milano e in Pavia. 134
Del Memoriale al Pontefice pei fatti di Sicilia. — 24 gennaio 1848. 136
L'Allocuzione dei Pari di Francia. — Adì detto. 139
Riforme nel Regno. — 25 gennajo 1848. 141
Consigli al re di Napoli. — 27 gennajo 1848. 145
Il passato e il presente di Napoli. — 31 gennajo 1848. 148
Palermo bombardata. — 31 gennajo 1848. 152
Il presente e il passato di Napoli. — 2 febbrajo 1848. 153
Il Carroccio, giornale delle provincie. — 31 gennajo 1848. 156
Allocuzione ai Napoletani. — 2 febbrajo 1848. 157
 
[546]
PARTE SECONDA.Tempi costituzionali.
 
Consigli ai principi e ai popoli. — 3 febbrajo 1848. 161
Del nuovo Ministero napoletano. — 3 febbrajo 1848. 163
Costituzione desiderata dagli Italiani. — 6 febbrajo 1848. 164
La Lombardia e il Metternich. — 7 febbrajo 1848. 167
Le Camere francesi. — 8 febbrajo 1848. 170
Sulla Costituzione conceduta in Piemonte. — 9 febbrajo 1848. 174
D'una marineria italiana. — 10 febbrajo 1848. 178
Di nuovo, del Ministero napoletano. — 10 febbrajo 1848. 181
Filosofia civile italiana. — 14 febbrajo 1848. 182
La Costituzione napolitana. — 16 febbrajo 1848. 183
D'una Dieta italiana. — 16 febbrajo 1848. 186
Questioni costituzionali. — 18 febbrajo 1848. 187
Agli Ungheresi. — 18 febbrajo 1848. 193
La Costituzione toscana. — 19 febbrajo 1848. 195
Della prossima legge sulla libertà della stampa. — 19 febbrajo 1848. 198
D'una crociata dei Russi. — 21 febbrajo 1848. 201
Del popolo. — 22 febbrajo 1848. 203
Dei dazj dannosi al popolo. — 22 febbrajo 1848. 207
Di Roma costituzionale. — 23 febbrajo 1848. 208
Carteggio tra Metternich e Palmerston. — 23 febbrajo 1848. 212
Di nuovo, di una Lega politica difensiva. — 16 febbrajo 1848. 216
Di nuovo, e sempre d'una Lega difensiva italiana. — 26 febbrajo 1848. 219
Ai Lombardi e Veneziani. — 28 febbrajo 1848. 221
Cenni d'una legge elettorale. — 1 marzo 1848. 224
Lettera ad Antonio Crocco, intorno agli ultimi casi di Francia. — 10 marzo 1848. 231
Ai signori Direttori dell'Epoca. — 11 aprile 1848. 263
Sulla guerra italiana. — 14 aprile 1848. 265
Di nuovo, sulla guerra italiana. — 17 aprile 1848. 267
Al generale Carlo Zucchi. — 20 aprile 1848. 269
Discorso sulla educazione del popolo. — 26 giugno 1848. 275
Discorso in difesa del Ministero. — 27 giugno 1848. 286
Discorso sulla rotta di Vicenza. — 6 luglio 1848. 288
Discorso in difesa del Ministero. — 21 luglio 1848. 296
Discorso sulla necessità della guerra. — 7 agosto 1848. 306
Discorso sopra tre modi straordinarj di difesa. — 11 agosto 1848. 309
Discorso sullo stato d'Italia. — 14 agosto 1848. 311
Esortazione ai Romani. — 12 agosto 1848. 315
Ai signori Direttori dell'Epoca. — 22 agosto 1848. 316
Rapporto in nome dei Commissarj deputati a scegliere e compilare le massime di un Patto federativo. 318
Progetto di uno schema d'Atto federale, redatto dal Congresso nazionale per la Confederazione italiana, radunatosi in Torino il 10 ottobre 1848. 324
Al re Carlo Alberto, il Congresso della Società nazionale per la Confederazione italiana. 327
Terenzio Mamiani a' suoi Elettori. 333
[547]
Alla Santità di Pio IX, Terenzio Mamiani. 355
Appendice. 366
Note e Documenti. 378
 
PARTE TERZA.Ultimi tempi.
 
Sulla disdetta dell'armistizio. — 20 marzo 1849. 405
Sulla necessità del confederarsi. — 27 marzo 1849. 406
Del partecipare alla guerra lombarda. — 27 marzo 1849. 409
Sulla verità nella politica. — 28 marzo 1849. 410
Invito alla conciliazione. — 3 aprile 1849. 412
Sulla guerra de' Napoletani contro i Siciliani. — 5 aprile 1849. 414
Del modo di ajutare la guerra. — 6 aprile 1849. 415
Sulla pena imposta ai Canonici di San Pietro. — 11 aprile 1849. 416
Studj sul progetto di Costituzione della Repubblica Romana. — 21 aprile 1849. 418
Sullo sbarco de' Francesi a Civitavecchia. — 26 aprile 1849. 427
Elogio funebre di re Carlo Alberto. 433
Agli Elettori di Pinerolo e del sesto Collegio di Genova. 473
Sul Papato, lettera ortodossa a Domenico Berti. 481
 
Appendice. 537

[548]

Recenti Pubblicazioni

VITA DI DANTE, scritta da Cesare Balbo: con le Annotazioni di Emmanuele Rocco. — Un volume. Paoli 7

FOSCOLO (Ugo). Epistolario, raccolto e ordinato da F. S. Orlandini e da E. Mayer. — Volume 1º. 7

VITA DI VITTORIO ALFIERI scritta da esso. Questa edizione, riscontrata accuratamente sull'autografo esistente nella Libreria Mediceo-Laurenziana, è arricchita di un'Appendice che contiene parecchie Lettere edite ed inedite di Vittorio Alfieri, ed alcune a lui dell'abate di Caluso (finora inedite) che riguardano principalmente gli studi che l'Alfieri faceva della lingua greca. — Un volume, col fac-simile della scrittura dell'Alfieri. 7

DAVANZATI (Bernardo). Le Opere, ridotte a corretta lezione coll'aiuto de' manoscritti e delle migliori stampe, e annotate per cura di Enrico Bindi. — Volume 1º. 7

TASSO (Torquato). Le Lettere, disposte per ordine di tempo ed illustrate da Cesare Guasti. — Volume 1º. 7

RACCOLTA ARTISTICA, pubblicata per cura di una Società di Amatori delle Arti belle. — Tomo IX. 7

CARCANO (Giulio). Angiola Maria, storia domestica. — Il Manoscritto del Vicecurato.Ida della Torre, episodio patrio. — La Nunziata, racconto campagnuolo. — Canzoni popolari e Armonie domestiche, inedite. — Un volume. 7

MACHIAVELLI (Niccolò). Le Opere minori, rivedute sulle migliori edizioni; con Note filologiche e critiche, ed un Avvertimento preliminare di F.-L. Polidori. — Un volume. 7

Prossime Pubblicazioni.

STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, di Giuseppe Maffei. Terza edizione originale, nuovamente rivista dall'Autore. — Saranno 2 volumi.

VINCENZO GIOBERTI. Del Buono e Del Bello. Edizione condotta sopra un esemplare rivisto dall'Autore. — Un volume.

MEMORIE dei più insigni PITTORI, SCULTORI E ARCHITETTI DOMENICANI, del P. Vincenzo Marchese, dello stesso Istituto. — Seconda edizione, con giunte e correzioni. — Due volumi.

NOVELLE CASALINGHE DI GIULIO CARCANO: Memorie d'un fanciullo. — Una povera tosa. — Il giovine sconosciuto.Benedetta.La vecchia della Mezzegra.La madre e il figlio.Un buon galantuomo.Rachele.Una simpatia.Tecla.Il Cappellano della Rovella.L'Ameda. — Un volume.

Aprile 1853.

NOTE:

1.  A Bologna, nel marzo del 1831, giunta la nuova del fatto d'armi di Rimini e sparsasi voce che i Tedeschi erano stati in quello respinti e assai maltrattati, già i facchini e altra gente minuta macchinavano d'impadronirsi d'alcune artiglierie poste sulla piazza del Gigante, e in tutte le case si ricavavano fuori le armi con indicibile audacia.

2.  Si accenna ai Cartisti inglesi e al loro Programma.

3.  Non molti mesi dopo la prima stampa di questi documenti, sparsesi voce d'una radunanza in Pisa di scienziati Italiani, proposta da alcuni benemeriti cittadini; alla qual voce à tenuto dietro, per gran ventura, il fatto. Ciò provi ai lettori nostri, che quanto noi proponiamo non è impossibile che venga all'atto se i buoni fermamente il vorranno.

4.  Questa privatissima lettera è qui stampata, perchè da alcune Gazzette fecesi pubblica con onesta intenzione, ma senza saputa dell'autor suo.

5.  Accenna all'istituzione della Consulta di stato con voce deliberativa in cose di Finanza.

6.  Da ultimo si trovò che le notizie corse avevano qualche buon fondamento.

7.  Cosa che l'autore tentò di eseguire entrato che fu nel governo.

8.  Che succedono agli Etrusci, ai Romani, ai Papi, alla rinascenza.

9.  Dell'Ontologia e del Metodo, Appendice, 1843.

10.  Venne poi la certezza di questi principj negata e disfatta dalla contraria natura non delle cose ma degli uomini; ed oggi è necessità ripetere con l'Autore: chi vuol correggere e riformare la Roma moderna pontificale, dia nuovi abitatori a Monte Cavallo.

11.  Quelli succeduti nel febbraio del 1848.

12.  In niuna parte d'Italia, era in que' giorni la stampa esente da censura.

13.  L'uso à raccolto e approvato questo latinismo non guari superfluo, perchè è termine proprio ed univoco, laddove tali non sono ordine, classe, grado, e se altri ve n'à.

14.  Ciò appena era scritto, quando comparve la Circolare del Lamartine agli ufficiali delle ambascerie francesi. Le parole ed il sentimento sono grandi e magnifici; ma la sostanza risponde alla previsione nostra: non pertanto la Nota del Lamartine farà scandalo nelle Corti. (Nota della prima edizione.)

15.  Nè Vienna ancora era insorta, nè Milano avea cacciato gli Austriaci.

16.  Giornale Romano, succeduto all'Italico.

17.  E così fece per appunto la nuova Dieta.

18.  In una corta discussione che precedeva il discorso. Vedi la Gazzetta di Roma.

19.  Il deputato Bianchini, chiaro scrittore, artista e filologo.

20.  Il professore F. Orioli, deputato di Viterbo.

21.  Pellegrino Rossi.

22.  Si accenna ai fatti sanguinosi del giugno del 48 in Parigi.

23.  Gli austriaci entrati grossi e minacciosi nel Ferrarese; e se ne discorre più sotto.

24.  Si tollerava che i Ministri ajutassero in silenzio e come di soppiatto la guerra, ma senza neppur nominarla.

25.  Ambedue le proposte furono tra vivi applausi accettate.

26.  Vedi qui appresso la proposta del Patto.

27.  Il Mamiani.

28.  Medesimamente il Mamiani.

29.  Non è scrittura dell'Autore, e solo si aggiunge per chiarire e intendere quel che precede.

30.  Vedi la Gazzetta di Roma, 17 agosto 1849.

31.  Questi atti si compivano il 22 e il 23 di dicembre del 1848.

32.  Veggansi le Note a pag. 378 e seguenti.

33.  Vedi nella Gazzetta Romana la tornata del 4 dicembre.

34.  La Legge Elettorale per la Costituente Italiana.

35.  Intendi quelle del Cavaignac.

36.  1849, data dell'edizione genovese di queste due lettere.

37.  Vedi Saggi di Filosofia Civile ec., pag. 113 e segg.

38.  San Paolo.

39.  Quello medesimo che leggesi a pag. 378 e seg.

40.  Il quale acconsentì poi nettamente e con zelo.

41.  Scritto appena giunte le prime e confuse nuove della rotta di Novara.

42.  Eadmeri, De Vitâ Anselmi, lib. 1, pag. 2.

43.  Carlo Alberto, Memorie ed osservazioni sulla guerra dell'Indipendenza d'Italia, pag. 122.

44.  Per vero, trascorsi appena due anni, è stato forza al Governo Sardo, perchè le istituzioni non vacillassero, di accostarsi a quelle persone che l'autore avea particolarmente lodate e raccomandate agli Elettori.

45.  Coppi, Discorso sul Consiglio e Senato di Roma, 1848, pag. 58.

46.  Leggi Della regolata devozione di L. Muratori.

47.  Vedi Graziano nel Can. I, dist. 53.

48.  Dictatus papæ.

49.  Vedi, fra le altre, la bolla: Lignum vitæ.

50.  Jacopo Stellini.

51.  Sessione XXIV, De Reformatione, Cap. II.

52.  Ezechiello, Cap. XXXVII.

53.  San Luca, Cap. I, 52, 53.

54.  Ai Galati, Cap. V, 13.

55.  San Giovanni, Cap. VIII, 32.

56.  San Matteo, Cap. V, 48.

57.  San Matteo, Cap. VI, 10.

58.  Apocalisse, Cap. XXI, 2 e 3.

59.  Geremia, Cap. XVII.

60.  Maccabei, Cap. IV; 11. Ester, Cap. XVI, 4.

61.  Ai Romani, Cap. VII, 6.

62.  La seconda ai Corintj, Cap. III, 6.

63.  Esodo, Cap. XVIII.

64.  San Giovanni, Cap. X.

65.  Epistola prima di San Pietro, Cap. V, 2.

66.  La prima ai Corintj, Cap. XIII.

67.  San Matteo, Cap. XV, 9 e 13.

68.  San Giovanni, la prima Epistola, Cap. III.

69.  San Giovanni, la prima Epistola, Cap. IV.

70.  Geremia, cap. XXXII.

71.  Geremia, Cap. XVII.

72.  Atti degli Apostoli, Cap. VI.

73.  Agli Efesj, Cap. IV.

74.  San Giovanni, Cap. XVII.

75.  Esdra, Cap. III.

76.  Note du Directeur. La Revue Britannique n'a pas prétendu accepter la responsabilité des articles de M. Mazzini sur l'Italie. Nous nous empressons donc de publier la lettre suivante que nous adresse le comte Mamiani, ancien ministre du gouvernement à Bologne. Nous espérons que M. Mazzini lui-même, qui est à Londres, et dont M. le comte Mamiani, pas plus que nous, n'inculpe la loyauté, s'empressera de faire insérer cette rectification dans le Magazine auquel la Revue Britannique avait emprunté sa lettre.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 62302 ***